Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.20850 del 21/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1060/2019 proposto da:

M.F., P.M., MI.ST., T.M., elettivamente domiciliati in ROMA, V. OVIDIO 20, presso lo studio dell’avvocato LORENZO COLEINE, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

TELECOM ITALIA SPA, *****, elettivamente domiciliato in ROMA, V. GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato ATTILIO TAVERNITI, che lo rappresenta e difende;

FASTWEB SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, e rappresentato e difeso dagli avv.ti FRANCESCO PAPANDREA, e VALERIO STANISCI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 6872/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 03/03/2021 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto.

RILEVATO

che:

con atto di citazione notificato in data 27 marzo 2006, P.M., M.F. e Mi.St., in proprio e quali associati dello studio associato M.P. ed altri consulenti del lavoro, convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Roma Fastweb s.p.a. e Telecom Italia s.p.a. chiedendo, previa dichiarazione di inadempimento contrattuale e responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., il ripristino della linea telefonica ed, accertata la vessatorietà delle clausole limitative della responsabilità, il risarcimento del danno nella misura di Euro 10.000,00. Esposero gli attori di avere stipulato con Fastweb un contratto relativo a due linee telefoniche ed una relativa a fax e che a partire dal ***** una linea telefonica non solo risultava inutilizzabile, ma anche il relativo numero era stato assegnato, con contratto Telecom, ad altro utente operante del medesimo settore professionale degli attori. Il Tribunale adito accolse la domanda nei confronti di Fastweb per inadempimento contrattuale, con condanna al pagamento della somma di Euro 6.000,00 a titolo risarcitorio, e rigettò la domanda nei confronti di Telecom Italia. Avverso detta sentenza propose appello Fastweb s.p.a..

Con sentenza di data 25 ottobre 2018 la Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello, rigettò la domanda e condannò gli appellati al pagamento delle spese processuali in favore sia di Fastweb che Telecom liquidandole in favore di ciascuna in Euro 3.500,00 per il primo grado ed Euro 5.532,00 per il secondo grado, oltre accessori. Applicando il principio della ragione più liquida, osservò la corte territoriale che non vi era prova di un pregiudizio economico per gli attori, essendo “emerso dalla stessa prospettazione degli attori che lo studio non è rimasto isolato a causa della mancata attivazione di una delle tre linee telefoniche richieste a Fastweb, e tanto proprio per la piena funzionalità delle altre due (o di almeno una linea, quella che secondo Telecom è sempre stata funzionante ed indicata nell’elenco abbonati)”. Aggiunse che gli istanti non avevano inoltre provato una riduzione del fatturato da imputare presumibilmente alla perdita di clientela, sicché “un mero disagio, riferibile alla mancata disponibilità di una delle tre linee telefoniche di cui lo studio intendeva dotarsi stipulando il contratto con Fastweb, non può trasformarsi in un pregiudizio patrimoniale obiettivamente inesistente”.

Hanno proposto ricorso per cassazione P.M., M.F. e Mi.St., in proprio e quali associati dello studio associato M.P. ed altri consulenti del lavoro”, sulla base di due motivi e resistono con distinti controricorsi Fastweb s.p.a. e TIM s.p.a.. E’ stato fissato il ricorso in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.. Il pubblico ministero ha depositato le conclusioni scritte. E’ stata presentata memoria.

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226,1227,2056,2697 c.c., art. 115 c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Osserva la parte ricorrente che nell’atto introduttivo di primo grado e nelle successive memorie ai sensi dell’art. 183 c.p.c., era stato chiesto che il danno fosse ancorato ai seguenti parametri, dei quali solo gli ultimi due erano suscettibili di valutazione equitativa: a) penale contrattuale pari ad Euro 10,00 per ogni giorno di disservizio per un complessivo importo di Euro 3.960,00 (pag. 6 della citazione e pag. 12 memoria ai sensi dell’art. 183 n. 1); b) importo corrisposto per tre linee telefoniche, nonostante si disponesse solo di due linee; c) tempo impiegato, e dunque distolto dall’attività lavorativa, per la risoluzione del problema della linea telefonica, quantificato in funzione del fatturato annuo (in base alla dichiarazione dei redditi il guadagno medio giornaliero dello studio era di circa Euro 400,00, con quantificazione prudenziale di cinque ore di tempo per la risoluzione del problema). Aggiunge che la corte territoriale non ha distinto nel risarcimento fra la parte ancorata ad una quantificazione di tipo oggettivo, e cioè la penale prevista dalla Carta dei servizi Fastweb, e quella suscettibile di valutazione equitativa e che, quanto a quest’ultima, era stato fatto valere non il calo di fatturato, ma il tempo impiegato dal professionista per la risoluzione del problema.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,324,91 e 92 c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Osserva la parte ricorrente che in ordine alla penale prevista dal contratto vi è omessa pronuncia da parte del giudice di appello e che comunque si può ravvisare un giudicato interno circa la parte di danno liquidata dal giudice non a carattere equitativo in relazione alla mancata impugnazione da parte dell’appellante di tale parte di sentenza. Aggiunge che nel regolamento delle spese processuali si sarebbe dovuto tenere conto, alla luce del giudicato interno, della soccombenza degli appellanti con riferimento all’importo contrattualmente stabilito nonché di altri profili (rigetto dell’eccezione di incompetenza, la proposizione di istanza di conciliazione al Corecom Lazio) e che la condanna alle spese appare esagerata rispetto al valore della controversia.

I motivi, da valutare unitariamente in quanto connessi, sono inammissibili. La questione della clausola penale risulta proposta sia nel primo motivo, sotto il profilo della violazione del principio di onnicomprensività del risarcimento del danno, che nel secondo motivo, quale denuncia di omessa pronuncia. In violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, i ricorrenti non hanno però specificatamente indicato quale sia stata la motivazione della decisione di primo grado. Essi hanno solo a pag. 10 del ricorso valutato la decisione del Tribunale in termini di riconoscimento, all’interno dell’importo liquidato di Euro 6.000,00, anche della penale, ma si tratta per l’appunto di una valutazione e non dell’oggettiva illustrazione della ragioni di fatto e di diritto della decisione sul punto. Ne’ il Collegio, quanto meno per la violazione processuale denunciata con il secondo motivo, può accedere direttamente al fascicolo processuale, essendo tale facoltà consentita solo in presenza dell’assolvimento dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (fra le tante, da ultimo, Cass. n. 23834 del 2019). Si tratta di onere processuale determinante ai fini dello scrutinio del motivo perché, in mancanza di esso, non è possibile accertare se il Tribunale abbia statuito in ordine all’istanza avente ad oggetto la clausola penale, che il ricorrente assume, stavolta in adempimento dell’onere di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, di avere dedotto a pag. 6 dell’atto di citazione ed a pag. 12 della memoria ai sensi dell’art. 183, n. 1 (circostanze, queste ultime, che il Collegio avrebbe potuto e dovuto comunque verificare, con il diretto accesso agli atti, in presenza dell’assolvimento prioritariamente dell’onere relativo alla motivazione della decisione del Tribunale). Ne’ l’applicazione della clausola penale può desumersi dalla natura contrattuale della responsabile (cui pare riferirsi la parte ricorrente nella memoria), trattandosi di profilo neutrale quanto al contenuto della liquidazione risarcitoria.

L’obbligo infatti di pronunciare per il giudice di appello in ordine alla domanda sulla clausola penale, o comunque di valutare ai fini del danno risarcibile anche quello contemplato dalla clausola penale (assumendo in via puramente ipotetica che la clausola contemplasse anche la risarcibilità del danno ulteriore), presuppone che in ordine a tale istanza avesse pronunciato il giudice di primo grado. Se il Tribunale non avesse pronunciato in ordine alla clausola penale, considerata quale autonomo capo di domanda, o comunque avesse escluso dal danno risarcibile l’importo corrispondente alla penale, affinché la domanda fosse ancora sub iudice, sarebbe stato necessario l’appello incidentale (sull’omessa pronuncia). Il Collegio non può fare alcuna valutazione al riguardo perché appunto manca la specifica indicazione del contenuto della motivazione del Tribunale. Per le stesse ragioni non può essere scrutinato il motivo nella parte in cui fa riferimento ad un giudicato interno.

Nel primo motivo si censura anche la mancata considerazione, ai fini della liquidazione equitativa del danno, del pregiudizio corrispondente al tempo impiegato per la risoluzione del problema relativo alla linea telefonica, rispetto al quale la presenza della documentazione relativa alla dichiarazione dei redditi sarebbe stato elemento di fatto sufficiente per la liquidazione. Ai fini della denuncia di violazione dell’art. 1226, deve tuttavia passarsi prioritariamente per la denuncia di vizio motivazionale. Sotto il profilo dell’art. 360, comma 1, n. 5, la censura è inammissibile.

In primo luogo non risulta indicata in modo specifico la sede di introduzione nel processo della dichiarazione dei redditi in discorso. Sul punto va rammentato che, come affermato da Cass. sez. U. n. 8053 del 2014, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”. In secondo luogo la censura è carente di decisività perché non risulta impugnato, mediante apposita denuncia di vizio motivazionale, il giudizio di fatto del giudice di merito secondo cui l’attività professionale non ha subito alcun pregiudizio dalla mancata attivazione della terza linea telefonica e che pertanto il mero disagio non corrisponde ad un danno risarcibile. Alla luce di tale ratio decidendi, rimasta come si è detto non censurata in quanto tale, il tempo impiegato per la risoluzione del problema non è in grado di acquistare la rilevanza di danno risarcibile perché, in mancanza di un effettivo pregiudizio all’attività professionale, refluisce nel mero disagio di cui parla il giudice di appello. L’inammissibilità della censura in termini di vizio motivazionale determina l’assorbimento di quella per violazione di norma di diritto.

Quanto infine al profilo delle spese processuali, va rammentato che rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, e non è sindacabile in sede di legittimità, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti fissati dalle tariffe vigenti (sul punto i ricorrenti si dolgono genericamente del carattere “esagerato” della liquidazione, senza denunciare la violazioni dei limiti tariffari).

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di Fastweb s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di TIM s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021

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