LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 844/2017 proposto da:
Z.C., nella qualità di titolare dell’impresa individuale Azienda Agricola Z. di Z.C., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato D’Ettorre Roberto Paolo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Azienda Agricola C.Z. S.r.l. di M.Z., già Azienda Agricola C.Z. S.a.s. di M.Z. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via del Tritone n. 169, presso lo studio dell’avvocato Masetti Zannini de Concina Alessandro, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Cartella Roberto, Di Giovanni Pietro Maria, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3595/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 06/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/05/2021 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.
FATTI DI CAUSA
1. – Z.C., titolare dell’omonima impresa agricola, ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma con cui, in accoglimento delle domande contro di lui spiegate da Azienda Agricola C.Z. s.r.l. di M.Z., era stata dichiarata la nullità dei marchi “Azienda Agricola Z. Le Tre Colline” e ” Z.C.”, inibito l’uso degli stessi segni, disposto il ritiro dal commercio dei prodotti recanti i marchi in contraffazione e condannato il predetto appellante al risarcimento dei danni in favore della società attrice: danni liquidati in complessivi Euro 110.824,66, oltre rivalutazione ed interessi; il Tribunale, nella sentenza di primo grado, aveva inoltre fissato una penale di Euro 500,00 giornalieri per il ritardo nell’esecuzione dell’ordine impartito e disposto la pubblicazione sulla stampa della sentenza.
Azienda Agricola C.Z. s.r.l. di M.Z. ha resistito al gravame e proposto impugnazione incidentale.
La Corte di appello di Roma, con sentenza pubblicata il 6 giugno 2016, ha rigettato il gravame principale e dichiarato inammissibile quello incidentale.
2. – Quest’ultima pronuncia è impugnata per cassazione da Z.C. con un ricorso articolato in cinque motivi. Resiste con controricorso la società Azienda Agricola C.Z.. Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo è denunciata la violazione o falsa applicazione degli artt. 124,125,131,21 e 22 c.p.i. (D.Lgs. n. 30 del 2005); è altresì lamentata la violazione degli artt. 2563 e 2564 c.c.. Sostiene il ricorrente che il carattere distintivo del marchio sarebbe attenuato ove il cognome di cui esso si compone sia largamente diffuso, ovvero non sia rinomato: onde il marchio contenente tale cognome godrebbe di una tutela meno intensa. Viene osservato che nel settore vinicolo esisterebbero diverse aziende che utilizzano il patronimico Z. e che, comunque, il rischio di confusione andrebbe valutato in relazione alla capacità di discernimento del consumatore dei prodotti della categoria merceologica che interessa. E’ altresì osservato che nella fattispecie il patronimico presenterebbe una funzione meramente descrittiva, come tale lecita. L’istante contesta, inoltre, il rilievo, contenuto nella sentenza, per cui la notorietà del marchio di controparte si sarebbe radicata da quasi trent’anni e oppone che nessuna prova sia stata fornita in tal senso. Aggiunge essere stata dimostrata la commercializzazione, da parte sua, di un prodotto recante un marchio avente caratteristiche del tutto diverse dal segno registrato dalla società attrice.
Il secondo mezzo oppone la violazione dell’art. 8, comma 2 e art. 21 c.p.i., oltre che dell’art. 2563 c.c., nella parte in cui si e inibito al ricorrente l’uso di marchi dichiarati nulli. Viene ricordato: che la registrazione di un marchio patronimico non impedisce a chi abbia diritto al nome di farne uso nella ditta da lui prescelta; che la ditta, comunque formata, deve contenere almeno il cognome dell’imprenditore; che il diritto al marchio non preclude ai terzi l’uso nell’attività economica del loro nome ed indirizzo. E’ altresì dedotto che la ditta C.Z. debba “ritenersi convalidata in quanto iscritta dal 1996 e quantomeno adottata dal 1991”.
Col terzo motivo è lamentata la violazione dell’art. 2571 c.c., nella parte in cui il giudice del gravame non ha riconosciuto il preuso del marchio da parte dell’appellante ed è stato inibito al medesimo l’uso di marchi dichiarati nulli: sul punto è denunciata contraddittorietà della motivazione. Sostiene l’istante che la documentazione in atti fornirebbe prova del fatto che la propria azienda agricola opererebbe da anni: infatti – si assume – Z.C. aveva iniziato l’attività di produzione e commercializzazione di vini assai prima del momento in cui aveva avuto luogo il deposito dei marchi registrati dalla società attrice.
I tre motivi, che investono, da diverse angolazioni, il tema dell’accertata contraffazione, possono esaminarsi congiuntamente e sono, nel complesso, infondati.
La Corte di appello ha in sintesi rilevato l’esistenza di un concreto rischio di confusione ed associazione, stante la perfetta corrispondenza dei marchi registrati, enfatizzato dalla coincidenza dell’ambito territoriale di riferimento delle singole imprese. Ha escluso, in assenza di prove al riguardo, il preuso dei marchi dell’appellante e ha rilevato che la condotta posta in essere da Z.C. integrava sia lesione di diritti di privativa, sia concorrenza sleale. Ha osservato, a tale riguardo, che al marchio della società appellata doveva accordarsi la tutela propria dei marchi forti, avendo riguardo alla notorietà, maturata nell’arco di tempo tra il 1985 e il 2000, del patronimico Z.: notorietà vanamente contestata dall’asserito contraffattore, posto che le imprese da questo indicate che avrebbero fatto uso di tale segno risultavano operanti in settori diversi da quello vinicolo; ha aggiunto che, del resto, la stessa impresa di Z.C. fino a 2005 era risultata attiva nel campo della produzione di cereali e seminativi (condizione reputata irrilevante ai fini del dedotto preuso). Il giudice distrettuale ha poi rimarcato la capacità distintiva del patronimico Z., rilevando che “tale elemento lessicale del marchio non ha alcun collegamento ideologico col prodotto” ed evidenziando, altresì, che non poteva attribuirsi valenza caratterizzante “a riferimenti assolutamente generici e descrittivi abbinati al citato patronimico”. Ha ancora precisato la Corte di merito che l’appellante aveva fatto uso del segno in modo volutamente confusorio, utilizzando tale riferimento lessicale in modo sostanzialmente coincidente con quello posto in atto dall’impresa C.Z., senza preoccuparsi di differenziarlo con elementi dotati di autonoma capacità distintiva.
Il giudice di appello ha qualificato come forti i marchi dell’odierna società controricorrente: affermazione – questa – che assume rilievo nella presente fattispecie in quanto, come è risaputo, il caso di marchio forte vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante (tra le tante: Cass. 14 maggio 2020, n. 8942; Cass. 18 giugno 2018, n. 15927; Cass. 24 giugno 2016, n. 13170).
Il carattere forte dei marchi recanti il nome Z. è stato contestato, dal ricorrente, avendo riguardo alla loro notorietà. Ma la censura svolta al riguardo è diretta a confutare l’accertamento di fatto del giudice del merito ed e’, come tale, inammissibile. Infatti, l’istante ha dedotto che non risulterebbe provata la circostanza per cui la notorietà dei segni di controparte si sarebbe radicata da tempo, laddove, come accennato, la Corte di appello ha appurato che nel 2004-2005 (all’epoca, cioè, della registrazione curata dall’appellata principale) “tali marchi avevano già ampiamente raggiunto il requisito della notorietà” per l’uso “produttivo e diffusivo” attuatosi tra il 1985 e il 2000.
Il ricorrente censura la sentenza impugnata anche nella parte in cui il carattere forte dei marchi della società Azienda Agricola C.Z. è stato associato al fatto che essi avrebbero ad oggetto un patronimico.
Tuttavia, l’obiezione dello stesso istante, secondo cui il carattere distintivo del marchio sarebbe attenuato qualora il cognome “sia largamente diffuso ovvero non sia rinomato”, non coglie nel segno. Infatti, è da escludere che il marchio costituito dall’uso di un patronimico possa essere considerato di per sé debole, sempre che il nome utilizzato non abbia alcuna relazione col prodotto e non venga usato nella consuetudine di mercato per designare una categoria di prodotti, non potendosi negare il carattere forte del marchio in relazione al grado di diffusione del nome (Cass. 29 dicembre 2011, n. 29879; Cass. 14 aprile 2000, n. 4839).
Quanto alla legittimità dell’uso del patronimico Z. da parte del ricorrente, va osservato quanto segue.
L’art. 8, comma 2, c.p.i. precisa che la registrazione del marchio patronimico non impedisce a chi abbia diritto al nome di farne uso nella ditta prescelta, sempre che sussistano i presupposti dell’art. 21, comma 1, c.p.i.: questo dispone che i diritti di marchio d’impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica, purché l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale, del loro nome e indirizzo. L’art. 21, comma 1, cit. replica del R.D. n. 929 del 1942, art. 1 bis: norma di derivazione comunitaria, costituendo essa recepimento dell’art. 6.1 dir. 89/104/CEE, secondo cui il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l’uso nel commercio del loro nome e indirizzo, sempre che l’uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale. Il rilievo che assume, nel giudizio avente ad oggetto la contraffazione del marchio patronimico, il rispetto dei principi di correttezza professionale è stato sottolineato a più riprese, in tempi anche recenti, dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 29 maggio 2020, n. 10298; Cass. 24 maggio 2017, n. 12995; Cass. 25 maggio 2016, n. 10826).
Ciò posto, la Corte di merito ha precisamente accertato che l’utilizzo del patronimico Z. da parte dell’odierno ricorrente dovesse ritenersi illecito, proprio in quanto attuato in violazione dei principi di correttezza professionale, determinando l’associazione dei marchi della ditta appellante a quelli della ben più nota società appellata.
Sotto tale profilo, dunque, la sentenza si sottrae a censura.
Z.C. ha altresì dedotto l’esistenza di un proprio preuso del marchio, tale da escludere la nullità della successiva registrazione dello stesso.
Al riguardo, è sufficiente osservare che la Corte di appello ha negato tale sfruttamento del segno e che la valutazione degli elementi probatori per escludere il preuso del marchio, in quanto concerne una quaestio facti, rientra nei poteri esclusivi del giudice di merito e si sottrae al controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione (Cass. 6 aprile 1966, n. 903).
Non concludente si mostra, infine, la deduzione circa la convalida della ditta C.Z.. A monte della considerazione per cui l’art. 28 c.p.i., invocato dall’istante, riguarda il marchio, e non la ditta, è da rilevare che il tema della convalida non risulta affrontato nella sentenza, né il ricorrente spiega se e come abbia prospettato la questione nel corso del giudizio di merito: e spettava allora a chi ha impugnato, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente avesse sollevato la medesima, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675).
2. – Col quarto motivo la sentenza impugnata è censurata per violazione degli artt. 2729,1223,1226 e 1227 c.c.. Il motivo investe la sentenza impugnata nella decisione assunta con riferimento alla statuizione risarcitoria. La ricorrente rileva la completa assenza di dolo e di colpa della parte appellante: evenienza, questa, che escluderebbe la risarcibilità del pregiudizio lamentato. Osserva, poi, che la consulenza d’ufficio non avrebbe chiarito in base a quali criteri era stato quantificato il danno e ha rilevato, in particolare, che la società istante non aveva subito alcun decremento di fatturato negli anni ricompresi tra il 2004 e il 2009. L’istante lamenta inoltre che il CTU non avrebbe dato conto della relazione causale esistente tra la lamentata contraffazione e il decremento di fatturato. Deduce che il giudice di prima istanza avrebbe fondato la propria motivazione sulle risultanze della consulenza tecnica e che, tuttavia, l’ausiliario avrebbe mancato di indicare i parametri di calcolo dell’equa royalty. E’ dedotto, inoltre, che il consulente d’ufficio avrebbe calcolato il fatturato complessivo per anno della società odierna controricorrente, includendovi anche prodotti estranei al lamentato pericolo di confusione.
Il motivo è inammissibile.
La Corte di merito ha dato atto che, sulla scorta dell’accertamento del CTU, tutti i costi e gli oneri presi in considerazione dal Tribunale ai fini della quantificazione del danno erano “strettamente riconducibili sul piano eziologico al pregiudizio cagionato dall’illecito in discorso, come pacificamente accertato sulla base di elementi documentali, ossia previa verifica peritale della documentazione contabile dell’impresa appellata”. Ha aggiunto che la stessa determinazione del valore commerciale della licenza di marchio andava determinate mediante stima sintetico-analitica, “ossia facendo riferimento ai prezzi correnti nella zona per il mercato di riferimento, come correttamente fatto dal CTU”.
Ebbene, le critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza devono possedere un grado di specificità tale da consentire alla Corte di legittimità di apprezzarne la decisività direttamente in base al ricorso: in tal senso, la parte che addebita alla consulenza tecnica d’ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa (o nella sentenza che l’ha recepita) ha anzitutto l’onere di trascriverne integralmente nel ricorso per cassazione almeno i passaggi salienti e non condivisi (Cass. 13 giugno 2007, n. 13845; in tema cfr. pure, ex plurimis: Cass. 17 luglio 2014, n. 16368; Cass. 28 marzo 2006, n. 7078; Cass. 7 marzo 2006, n. 4885; Cass. 5 maggio 2003, n. 6753).
Il ricorso per cassazione non soddisfa tale condizione, onde le censure richiamate sui rilievi svolti dal CTU e sul conseguente recepimento di essi da parte del giudice del merito risultano affette da carenza di specificità.
Il ricorrente non indica poi, se la questione relativa al calcolo del fatturato – che si assume essere stato operato tenendo indebitamente conto della commercializzazione di prodotti non recanti il marchio Z. – sia stata sollevata in sede di giudizio di merito.
Quanto alla doglianza fondata sull’elemento soggettivo della responsabilità risarcitoria della ricorrente, essa si risolve nell’allegazione della “completa carenza di dolo e colpa della parte appellante”: in tal modo, però, l’istante mostra di trascurare il giudizio, non sindacabile nella presente sede, espresso, in proposito, dalla Corte di Roma; questa ha infatti rilevato che l’appellante aveva fatto uso del patronimico Z. “in modo volutamente confusorio”.
3. – Il quinto mezzo censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. Viene osservato che il giudice di prime cure avrebbe omesso di disporre la restituzione dei beni sequestrati e che “gran parte dei prodotti, mancando di alcun marchio, dovevano solo essere restituiti, o eventualmente distrutti”. E’ dedotto che su tale questione entrambi i giudici di merito avevano mancato di pronunciarsi.
Il motivo deve essere respinto.
La Corte di appello, statuendo sul tema oggetto dell’odierna impugnazione, ha osservato che la mancanza di statuizione rispetto ai beni sequestrati non aveva fondamento, visto che la fase cautelare non presentava alcun nesso processuale con quella di merito, e dunque “non era richiesta la necessaria pronuncia su questioni afferenti a detta fase cautelare da parte del giudice del merito”.
Sul punto sono spendibili i rilievi che seguono.
Il sequestro disposto dal Tribunale è evidentemente quello cautelare, di cui all’art. 129 c.p.i.: non quindi quello di cui all’art. 124, comma 5, che può essere disposto dal giudice con la sentenza che accerta la violazione dei diritti di proprietà industriale (provvedimento, quest’ultimo, che non ha natura cautelare, anche se presenta un profilo di provvisorietà, in quanto, in base all’espressa lettera della legge, è destinato a venir meno con l’estinzione del titolo).
Il sequestro cautelare di cui all’art. 129 c.p.c., è misura che è inidonea a stabilizzarsi e che nella sostanza condivide, coi provvedimenti di cui agli artt. 126,128,131 e 133 c.p.i., il regime generale contemplato dall’art. 669 octies c.p.c., cui si sottraggono, però, i provvedimenti ex art. 700 c.p.c. e quelli anticipatori (art. 132, commi 2, 3 e 4, c.p.i.), tra cui non sono certamente ricompresi i sequestri.
La sorte dei beni sequestrati è regolata dalla pronuncia di merito, coerentemente alla natura cautelare del provvedimento di sequestro, che è destinato ad essere superato dalla decisione in vista della quale la misura è stata domandata e disposta.
Ora, il codice della proprietà industriale si occupa, all’art. 124 c.p.i., della sorte dei beni coinvolti nella violazione dei diritti di privativa. Così, in caso di accoglimento della domanda di contraffazione il giudice può disporre la distruzione delle cose costituenti la violazione del diritto di proprietà industriale (art. 124, comma 2, c.p.i.) o assegnare in proprietà i beni importati in violazione del diritto stesso e i mezzi specifici che servono univocamente a produrli e ad attuare il metodo o il processo tutelato (art. 124, comma 3, c.p.i.). Può altresì ordinare il ritiro dal commercio, definitivo o temporaneo, di beni la cui reintroduzione nei circuiti commerciali è subordinata agli adeguamenti imposti a garanzia del rispetto del diritto (art. 124, comma 2, c.p.i.). L’ordine di ritiro dal commercio ha evidentemente lo scopo di sottrarre al mercato i beni materiali attraverso i quali si è attuata la lamentata contraffazione: si tratta di una misura meno drastica rispetto a quelle dell’assegnazione in proprietà al titolare del diritto e della distruzione dei beni e che, nel caso di ritiro temporaneo, fa salva la commercializzazione del bene quando lo stesso sia suscettibile, previi adeguati interventi modificativi, di un utilizzo legittimo.
Risulta dallo stesso ricorso per cassazione che, dopo aver disposto, in sede cautelare, il sequestro presso la sede dell’impresa di C.Z. e “presso eventuali depositi e/o magazzini e/o ogni altro esercizio commerciale o presso terzi, nel territorio italiano, dei prodotti a marchio azienda agricola Z.”, il Tribunale, con la sentenza di primo grado, ebbe a inibire all’odierna ricorrente l’uso dei marchi in contraffazione e a impartire l’ordine di ritiro dal commercio in via solo temporanea, dei prodotti distinti dai nominati segni distintivi “sino alla modificazione delle etichette e di quant’altro porti tali marchi”: e ciò sull’evidente presupposto che i prodotti in questione fossero suscettibili di una impiego lecito, a norma dell’art. 124, comma 3, c.p.i., attraverso una diversa etichettatura.
Ora, il ricorrente fa questione dell’assenza di una decisione di merito che avesse ad oggetto i beni sequestrati, in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Sennonché, la violazione dell’art. 112 c.p.c., non è astrattamente prospettabile in mancanza di una domanda del ricorrente al Tribunale quanto alla restituzione dei beni: domanda di cui l’istante non dà conto.
E’ comunque da osservare che il giudice di prima istanza ha inteso emettere una decisione definitiva, di carattere generale, su tutti i beni recanti i marchi in contraffazione, disponendone l’estromissione dal mercato fino alla rimozione dei segni distintivi che su di essi erano stati illecitamente apposti (tale essendo il significato da annettere, nel suo complesso, alla decisione con cui furono disposti l’inibitoria all’uso dei marchi e il contestuale ritiro temporaneo dal mercato della merce, fintanto che recasse tali marchi): e tanto smentisce l’assunto per cui il giudice del merito avrebbe mancato di pronunciarsi quanto ai prodotti sequestrati. Per il resto, va osservato che ogni questione vertente sull’attuazione del comando giudiziale contenuto nella sentenza di primo grado (e quindi, in ipotesi, sulle modalità attraverso cui procedere alla rimozione dei marchi apposti sui prodotti in sequestro, ai fini della loro futura commercializzazione, o sulla restituzione dei prodotti che non dovessero essere più destinati al mercato) avrebbe dovuto essere proposta al giudice che aveva emesso la sentenza recante le misure di cui si è detto, a norma dell’art. 124, comma 7, c.p.i..
In conclusione, dunque, deve affermarsi che il sequestro dei beni recanti il marchio in contraffazione è misura cautelare destinata ad essere superata dalla decisione di merito, onde, in presenza di sentenza che disponga l’inibitoria all’uso del marchio e il ritiro temporaneo dal commercio dei prodotti recanti tale marchio fino alla rimozione, da tali prodotti, del segno distintivo, il destinatario del provvedimento di sequestro deve far valere avanti al giudice di cui all’art. 124, comma 7, c.p.i. le questioni inerenti all’attuazione di dette misure con riguardo ai beni rimasti nella disponibilità del titolare del diritto di privativa.
4. – Il ricorso è in definitiva respinto.
5. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
PQM
La Corte;
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2021
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