Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.20970 del 22/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 5753/2014 R.G. proposto da F.G., rappresentato e difeso, giusta mandato in calce al ricorso, dall’Avv. Giuseppe Iannaccone e dall’Avv. Alberto Iadevaia, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Riccardo Rampioni, in Roma, Via Fasana, n. 16;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 124/11/2013, depositata il 12 luglio 2013;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 giugno 2021 dal Consigliere D’Orazio Luigi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Vitiello Mauro, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso limitatamente ai motivi n. 13, 15 e 16, con conseguentemente annullamento parziale della sentenza impugnata e rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia.

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto da F.G. avverso le sentenze della Commissione tributaria provinciale di Lodi (n. 171/1/11 e n. 181/1/11), che avevano rigettato, la prima, i ricorsi presentati dal contribuente contro gli avvisi di accertamento emessi nei suoi confronti per gli anni 2003 e 2004, e la relativa cartella, la seconda, i ricorsi contro gli atti di irrogatori di sanzioni, per i medesimi anni. In particolare, secondo il giudice d’appello non si era verificata la decadenza per la notificazione delle cartelle, in quanto i termini erano stati raddoppiati, in presenza di fatti costituenti reato, ai sensi del D.L. n. 223 del 2006; i fatti risultavano provati come emergeva dall’ordinanza applicativa della misura cautelare nei confronti del F. in data 13 dicembre 2005, dagli accertamenti della Guardia di Finanza, dalle dichiarazioni di B.F. e di C.R., oltre a quelle di Z.P., direttore generale della BPL Real Estate e di F.E.; inoltre, nel verbale della polizia tributaria di Milano era menzionato il decreto di autorizzazione dell’autorità giudiziaria all’utilizzo dei dati fiscali in sede penale; gli atti acquisiti dell’ufficio tributario non provenivano direttamente da segnalazioni, ma da relazioni della Guardia di Finanza nell’ambito di una sua attività investigativa; inoltre, le risultanze del processo penale concluso con l’applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art. 444 c.p.c., costituivano elemento di prova nel processo tributario; tra l’altro, vi erano le dichiarazioni confessorie dell’imputato ricorrente, che aveva ammesso di non essere estraneo alla dismissione dell’asset immobiliare BPL, dove era sorta la plusvalenza sottoposta a tassazione; il contribuente non aveva risposto all’invito alla compilazione del questionario inviatogli dall’Ufficio; non vi era stata violazione del principio della doppia presunzione; lo stesso F. aveva ammesso in sede di interrogatorio del 10 dicembre 2005, dinanzi al pubblico ministero, di aver ricevuto un pagamento in nero, estero su estero, di una decina di milioni, in realtà Euro 13.650.000,00 corrisposti dall’immobiliarista C.R., come da dichiarazioni rese da questo il 19 ottobre 2005. Non vi era stata duplicazione d’imposta, in quanto le imposte erano state calcolate per il primo anno (2003) sull’importo della plusvalenza accertata, per il secondo anno (2004) sull’importo degli interessi che detta somma tenuta all’estero aveva presuntivamente prodotto. Le eccezioni in ordine alla cartella erano infondate.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, che ha depositato anche memoria scritta in data 27 maggio 2021, non avendo presentato istanza di discussione orale, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate, depositando memoria scritta in data 1 giugno 2021.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto, poiché il periodo di riferimento è l’anno 2003, l’avviso di accertamento n. T9R01L100413, era stato notificato soltanto in data 7 gennaio 2010, quindi oltre il termine decadenza che era quello del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui era stata presentata la dichiarazione, ossia il 31 dicembre 2008, essendo stata presentata la dichiarazione dei redditi relativa al 2003, nell’anno 2004. Inoltre, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, il raddoppio dei termini poteva verificarsi solo a seguito della presentazione di denuncia dinanzi alla Procura della Repubblica per uno dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000. Ne’ l’ordinanza di custodia cautelare, né la sentenza di applicazione della pena su accordo delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.c., hanno fatto alcun riferimento ai reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000. Inoltre, la notizia di reato è emersa dopo che era decorso l’ordinario termine di accertamento. La sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, poi, non sarebbe vincolante, in quanto sentenza interpretativa di rigetto, non avente efficacia erga omnes.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2.Invero, il raddoppio dei termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., sez. 5, 28 giugno 2019, n. 17586).

Va anche osservato che i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per l’IRPEF e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, per l’IVA, come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, conv., con modif., in L. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se archiviata o tardiva, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, commi da 130 a 132, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, nella parte in cui fa salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni e degli inviti a comparire D.Lgs. n. 218 del 1997 ex art. 5, già notificati, dimostrando un “favor” del legislatore per il raddoppio dei termini se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quale il diritto di difesa, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 112 Cost. (Cass., sez. 6-5, 19 dicembre 2019, n. 33793).

Invero, non può ritenersi applicabile al rapporto tributario oggetto del presente giudizio la normativa successiva di cui al D.Lgs. n. 208 del 2015, art. 1, commi 130, 131 e 132 (c.d. legge di Stabilità 2016) che, dopo avere introdotto significative modifiche alla precedente disciplina in materia di termini per l’accertamento, ha, da un lato, espressamente disposto che tali modifiche si applicano agli avvisi relativi al periodo di imposta in corso alla data del 31 dicembre 2016 e ai periodi successivi; dall’altro, la medesima disposizione di cui al D.Lgs. cit., art. 1, comma 132, ha previsto, solo per gli avvisi di accertamento che devono ancora essere notificati, l’operatività, a pena di decadenza, del termine ordinario di 4 anni dalla presentazione della dichiarazione ovvero, in caso di omessa presentazione di dichiarazione o di dichiarazione nulla, di cinque anni da quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto esser presentata, consentendo espressamente il raddoppio di tali termini in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per alcuno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, purché la relativa denuncia da parte dell’Amministrazione Finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di Finanza, sia presentata o trasmessa entro la scadenza dei termini ordinari di accertamento di cui sopra.

La normativa sopra indicata non ha tuttavia modificato il regime transitorio introdotto dal D.Lgs. 3 agosto 2015, n. 128, art. 2, comma 3, che ha espressamente previsto che “sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle Entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto” (e cioè il 2.9.2015 certamente successiva alla data di notifica dell’avviso di accertamento oggetto del presente giudizio), con la conseguenza che, nel caso di specie, non può trovare applicazione la nuova disciplina introdotta con il citato D.Lgs. n. 208 del 2015 – ribadita solo per gli avvisi di accertamento “ancora da notificare” relativi ai periodi imposta precedenti a quelli in corso alla data del 31.12.2016 – che consente il raddoppio dei termini ordinari per gli accertamenti scaturenti da violazioni importanti obbligo di denuncia penale per reato tributario solo nel caso in cui tale denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza del termine ordinario di accertamento.

Pertanto, in relazione ad avvisi di accertamento notificati prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 128 del 2015 (come, nel caso di specie, in cui l’avviso di accertamento risulta notificato ben prima del 2015) si applica il testo previgente del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, con conseguente operatività del raddoppio dei termini in presenza di violazioni tali da far insorgere l’obbligo di denuncia per reato tributario, a prescindere dall’effettiva presentazione di tale denuncia e quale che sia l’epoca della sua presentazione.

1.4. Inoltre, non rileva in alcun modo che la notizia di reato sia emersa dopo il decorso dell’ordinario termine accertamento.

Infatti, per la Corte costituzionale (Corte Cost., 25 luglio 2011, n. 247) i termini raddoppiati di accertamento non costituiscono una proroga di quelli ordinari, ma sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, cioè ove sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari, senza che all’amministrazione finanziaria sia riservato alcuna margine di discrezionalità per la loro applicazione. I termini raddoppiati, quindi, non si innestano su quelli brevi, in base ad una scelta discrezionale degli uffici tributari, ma operano autonomamente allorché sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000. Non può dunque farsi riferimento alla riapertura o alla proroga di termini scaduti, né alla reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti, poiché i termini brevi e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono i diversi termini di accertamento. Pertanto, mentre i termini brevi di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, primi due commi, operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale di reati, i termini raddoppiati di cui allo stesso art. 57, comma 3, operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali vi è l’obbligo di denuncia.

Inoltre, il D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 26, non prevede una riapertura di termini di accertamento già scaduti, ma risolve solo una questione di successione di leggi nel tempo, senza dettare una disciplina sostanziale. La norma prevede che “le disposizioni di cui è commi….25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, commi 1 e 2 (…)”. In tal modo, dunque, non viene retroattivamente riaperto un termine già scaduto, ma viene solo escluso che il raddoppio dei termini si applica alle violazioni tributarie per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso il termine di accertamento previsto dalla normativa anteriore.

Pertanto, il raddoppio del termine, costituendo un termine del tutto slegato dai termini ordinari di accertamento, perché opera in via automatica al verificarsi del presupposto della sussistenza di illeciti penali, anche per consentire al giudice tributario di utilizzare elementi istruttori delle indagini penali nel frattempo espletate, può operare anche se la notizia di reato è emersa dopo la scadenza del termine ordinario di decadenza.

Tra l’altro, si rileva che tra le ipotesi di reato deve essere compresa anche quella relativa alla omessa menzione nella dichiarazione dei redditi della plusvalenza proveniente dall’estero per la somma di Euro 13.650.000,00, con riferimento all’anno 2003, oltre agli interessi su tale somma, al tasso ufficiale di sconto del 2 %, per l’anno 2004 (Euro 273.000,00).

Del resto, ai sensi del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4 (dichiarazione infedele) “fuori dei casi previsti dagli artt. 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente: a) imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro 103.291,38; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a Euro 2.065.827,60”.

Pertanto, erano integrati, in astratto, i parametri indicati dalla suddetta norma. Infatti, la plusvalenza realizzata era di Euro 13.650.000,00.

2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “nullità della sentenza o del procedimento per violazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, nonché degli artt. 132 e 161 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto nel ricorso in appello avverso la sentenza n. 181/2011 della CTP, in relazione alla irrogazione delle sanzioni, per il periodo d’imposta 2003, l’atto di contestazione delle sanzioni era stato notificato dall’Ufficio oltre il termine di decadenza fissato, per l’anno 2003, al 31 dicembre 2008. Il giudice d’appello, sul punto, ha ritenuto che “si ritiene che anche la notifica degli atti, per l’anno 2003, avvenuta il 7 gennaio 2010, è avvenuta in tempo, essendo il termine decadenza 31 dicembre 2003, ben oltre la data in cui è avvenuta notifica”. Pertanto, vi sarebbe un difetto assoluto di motivazione sul punto.

3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” in quanto, la sanzione irrogata era chiaramente collegata all’imposta, sicché il termine di decadenza per la notifica dell’atto di contestazione della sanzione era lo stesso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi, ormai decorso.

4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “nullità della sentenza o del procedimento per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4” in quanto, con due dei quattro ricorsi introduttivi del presente giudizio, il contribuente ha eccepito l’inesistenza della notifica dei due atti di irrogazione di sanzioni, in violazione della L. 20 novembre 1982, n. 390. In particolare, sulla busta di spedizione non vi era l’apposizione del numero del registro cronologico né della sottoscrizione del soggetto che aveva effettuato la notifica (ufficio o omesso o ufficiale giudiziario). Il giudice di appello avrebbe omesso di pronunciare su tali questioni.

4.1. Quanto ai motivi secondo, terzo e quarto, deve pronunciarsi la cessazione della materia del contendere, in quanto il contribuente ha aderito alla definizione agevolata (“rottamazione delle cartelle”) di cui al D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, convertito in L. 1 dicembre 2016, n. 225, definendo la cartella n. 10220100042343907 dell’importo di Euro 10.713.560,43, con il versamento della somma di Euro 91.513,55 (cfr. allegato 5 della memoria). La cartella era stata emessa da Equitalia Sardegna s.p.a. in relazione alle sanzioni irrogate nei confronti del contribuente per gli anni 2003 (T9RIRL100002 per Euro 6.825.000,00) e 2004 (T9RIRL100003 per Euro 3.415.500,00). Il procedimento di rottamazione è stato confermato dall’Agente della Riscossione con il documento AT-10290201701383752103 del 1 luglio 2017, in riscontro alla dichiarazione di adesione del F. del 23 marzo 2017.

5. Con il quinte motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del combinato disposto della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, e degli artt. 24 e 113 Cost., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” in quanto il giudice d’appello non ha erroneamente rilevato il grave vizio di carenza assoluta di motivazione degli avvisi di accertamento e degli atti di irrogazione delle sanzioni impugnati. Vi sarebbe, dunque assoluta mancanza di motivazione dei quattro atti impositivi impugnati in particolare, il giudice d’appello, nel ritenere congruamente motivati gli avvisi di accertamento, non ha tenuto conto che l’Ufficio ha utilizzato alcuni stralci dell’ordinanza cautelare, senza che fosse stato addotto alcun elemento certo a dimostrazione che il contribuente avesse percepito l’importo di Euro 13.650.000, in relazione alla operazione Mizar. L’Ufficio, poi, non ha nemmeno allegato l’ordinanza cautelare, né gli stralci degli interrogatori svoltisi in sede penale. L’ufficio non ha dunque supportato la sua motivazione con ulteriori elementi probatori.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. Anzitutto, si rileva, che il motivo è inammissibile, in quanto il ricorrente non ha riportato, neppure per stralcio, il contenuto degli atti impositivi, sì da non consentire a questa corte di valutare la legittimità degli stessi, sotto il profilo della motivazione.

Inoltre, si evidenzia che il giudice d’appello, con idoneo e congruo accertamento di fatto, che non può essere rivisitato in questa sede, ha accertato che “relativamente alla mancanza di motivazione degli avvisi di accertamento, si constata che essi hanno tutti i requisiti previsti dalla normativa… la ricostruzione dei fatti, riproposta in appello dal contribuente, è del tutto diversa da quanto risulta dall’ordinanza applicativa delle misure cautelari del 13 dicembre 2005, dagli accertamenti della Guardia di Finanza, dalle dichiarazioni dei signori B.F., della Divisione Crediti della BPI/BPL, dal sig. C.R., da Z.P., direttore generale della BPL Real Estate, dall’imprenditore F.E. e che, quest’ultime dichiarazioni non sono state mai smentite da alcun successivo atto di indagine o di accertamento penale che trovano conferma della sentenza di patteggiamento”.

5.3. Va sottolineato che, per questa Corte, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 2, richiede l’indicazione nell’avviso di accertamento non soltanto degli estremi del titolo e della pretesa impositiva, ma anche dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, al fine di porre il contribuente in condizione di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale e, in caso positivo, di contestare efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur”. Tali elementi conoscitivi devono essere forniti non solo tempestivamente (“ab origine” nel provvedimento) ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta all’interessato un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa (Cass., sez. 5, 24 luglio 2014, n. 16836).

Infatti, la motivazione dell’avviso di accertamento assolve ad una pluralità di funzioni atteso che garantisce il diritto di difesa del contribuente, delimitando l’ambito delle ragioni deducibili dall’ufficio nella successiva fase processuale contenziosa, consente una corretta dialettica processuale, presupponendo l’onere di enunciare i motivi di ricorso, a pena di inammissibilità, e la presenza di leggibili argomentazioni dell’atto amministrativo, contrapposte a quelle fondanti l’impugnazione, e, infine, assicura, in ossequio al principio costituzionale di buona amministrazione, un’azione amministrativa efficiente e congrua alle finalità della legge, permettendo di comprendere la “ratio” della decisione adottata (Cass., sez. 5, 17 ottobre 2014, n. 22003). Si è chiarito che la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dalla L. 27 luglio 2002, n. 212, art. 7, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l'”an” ed il “quantum” della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze, mentre le questioni attinenti all’idoneità del criterio applicato in concreto attengono al diverso piano della prova della pretesa tributaria (Cass., sez. 5, 7 maggio 2014, n. 9810).

Inoltre, deve precisarsi che la motivazione dell’avviso di accertamento, funzionale al contraddittorio con il contribuente, deve distinguersi ovviamente dall’istruttoria processuale, che è la sede in cui le parti devono dimostrare la fondatezza delle proprie ragioni.

5.3. Nella specie, peraltro, dalla sentenza impugnata emerge che nell’avviso di accertamento si fava riferimento all’ordinanza applicativa della custodia cautelare ed alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.c., sicché erano chiari gli elementi da cui l’Ufficio ha dedotto l’esistenza di una plusvalenza non dichiarata dal contribuente; senza contare che il ricorrente era pienamente a conoscenza della pendenza del giudizio penale aperto nei suoi confronti, essendo il destinatario dell’ordinanza di misura cautelare ed avendo chiesto l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.c., oltre ad aver reso ampia confessione in sede penale in ordine ai fatti a lui ascritti.

6. Con il sesto motivo di impugnazione ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, comma 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” in quanto il giudice d’appello non ha rilevato l’illegittimità dei due avvisi di accertamento e dei due atti di irrogazione di sanzioni, impugnati per mancanza dell’autorizzazione del giudice delle indagini preliminari.

6.1. Il motivo è infondato.

6.2. Invero, per questa Corte l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, comma 3, per la trasmissione, agli uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che la mancanza dell’autorizzazione, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi (Cass., sez. 5, 17 dicembre 2001, n. 15914; Cass. sez. 5, 11 giugno 2003, n. 9320, per il caso in cui l’autorizzazione sia stata rilasciata dal pubblico ministero anziché dal giudice per le indagini preliminari; Cass., sez. 5, 6 novembre 2002, n. 15538, per cui nessuna conseguenza può derivare dall’incompetenza dell’organo inquirente che la concessa, atteso che neppure l’eventuale mancanza dell’autorizzazione tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi). La mancata osservanza delle prescrizioni del c.p.p., rilevante al fine della possibilità di utilizzare in sede penale i risultati dell’indagine, non incide, purché non siano violate le disposizioni del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 52 e 63, sul potere degli uffici finanziari e del giudice tributario di avvalersene a fini meramente fiscali, senza che ciò costituisca violazione dell’art. 24 Cost. (Cass., sez. 5, 16 aprile 2007, n. 8990; Cass., sez. 5, 17 gennaio 2018, n. 959).

7. Con il settimo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” in quanto il giudice d’appello avrebbe dovuto rilevare l’illegittimità dei due avvisi di accertamento e dei due atti di irrogazione di sanzioni in quanto fondati su dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari, non utilizzabili nel processo tributario.

7.1. Il motivo è infondato.

7.1. Invero, per questa Corte, nel giudizio tributario, il materiale probatorio acquisito nel corso delle indagini preliminari con strumenti propri del procedimento penale è utilizzabile ai fini della prova della pretesa fiscale, in quanto l’atto legittimamente assunto in sede penale, poi trasmesso all’Amministrazione finanziaria, rientra tra gli elementi che il giudice deve valutare ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63 (Cass.,sez. 5, 5 aprile 2019, n. 9593; Cass., sez. 5, 29 maggio 2003, n. 8602).

8. Con l’ottavo motivo di impugnazione ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e dell’art. 3 Cost., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” in quanto il giudice d’appello non ha rilevato l’illegittimità degli atti impositivi per violazione del diritto di difesa del contribuente. In particolare, le dichiarazioni rese nell’ambito delle indagini preliminari non possono costituire prova in ambito tributario. Il D.Lgs. n. 547 1992, art. 7, comma 4, prevede che “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”.

8.1. Il motivo è infondato.

8.2. Invero, per questa Corte, nel processo tributario il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, non osta alla produzione sia da parte dell’Amministrazione finanziaria che, in ragione dei principi del giusto processo ex art. 111 Cost., del contribuente, di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale che assumono valenza indiziaria sul piano probatorio (Cass., sez. 6-5, 20 maggio 2020, n. 9316; Cass. sez. 5, 27 maggio 2020, n. 9903; Cass., sez. 6-5, 19 novembre 2018, n. 29757; Cass., sez. 5, 30 settembre 2011, n. 20028; Cass., 20 aprile 2007, n. 9402;). Le dichiarazioni extra processuali rese da soggetti terzi rispetto alle parti in causa costituiscono prove atipiche, le quali, oltre che soggette alla generale valutazione di attendibilità intrinseca e di compatibilità logica tra le stesse, hanno in ogni caso il valore probatorio proprio degli elementi indiziari; sicché, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, secondo l’espressa affermazione contenuta nella pronuncia della Corte costituzionale n. 18 del 2000 (Cass., sez. 5, n. 26140 del 2017). Per la Corte costituzionale n. 18/2000 la limitazione probatoria stabilita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale. Tali dichiarazioni, rese al di fuori e prima del processo, sono essenzialmente diverse della prova testimoniale, che è necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio. Il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dalla Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento e’, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari. Del resto, il contribuente può, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale.

8.3. Inoltre, nell’ambito del principio espresso dall’art. 116 c.p.c., il giudice tributario ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti dalla confessione resa in sede penale dall’imputato, ricorrente avverso l’atto impositivo, e ciò al fine di trarne non solo semplici indizi ma anche valore di prova esclusiva (Cass., sez. 5, 11 giugno 2003, n. 9320; Cass., sez. 5, 5 maggio 2001, n. 9876).

Si è anche affermato che, in tema di contenzioso tributario, l’utilizzazione da parte del giudice tributario, a fini probatori, della confessione resa in sede penale dal rappresentante legale della società ricorrente, non viola il divieto di prova testimoniale nel processo tributario” atteso che il rapporto di immedesimazione organica, che lega il rappresentante legale con la società rappresentata, esclude che il primo possa essere qualificato come testimone, con riferimento ad attività poste in essere dalla società (Cass., sez. 1, 23 luglio 1999, n. 7964; Cass., sez. 5, 4 aprile 2008, n. 8772).

9. Con il nono motivo di impugnazione ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione delle norme di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 40, comma 1, art. 41 bis e art. 42, commi 2 e 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto gli avvisi di accertamento notificati al contribuente, per gli anni 2003 e 2004, in relazione all’operazione Mizar, sono stati emanati in forza del potere conferito agli uffici impositori, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis. Tale disposizione configura, però, una deroga al principio di tendenziale unicità e globalità dell’atto di accertamento, al preciso scopo di fornire agli organi deputati al controllo delle dichiarazioni dei redditi, uno strumento di rettifica più snello. Tuttavia, tale potere rimane vincolato al rispetto delle regole generali imposte in materia di accertamento. Le segnalazioni, dunque, devono avere un contenuto tale da permettere di procedere al confezionamento dell’atto, sulla base di una verifica elementare, senza ricorrere ad elaborazione di una certa complessità, in modo da raggiungere un adeguato grado di certezza probatoria in ordine fatti su cui si fonda l’accertamento. Anche in sede di accertamento parziale, le presunzioni semplici devono consentire di risalire da un fatto noto, ad uno ignorato, attraverso una regola di esperienza. Nella specie, però, l’ufficio ha esercitato il proprio potere in modo arbitrario e pretestuoso, assumendo quale presupposto delle rettifiche una ricostruzione dei fatti, frutto di mere congetture e di presunzioni prive di qualsiasi riscontro effettivo e, comunque, fondate solo su ulteriori presunzioni semplici. La stessa sentenza di patteggiamento non contiene alcuna valutazione di merito, sicché sarebbe stata utilizzata dall’ufficio in modo strumentale fuorviante. Inoltre, sarebbe erroneo anche il riferimento al Tuir, art. 87, comma 1, lett. C, mentre l’esatto riferimento normativo era il Tuir, art. 81, comma uno, lett. C. Non vi sarebbe la prova della titolarità da parte del ricorrente della partecipazione al capitale sociale della Yol, detentrice della partecipazione nella Mizar. Mancherebbe, dunque, la dimostrazione che il contribuente abbia effettivamente percepito l’importo di Euro 13.650.000,00, ritenuto dall’Agenzia plusvalenza realizzata.

9.1. Il motivo è infondato.

9.2. Sul punto, per questa Corte l’accertamento parziale dell’IVA, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 5, è uno strumento diretto a perseguire la sollecita emersione della materia imponibile, laddove le attività istruttorie non richiedano, per la loro oggettiva consistenza, ulteriori valutazioni, sicché, anche nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 311 del 2004, può essere fondato pure su una verifica generale, che abbia dato luogo ad un processo verbale di constatazione, in quanto la segnalazione degli organi indicati costituisce un semplice atto di comunicazione, distinto dall’attività istruttoria, da esso necessariamente presupposta (Cass. Civ., 28 ottobre 2015, n. 21992).

Peraltro, l’accertamento parziale dell’IVA e delle imposte dirette è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al “mero recepimento” del contenuto della segnalazione della Guardia di finanza, che fornisca elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, sicché, nel confronto con gli altri strumenti accertativi, risulta qualitativamente diverso poiché si vale di una sorta di “automatismo argomentativo”, per modo che il confezionamento dell’atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione, senza necessità ulteriore approfondimento (Cass.Civ., 10 febbraio 2016, n. 2633).

Inoltre, si è precisato che anche in caso di avviso di accertamento parziale può procedersi con il metodo “induttivo”, in quanto l’art. 41 bis “non prevede limiti in relazione al metodo di accertamento ed inoltre l’accertamento induttivo è consentito, in linea di principio, anche in presenza di contabilità tenuta regolarmente” (Cass.Civ., 5 febbraio 2009, n. 2761, in motivazione; Cass., sez. 6-5, 4 aprile 2018, n. 8406; Cass., sez., 5, 7 novembre 2019, n. 28681; Cass., sez. 5, 28 ottobre 2015, n. 21984).

9.3. La segnalazione proveniente dalla Guardia di Finanza ha avuto ad oggetto reati commessi dal contribuente, il quale è stato non soltanto destinatario di una misura di custodia cautelare, ma ha anche chiesto, unitamente ai coimputati, l’applicazione nei suoi confronti della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.c..

9.4. Per questa Corte, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd. “patteggiamento”) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale vi abbia prestato fede. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità dell’accertamento (Cass., sez. 5, 24 maggio 2017, n. 13034).

9.5. Inoltre, attraverso le deposizioni dei testi (sommari informatori), la confessione del contribuente e le dichiarazioni degli altri coimputati, è stato ricostruito il sistema dell’operazione Mizar. Il F., quale amministratore delegato di BPL ed incaricato dal consiglio di amministrazione della società di BPL Reale Estate aveva avuto l’incarico di alienare la società Mizar, proprietaria degli assetti immobiliari, acquisiti dalla società Casse del Tirreno. La Mizar era stata costituita il 2-12-2002 dalla Basileus, società controllata integralmente da BPL Real Estate. Il F. ha ammesso di essere il socio occulto della Yol Trading Corp.

Il contribuente ha interposto fittiziamente nella vendita la Yol Trading Corporation, oltre a M. e C.. In particolare, proprio per impedire che venisse alla luce la plusvalenza in nero, il contribuente, prima della definitiva cessione al C. delle quote Mizar, ha fatto sì che la BPL le cedesse alla Yol Trading il 7-5-2003, mentre dopo un mese, il 23-6-2003, sono rientrate nel capitale della Mizar, tramite conferimento di ramo di azienda, e poi, dopo due giorni, il 25-6-2003, la BPL le ha rivendute alla Yol Trading.

Successivamente le quote della Mizar sono state vendute a C.R., che le ha acquistate con la Cresen il 5-11-2003, dopo aver trattato l’operazione con Q., prestanome di F. alle seguenti condizioni: 50 milioni quale accollo del finanziamento di Efibanca; 1 milione quale corrispettivo puramente formale da scrivere nel rogito notarile, con assegni circolari consegnati nei primi di ottobre del 2003 nelle mani di Q.; Euro 13.650.000 versati estero su estero in nero a F.; due assegni circolari, tratti sul conto Coconuts in BPL Suisse, riferibile a C., rispettivamente di 3 ed 8 milioni di Euro intestati a G.; Euro 2.750.000 dal conto Ben.Ben in BPI Suisse riferibile a F., prestanome di C.; in tal modo il contribuente ha realizzato in proprio ed in nero la plusvalenza di Euro 13.650.000.

Per tale ragione, è stato prima emesso l’avviso di accertamento n. T9R01L100413/2009 in data 29 dicembre 2009, con il quale è stato accertato che proprio il F. era il reale percettore della plusvalenza realizzata pari ad Euro 13.650.000, con un reddito imponibile pari ad Euro 15.504.048,00, con maggiore Irpef per Euro 6.142.500. Poi è stato emesso l’atto di contestazione n. T9RC0L100258, con il quale, per i medesimi motivi, è stata irrogata la sanzione amministrativa pecuniaria pari ad Euro 6.825.000, prevista dal D.L. n. 167 del 1990, art. 5, commi 4 e 5, per l’omessa dichiarazione nel quadro RW degli investimenti detenuti all’estero, per l’anno 2003. In relazione, invece, all’anno 2004, l’Ufficio ha notificato altro avviso di accertamento in data 29 dicembre 2009 (n. T9R01L100510/2009), in base al quale, poiché il contribuente era stato il reale percettore della plusvalenza realizzata per Euro 13.350.000,00, ai sensi del D.L. n. 167 del 1990, art. 6, le somme di denaro trasferite o costituite all’estero, senza che ne risultino dichiarati redditi effettivi, si presumono, salvo prova contraria, fruttifere in misura pari al tasso ufficiale medio di sconto vigente in Italia nel relativo periodo di imposta. Poiché detto tasso ufficiale di sconto dell’anno 2004 era pari al 2%, sono stati quantificati redditi di capitale prodotte sensi dell’art. 44, comma 1, lett. a, in Euro 273.000,00, ossia il 2% degli investimenti detenuti all’estero e pari ad Euro 13.650.000,00. Pertanto, v’e’ stata ripresa a tassazione quali redditi di capitale l’importo di Euro 273.000. E’ stato poi emesso il successivo atto di contestazione n. T9RC0L100259 con il quale, per i medesimi motivi, è stata irrogata la sanzione amministrativa pecuniaria pari ad Euro 3.412.500, prevista dal D.L. n. 167 del 1990, art. 5, comma 4, per l’omessa dichiarazione nel quadro RW degli investimenti detenuti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria.

Successivamente, in data 14 luglio 2010 sono stati notificati i due atti di irrogazione di sanzioni per gli anni rispettivamente 2002 e 2003. Infine, è stata notificata la cartella di pagamento, con iscrizione a ruolo provvisorio è straordinario ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15 bis.

Il C., acquirente delle quote della Mizar, ha riferito del pagamento in nero, estero su estero, in favore del contribuente F. per la somma di Euro 13.350.000, evidenziando che in tal modo aveva risparmiato oltre 5 milioni di Euro. Infatti, l’alternativa agli Euro 64.350.000 era il pagamento di Euro 70 milioni senza alcun nero.

Nelle dichiarazioni in data 10 ottobre 2005 il F. ha affermato: “in ordine all’operazione immobiliare Casse del Tirreno riferita da un testimone che afferma che ci sarebbe stato un nero di 11 milioni circa in nero, dichiaro che effettivamente proposi l’operazione a M. che intervenne con la società Yol”.

Inoltre, nelle dichiarazioni rese dal F. in data 17 ottobre 2005 lo stesso ha riferito che “con M. e con la società Yol mi sentivo sostanzialmente socio. Dico questo perché il denaro che dalla banca di Lugano tramite G. perviene alla Unione Fiduciaria… in parte è mio e deriva dalle plusvalenze nere dell’operazione Mizar- C.”.

Il giudice d’appello, dunque, ha correttamente utilizzato per la sua motivazione gli atti presenti nel fascicolo e, segnatamente, la sentenza di patteggiamento e l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti del F. (cfr. pagina 3 dello svolgimento del processo della sentenza della CTR ” nel merito, constatano che è lo stesso contribuente ad affermare, in sede di interrogatorio, di aver ottenuto un pagamento in nero, estero su estero, della somma ripresa a tassazione. Somma corrisposta dall’immobiliarista C.R. per l’alienazione di un patrimonio immobiliare della BPL Real Estate s.r.l. patrimonio che, al posto di essere ceduto al miglior offerente, come sarebbe stato logico nell’interesse della stessa BPL, fu ceduto alla Mizar immobiliare Srl, le cui quote appartenevano a società di cui il F., pur non risultante giuridicamente socio, ammetteva, in sede di interrogatorio, di essere socio occulto della società. Egli ammette che la somma riscossa in nero è rimaste Svizzera e di essa è stato sempre il controllore”).

L’errore materiale contenuto nell’avviso di accertamento, in relazione alla norma invocata, non inficia in alcun modo la motivazione della sentenza d’appello.

10. Con il decimo motivo di impugnazione il contribuente deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 c.c. e ss. del e del D.P.R. n. 300 del 1973, art. 42, comma 2, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il giudice d’appello avrebbe utilizzato una duplice presunzione. Secondo il ricorrente l’avviso di accertamento sarebbe fondato non su fatti, ma esclusivamente su opinioni, su indizi e su semplici presunzioni fondate, a loro volta, su ulteriori presunzione, in violazione del principio “presumptum de praesumpto non admittur”.

10.1. Il motivo è infondato.

10.2.Va premesso che nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado (praesumptum de praesumpto non admittitur), in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma e ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di una ulteriore presunzione idonea, in quanto a sua volta adeguata, a fondare l’accertamento del fatto ignoto (Cass., sez. 5, 1 agosto 2019, n. 20748; Cass., sez. 5, 16 giugno 2017, n. 15003). Il fatto noto, accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché “gravi, precise e concordanti”, a sensi dell’art. 2729 c.c., può legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea a fondare l’accertamento del fatto ignoto (Cass., n. 18915, n. 17166, n. 17164, n. 1289, n. 983 del 2015). Invero, nel caso in esame, il giudice di appello si è mosso da un fatto “noto”, accertato in base alla sussistenza di presunzioni “gravi, precise e concordanti”, per poi desumere l’esistenza di un fatto ignoto.

Le presunzioni erano, infatti, caratterizzate da gravità, precisione e concordanza, dovendosi tener conto delle dichiarazioni confessori è del contribuente, delle dichiarazioni degli altri coimputati, delle deposizioni delle persone informate sui fatti, dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere e della sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p.

11. Con l’undicesimo motivo il ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in connessione con il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 1, e degli artt. 99 e 101 c.p.c. e dell’art. (2947) c.c., sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” in quanto il ricorrente aveva eccepito un vizio di ultrapetizione da parte del primo giudice. Infatti, i giudici di prime cure avevano posto a fondamento della loro decisione un elemento (che il contribuente avesse agito dietro lo schermo societario della società Yol Trading Limited) che, invece, non era mai emerso negli atti impositivi impugnati, caratterizzati, peraltro, da una carenza assoluta di motivazione. Il giudice d’appello, ha invece ritenuto insussistente la violazione dell’art. 112 c.p.c.. In realtà, invece, vi è stata una rielaborazione ed una illegittima riqualificazione della fattispecie da parte del giudice di primo grado, che ha travalicato i limiti del petitum. Nella motivazione degli atti impositivi si è affermato soltanto che una parte del corrispettivo delle azioni Mizar, pari ad Euro 11 milioni “fu versata, attraverso l’intermediazione di una società offshore costituita ad hoc (la Coconuts LTD), nelle mani di un avvocato fiduciario della Yol Trading e da questa rigirate al F….”. Non vi è accenno, però, in tale motivazione del presunto ruolo delle F. come socio occulto della società Yol Trading, né che quest’ultima fosse uno schermo societario della quale sarebbe celato il contribuente.

11. Il motivo è infondato.

11.1. Non v’e’ stata, infatti, alcuna extrapetizione né da parte dei giudici di primo grado, né da parte del giudice d’appello, in quanto entrambi si sono limitati a qualificare giuridicamente i fatti, peraltro pacifici, che hanno caratterizzato l’operazione Mizar, per come riportati nel paragrafo 9.

12. Con il dodicesimo motivo il ricorrente si duole della “nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto il contribuente aveva eccepito nel giudizio di appello la mancanza di motivazione nonché l’illegittimità della sentenza della CTP n. 181/2011, concernente l’impugnazione dei due atti di irrogazione di sanzioni, in quanto con tale sentenza i giudici di prime cure non erano entrati nel merito della materia, ma si erano limitati ad effettuare un mero rinvio alla sentenza n. 171/2011, che aveva deciso invece l’impugnazione dei due avvisi di accertamento, anch’essi oggetto del presente giudizio. Tale mero rinvio e, di conseguenza, l’assenza di motivazione della sentenza, era stato specificamente contestato dal contribuente. La Commissione tributaria regionale, invece, ha omesso di affrontare tale specifico motivo di impugnazione in appello della sentenza n. 131/2011. Il giudice d’appello, pur avendo indicato espressamente, nello svolgimento del processo, anche tale specifico motivo di appello, ha indebitamente omesso di pronunciarsi su tali eccezioni di merito dei due atti di irrogazione di sanzioni.

12.1. Con riferimento al dodicesimo motivo, attinente alle sanzioni, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere per avere aderito il contribuente alla definizione agevolata di cui al D.L. 22 ottobre 2016, n. 193.

13. Con il tredicesimo motivo il ricorrente deduce la “nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto l’Agenzia delle entrate ha assoggettato a tassazione la plusvalenza, considerando il presunto reddito quale reddito diverso, che avrebbe dovuto essere indicato nel quadro L sez. I del modello unico, da sottoporre a tassazione ordinaria, con l’aliquota quindi progressiva per scaglioni. In realtà, trattandosi di plusvalenza, doveva essere assoggettata d’imposta sostitutiva nella misura del 27%, con un’imposta teorica quindi determinabile in Euro 2.160.000, e non già pari ad Euro 6.142.500, come erroneamente liquidata dall’ufficio nell’avviso di accertamento notificato operano 2003, con una differenza di maggiore imposta pretesa almeno pari ad Euro 3.982.500,00. Il giudice d’appello ha omesso di pronunciarsi su tale motivo di ricorso.

13.1. Il motivo è inammissibile.

13.2. Invero, non risulta in alcun modo che il contribuente abbia contestato l’ammontare dell’imposta relativa la plusvalenza nel ricorso introduttivo del giudizio.

Il motivo, dunque, è nuovo e, conseguentemente, inammissibile.

14. Con il quattordicesimo motivo il ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 127, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto l’accertamento dell’ufficio ha comportato una duplicazione d’imposta in violazione del divieto di doppia imposizione di cui al D.P.R. n. 917 1986, art. 127. Infatti, la plusvalenza è già stata sottoposta a tassazione dalla stessa società Yol Trading, essendosi realizzata in capo alla stessa, con l’applicazione della medesima imposta sostitutiva applicabile alle persone fisiche, con aliquota del 27%. La società Yol Trading ha assolto al proprio obbligo di pagamento delle imposte in Italia, effettuando il versamento dell’importo d; Euro 2.970.000, oltre a sanzioni ed interessi, come previsto dalle disposizioni relative al ravvedimento operoso. Il giudice d’appello, si è limitato ad affermare, con riferimento alla duplicazione dell’imposta, l’insussistenza della stessa, “perché le imposte sono state calcolate per il primo anno sull’importo della plusvalenza accertata come sopra e per il secondo anno sull’importo degli interessi che detta somma tenuta all’estero a presuntivamente prodotto”.

14.1. Il motivo è inammissibile.

14.2. Invero, il contribuente non ha mai impugnato gli atti impositivi con riferimento alla violazione del divieto di doppia imposizione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 127.

Infatti, solo nel motivo n. 8 del ricorso introduttivo di lite, è stato dedotto, ma solo come mero fatto argomentativo, l’avvenuto ravvedimento operoso della Yol Trading Limited.

Tra l’altro, il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 13, all’epoca vigente, prevede al comma 1 che “la sanzione è ridotta, sempre che la violazione non sia stata già constatata e comunque non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l’autore o i soggetti solidalmente responsabili abbiano avuto formale conoscenza”.

Pertanto, al fine di garantire la genuinità del pentimento del responsabile della violazione, la legge prevedeva che, per poter accedere a tale misura premiale, il ravvedimento dovesse avvenire prima che fossero iniziati accessi o ispezioni, o verifiche, oppure altre attività amministrative di accertamento delle quali l’autore, o i suoi coobbligati, avessero avuto formale conoscenza. Con la modifica apportata dalla legge di stabilità del 2015, invece, è possibile ora il ravvedimento operoso anche ove siano iniziati accessi, ispezioni e verifiche, sino alla notifica di un atto di accertamento o di liquidazione ovvero di una comunicazione automatica di controllo delle dichiarazioni emesse sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36 bis36 ter.

Invero, con la L. 23 dicembre 2014, n. 190, al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 13, comma 1 ter, si prevede che, dal 1 gennaio 2015, “ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo, per i tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate non opera la preclusione di cui al comma 1, primo periodo, salva la notifica degli atti di liquidazione e di accertamento, comprese le comunicazioni recanti le somme dovute ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36 bis36 ter, e successive modificazioni, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, e successive modificazioni”.

Nella specie, è pacifico che il ravvedimento operoso del 19 ottobre 2005, da parte della Yol Trading, di cui il contribuente era socio occulto, è intervenuto dopo che era già stata effettuata l’ispezione della Guardia di Finanza del 7 ottobre 2005, avente ad oggetto “la documentazione… relativa all’operazione immobiliare (n. 54 immobili di proprietà dei BPL Real Estate proveniente dall’acquisto delle casse del Tirreno) conferiti…. in Mizar immobiliare… e da questa ceduti alla Yol Trading Limited e successivamente alla Cresen riconducibile a C.R.”.

Trattasi, dunque, di un ravvedimento inefficace, perché intervenuto dopo l’ispezione effettuata dalla Guardia di Finanza.

15.Con il quindicesimo motivo il ricorrente si duole della “nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto l’irrogazione delle sanzioni non risultava motivata. Sul punto, il giudice di primo grado aveva omesso di pronunciarsi, ma nello stesso errore era incorso anche giudice d’appello; si eccepisce, dunque, un ulteriore indebita omessa pronuncia, con violazione dell’art. 112 c.p.c. Inoltre, il ricorrente aveva anche eccepito la mancata applicazione delle disposizioni del “cumulo giuridico”, in violazione del D.P.R. n. 472 del 1997, art. 12".

16. Con il sedicesimo motivo il ricorrente deduce “in via subordinata, la nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto il contribuente aveva eccepito anche l’illegittimità della sentenza impugnata (n. 181/2011) in relazione all’entità delle sanzioni, che erano state irrogate nella misura massima di tale, senza provare la gravità della violazione e comunque senza indicare i criteri di fatto seguiti nella determinazione delle sanzioni e della loro entità. Tra l’altro, contraddittoriamente, l’Ufficio, nei due avvisi di accertamento, aveva irrogato sanzioni nel loro minimo edittale. Il giudice di prime cure si era limitato ad evidenziare che le sanzioni erano state applicate per la somma di Euro 6.825.000 per l’anno 2003 e per la somma di Euro 3.412.500 per l’anno 2004, nel massimo di quanto fissato dalla normativa. Tali sanzioni, dunque, non erano eccessive, ma adeguate al caso concreto. In realtà, però, secondo il contribuente, la gravità della violazione doveva tener conto che la plusvalenza, erroneamente attribuita al F., era già stata dichiarata dalla società Yol Trading, che aveva pagato le imposte dovute, oltre alle sanzioni ed interessi. Pertanto, si era verificata un’ipotesi di non punibilità delle violazioni che non recavano pregiudizio all’Erario, sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 5 bis. Ne’ l’istituto del cumulo giuridico era inapplicabile per la gravità delle azioni commesse. Su tale questione il giudice di appello aveva omesso di pronunciarsi.

17. Con il diciassettesimo motivo (non rubricato con la numerazione a pagina 87 del ricorso per cassazione) il ricorrente deduce “l’intervenuta inapplicabilità della sanzione irrogata dall’ufficio in relazione alla contestata mancata compilazione da parte dell’odierno comparente della sezione terza del quadro R.W. per il periodo d’imposta 2003, pari ad Euro 3.415.500, L. 6 agosto 2013, n. 97 ex art. 10”, in quanto il 4 settembre 2013 entrata in vigore della L. 6 agosto 2013 n. 97, che ha introdotto delle modifiche alla disciplina del monitoraggio fiscale degli investimenti esteri contenuta nel D.L. 28 giugno 1990, n. 167. In particolare, vi è stata l’abolizione delle sezioni prima e terza del quadro RW della ricreazione redditi e la riformulazione del regime sanzionatorio in caso di violazione degli obblighi di comunicazione. Pertanto, è richiesta solo la compilazione della sezione seconda del quadro RW della dichiarazione dei redditi.

Il principio del favor rei, sancito dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, commi 2 e 3, comporta che nessuno può essere assoggettata sanzioni per un fatto che, secondo la legge posteriore non costituisce plotone punibile; inoltre, se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione delle leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3. Pertanto, la sanzione irrogata dall’ufficio per la contestata mancata compilazione della sezione terza del quadro RW per il periodo d’imposta 2003, pari ad Euro 3.415.500,00, non può essere più pretesa dall’ufficio.

17.1. Anche per questi motivi, inerenti alle sanzioni, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere per avere il contribuente aderito alla definizione agevolata di cui al D.L. 22 ottobre 2016, n. 193.

18. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Dichiara la cessazione della materia del contendere ai sensi del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, con riferimento ai motivi secondo, terzo, quarto, dodicesimo, quindicesimo, sedicesimo e diciassettesimo; rigetta i restanti.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore della Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 14.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

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