Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.20610 del 19/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COSENTINO Antonello – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11391-2019 proposto da:

P.T., P.R., in proprio e quali eredi della sig.ra B.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SS PIETRO E PAOLO 50, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO TOMASSINI, rappresentati e difesi dall’avvocato ARMANDO AYALE;

– ricorrenti –

contro

D.N.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 7868/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata dell’11/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Con atto di citazione notificato in data 15 gennaio 2007, D.N. e P.C. evocavano B.M., ed i figli della stessa, P.T. e P.R., per sentirli condannare alla restituzione di Euro 40.000,00, quale doppio della caparra per respondabilità degli stessi convenuti per mancata conclusione del contratto definitivo (stipulato in data ***** contratto preliminare di compravendita tra le parti), oltre ad Euro 47.487,02 in favore della sola D. quali spese sostenute per acconto sul prezzo d’acquisto, avanzamento lavori ed acquisto e messa in opera di materiali, e di ulteriori Euro 5.000,00 quale penale dovuta ai promissari acquirenti della loro abitazione posta in vendita in occasione del nuovo acquisto, domanda che veniva rigettata dal Tribunale di Velletri.

Adita dagli originari attori, la Corte d’appello di Roma, nella resistenza dei P., in proprio e in qualità di eredi di B.M., in parziale accoglimento del gravame e in parziale riforma della sentenza di prime cure, dichiarava la risoluzione del contratto preliminare per mancata opposizione sul punto dei convenuti e condannava i promittenti venditori alla restituzione della somma di Euro 47.000,00, oltre interessi, avendo accertato che gli appellati non avevano ottenuto la sanatoria dell’immobile promesso in vendita, non esibita davanti al notaio neanche la domanda di condono, ma che non poteva essere considerate grave l’inadempimento dei proprietari per non essere stata contestata la presentazione di domanda di sanatoria nel 2004, né i promissari acquirenti avevano provato di avere offerto il saldo del prezzo, per cui veniva disposta la restituzione della sola somma documentata come versata per acconto prezzo.

Per la cassazione della sentenza di appello ricorrono i P., sulla base di due motivi.

E’ rimasta intimata la D..

Ritenuto che il ricorso potesse essere rigettato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata al difensore delle parti ricorrenti, il presidente ha fissato l’adunanza della Camera di consiglio.

ATTESO che:

va preliminarmente rilevato che il presente ricorso non risulta essere stato indirizzato nei confronti di P.C., parte del giudizio per entrambi i gradi di merito, con la conseguenza che il contraddittorio andrebbe integrato nei suoi confronti, non di meno, però, il rispetto del medesimo diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.), di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass. n. 15106 del 2013; conforme, Cass. Sez. Un. 6826 del 2010);

tanto chiarito, con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., artt. 1453 e 1385 c.c., per avere la corte di merito supposto che entrambe le parti avessero domandato la risoluzione del contratto preliminare e sul presupposto della mancanza di singoli specifici addebiti, mentre sussisterebbero tutti gli elementi per attribuire la responsabilità dell’inadempimento alla promissaria acquirente.

Con il secondo motivo viene dedotta la illogicità della motivazione in relazione agli artt. 132 e 156 c.p.c., oltre che dell’art. 1453 c.c., con conseguente nullità della sentenza in relazioni alle circostanze di cui al primo mezzo.

I due motivi – da trattare congiuntamente per la evidente connessione argomentativa – sono inammissibili prima che infondate.

Va precisato che il giudizio di Cassazione ha per sua natura la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito alle norme e ai principi di diritto, sicché sono precluse doglianze che postulino rivalutazioni delle indagini e degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 15196 del 2018).

Ciò posto, viene in rilievo come questa Corte ha già avuto modo di affermare in presenza di reciproche domande di risoluzione, fondate da ciascuna parte su determinati inadempimenti dell’altra, il giudice che accerta l’inesistenza dei singoli, specifici addebiti, non potendo pronunziare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell’impossibilità di esecuzione del contratto per effetto della scelta (ex art. 1453 c.c., comma 2), di entrambi i contraenti e decidere di conseguenza quanto agli effetti risolutori di cui all’art. 1458 c.c. (v. Cass. 18 maggio 2005 n. 10389; Cass. 16 febbraio 2001 n. 2304; Cass. 24 novembre 2000 n. 15167; Cass. 4 aprile 2000 n. 4089; Cass. 29 novembre 1994 n. 10217; Cass. 29 aprile 1993 n. 5065; Cass. 25 maggio 1992 n. 6230).

Il giudice deve in tale ipotesi far comunque luogo a declaratoria di risoluzione del contratto, in quanto le contrapposte manifestazioni di volontà, pur estranee ad un mutuo consenso negoziale risolutorio, attese le contrastanti premesse, sono tuttavia dirette all’identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale (v. Cass. 19 dicembre 2014 n. 26907, e, conformemente, Cass. 19 gennaio 2016 n. 767; cfr. con riferimento a contrapposte dichiarazioni di recesso, Cass. 26 luglio 2011 n. 16317 e Cass. 14 marzo 1988 n. 2435).

Come da questa Corte precisato (v. le citate Cass. n. 26907/2014 e Cass. n. 767/2016) pur non potendo propriamente dirsi che nella specie la “scelta” di entrambi i contraenti possa qualificarsi in termini di mutuo consenso o mutuo dissenso, quale atto di risoluzione convenzionale o accordo solutorio costituente espressione dell’autonomia negoziale dei privati, va osservato che essendo rimasta accertata la volontà di entrambe le parti, attestata dal relativo comportamento processuale deponente per la contrarietà (ciascuna per i suoi motivi e le sue valutazioni) a mantenere in vita il rapporto contrattuale ed autonomamente manifestate in giudizio dinanzi al giudice, il quale le ha raccolte, le ha interpretate, ne ha preso atto, correttamente la corte di merito ha ritenuto essere nella specie venuto meno l’incontro di volontà che sosteneva ed integrava il contratto e ne ha dichiarato la risoluzione, altresì precisando che per tale ragione andavano restituite solo le somme in concreto versate dalla promissaria acquirente.

Quanto poi al vizio di motivazione, l’interpretazione di questa Corte ha chiarito come l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Un. 8053 del 2014). Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017).

E d’altro canto, il principio desumibile dalle norme di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1, pur nelle formulazioni qui applicabili ratione temporis, secondo cui la motivazione della sentenza deve riassumere concisamente il contenuto sostanziale della controversia e gli elementi atti a giustificare le ragioni del decidere, induce ad escludere la nullità della pronuncia che rigetti le domande ritenendole non provate, facendo richiamo alle prove complessivamente acquisite, in quanto espressione del giudizio cui il giudice è pervenuto.

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Nessuna pronuncia sulle spese processuali in difetto di difese da parte della intimata.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. n. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2021

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