Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.27224 del 07/10/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10211/2017 proposto da:

Edili D. S.r.l., già s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale dei Quattro Venti n. 12, presso lo studio dell’avvocato Germini Silvia, rappresentata e difesa dall’avvocato Tronci Giampiero, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Sardares S.p.a., già Commerciale D. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Attilio Friggeri n. 106, presso lo studio dell’avvocato Tamponi Michele, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Careddu Tomaso, Orecchioni Gerolamo, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

D.G., M.G., elettivamente domiciliati in Roma, Viale Angelico n. 54, presso lo studio dell’avvocato Spangaro Lorenzo, rappresentati e difesi dagli avvocati Fois Fabio Maria, Serra Antonio, Lei Antonio Maria, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale condizionato;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 140/2016 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI –

SEZIONE DISTACCATA di SASSARI, depositata il 25/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23/06/2021 dal Cons. Dott. DI MARZIO MAURO;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VITIELLO Mauro, che chiede che la Corte di Cassazione, in camera di consiglio, rigetti sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale condizionato.

FATTI DI CAUSA

1. – Edili D. S.r.l., già S.p.a., ricorre per dieci mezzi, nei confronti di D.G., Sardares S.p.a., già Commerciale D. S.r.l., nonché di M.G., contro la sentenza del 25 marzo 2016 con cui la Corte d’appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, provvedendo in parziale riforma di sentenza definitiva, seguita a precedente non definitiva, resa tra le parti dal Tribunale di Tempio Pausania, all’esito delle quali D.G. era stato condannato al pagamento, in favore dell’originaria attrice, odierna ricorrente, della somma di Euro 112.727,00 a titolo di risarcimento del danno per l’appropriazione, in veste di amministratore della società, di denaro ad essa appartenente, ha condannato lo stesso D. al pagamento, in favore di Edili D. S.p.a., della somma ulteriore di Euro 5.042,72, oltre interessi, ed accolto la revocatoria del fondo patrimoniale costituito dal D.G. col coniuge M..

2. – D.G. e M.G. resistono con controricorso e propongono ricorso incidentale condizionato.

3. – Sardares S.p.a. resiste con controricorso.

4. – Il procuratore generale ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

5. – Sono state depositate memorie dalla ricorrente e da D.G. e M.G..

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. – Il ricorso contiene dieci mezzi.

i) violazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 112,342 e 346 c.p.c.: la corte d’appello, investita di motivi concernenti unicamente il quantum, pur in presenza di un giudicato interno, con espressioni sovente non facilmente comprensibili, “appare negare” l’esistenza dell’an debeatur, estraneo al thema decidendum, negando all’appellante un bene della vita diverso da quello conteso;

ii) nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4: per mera cautela la parte ricorrente deduce, in relazione al precedente motivo di ricorso, la nullità della sentenza, prospettando un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili della motivazione ovvero motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile;

iii) violazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, art. 2727 c.c. e art. 115 c.p.c.: la controversia verteva unicamente sull’entità del danno provocato alla società attrice dall’organo gestorio, la Corte territoriale avrebbe violato la legge negando l’ingresso della prova per presunzioni, omettendo di valutare un fatto, del quale avrebbe dichiarato una potenziale efficacia probatoria, pur presente in causa; ed avrebbe, altresì, valutato, ai fini comparativi, senza motivazione alcuna, una propria supposizione, non avvalorata da alcun elemento indiziario;

iv) violazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, art. 1226 c.c. e art. 115 c.p.c.: la Corte di merito avrebbe negato l’accesso alla liquidazione in via equitativa del danno, incontroverso nella sua esistenza, che non poteva essere provato nel suo preciso ammontare;

v) violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti: la Corte di merito, tratta verosimilmente in errore dalla copiosa documentazione processuale, avrebbe omesso di esaminare talune fatture per provvigioni emesse non dalla società attrice ma dallo stesso convenuto, negando, quindi, l’esistenza del fatto;

vi) violazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 1226 e 2727 c.c. e art. 115 c.p.c.: la Corte di merito avrebbe omesso di accertare il danno subito dalla ricorrente, per effetto della violazione del divieto di concorrenza in conflitto di interessi da parte dell’amministratore, non ricorrendo né ai principi dettati in tema di prova per presunzione né a quelli stabiliti in tema di liquidazione equitativa del danno;

vii) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 1218,2392 e 2697 c.c.: la Corte d’appello, a fronte della censura di inadempimento dell’amministratore, per avere utilizzato somme della compagine per finalità estranee all’oggetto sociale, ne ha escluso la responsabilità, difettando la prova sul punto, il cui onere è stato erroneamente ascritto alla società attrice, ed ha altresì ritenuto irrilevante la irregolare tenuta della contabilità da parte del medesimo organo gestorio;

viii) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 2697 c.c.: pur emergendo dai fatti di causa la totale estraneità degli azionisti, anch’essi consiglieri di amministrazione della società, all’attività gestoria svolta in via esclusiva dalla amministratore delegato convenuto, e l’esecuzione, da parte di quest’ultimo, in prima persona, di tutte le operazioni allegate in causa, la Corte territoriale avrebbe dis applicato il principio di vicinanza o prossimità della prova;

ix) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 2598 c.c., n. 1: la Corte d’appello avrebbe escluso che integrasse la fattispecie di cui all’art. 2598 c.c., n. 1, la sussistenza di una condotta potenzialmente atta a creare confusione; affermando, al contrario, che la concorrenza sleale sussista unicamente ove la condotta abbia determinato, concretamente, confusione nei confronti di clienti e fornitori dell’imprenditore;

x) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 155 e 184 c.p.c., nel testo applicabile: la Corte d’appello, nel dichiarare la tempestività del deposito delle seconde memorie istruttorie da parte dei convenuti, avrebbe violato le norme dettate in materia di computo dei termini, posto che, anziché limitarsi ad escludere il termine iniziale, aveva estromesso dal computo anche il giorno adesso immediatamente successivo, il quale, invero, non poteva costituire il dies a quo.

7. – Il ricorso va respinto.

7.1. – Il primo mezzo è infondato.

In generale, è ben possibile, secondo il costante insegnamento di questa Corte, che il vincitore sull’an, in forza di sentenza non definitiva, possa risultare infine anche totalmente soccombente sul quantum, per difetto di prova.

Al riguardo, è stato già affermato che la sentenza di condanna generica postula, quale presupposto necessario e sufficiente a legittimarne l’adozione, solo l’accertamento di un fatto ritenuto, alla stregua di un giudizio di probabilità, potenzialmente produttivo di danni, mentre il riscontro dell’esistenza, in concreto, di questi ultimi, benché già ivi possibile, può anche essere differito alla fase della loro effettiva liquidazione, ed in tal caso, se una siffatta pronuncia non sia stata impugnata, il giudicato formatosi non investe la sussistenza dei danni stessi e del loro rapporto di causalità con il fatto illecito, né preclude la successiva dichiarazione di infondatezza della pretesa risarcitoria, ove si verifichi che i pregiudizi lamentati non si siano prodotti o non siano riconducibili al comportamento del responsabile (tra le molte Cass. 11 ottobre 2016, n. 20444).

Nel caso in esame il Tribunale di Tempio Pausania ha pronunciato una prima sentenza non definitiva con la quale, rigettate talune eccezioni preliminari e pregiudiziali sollevate dalle parti, nonché la domanda risarcitoria per illecito anticoncorrenziale proposta da Edili D. S.p.a. nei confronti di Sardares S.p.a., ha disposto consulenza tecnica al fine di determinare il danno concretamente sofferto dalla società attrice a seguito della distrazione delle somme riportate nella contabilità separata ad opera dell’amministratore D.G.: sicché detta sentenza neppure conteneva, in effetti, una esplicita pronuncia di condanna generica. Dopodiché, con la sentenza definitiva, il primo giudice ha in buona sostanza ritenuto che la produzione di documentazione dalla quale emergeva la creazione di una contabilità separata, in nero, concernente il periodo settembre-dicembre 1991, tale da dimostrare la sottrazione dal D. alla società dell’importo di Euro 112.727,00, non consentisse di ritenere provato, se non altro nel quantum, che analoghe sottrazioni fossero state perpetrate nell’intero arco temporale, dal 1985 al 1992, indicato dall’attrice.

Orbene, mentre la sentenza definitiva di primo grado è stata censurata in ordine alla determinazione del quantum, e non per violazione di un ipotetico giudicato interno formatosi per effetto della non definitiva, la sentenza d’appello, lungi dal rimettere in discussione l’accertamento compiuto nella non definitiva, si è limitato – è qui utile riportare nella parte pertinente la motivazione addotta dalla Corte d’appello – a “condividere il percorso motivazionale assunto dal primo giudice, laddove, pur ammettendo l’esistenza di una contabilità in nero, escludeva fosse rimasta provata l’entità del relativo ammanco dalla contabilità “ufficiale” in ciascuno degli anni imputati al convenuto, avuto riguardo alla mancata acquisizione di dati relativi alla giacenza di magazzino e all’acquisto merci… Dalla circostanza dell’esercizio dell’amministrazione in capo al convenuto non pare potersi inferire la quantità di denaro sottratta anno per anno e intascata dal D.G… Intanto, la prova documentale offerta dall’attrice circa l’accredito di rilevanti somme di denaro sul conto corrente intestato a D.L. negli anni 1985/1987 non prova che tutto il contante in nero, ivi movimentato, fosse trattenuto dal solo G., proprio perché è testimoniato in giudizio che la pratica del nero era stata iniziata già sotto la gestione di L…. il quale verosimilmente ne beneficiava in modo consapevole con tutta la famiglia, facente parte del gruppo D., quantomeno fino a quando aveva ricoperto la carica sociale (dicembre 1987). Viene dunque a mancare l’univocità delle circostanze atte a far presumere la sottrazione sistematica di denaro da parte del convenuto e quindi l’arbitrarietà del meccanismo di induzione dell’ammontare del danno sulla base di quello documentato nelle bolle riferite ad un illimitato periodo, meccanismo che soffre comunque del salto logico dell’estensione dell’accertamento di una quantità per un quadrimestre nella stessa misura a ciascuno degli anni di amministrazione. Va, infatti, osservato che nel periodo documentato (settembre-dicembre 1991) G. D. gestiva sostanzialmente in proprio l’amministrazione; fino al dicembre 1987, invece, il fratello L. era comunque rappresentante della società e pare inverosimile che non fosse a conoscenza della contabilità in nero, tanto più che non risulta la sua incapacità psicofisica in epoca antecedente alla cessazione della carica. Venuto meno l’antecedente logico (creazione delle bolle “n” da parte del solo G. per tutta la durata dell’incarico), non può tradursi automaticamente l’esistenza di un danno imputabile al convenuto e calcolarne l’ammontare semplicemente moltiplicando il valore documentato per gli anni di carica; né tale operazione risulta ragionevole per gli anni 1988-1990, in difetto di un qualunque dato, anche parziale, sulla consistenza del magazzino della Edili D. in quel periodo. Se è vero, come sostenuto dall’appellante, che non esisteva alcun obbligo di inventario, è inverosimile che la società non disponesse di un sistema di identificazione degli acquisti e delle vendite, a prescindere dalla distruzione sistematica delle bolle irregolari. La produzione di dati concreti, anche parziali, circa le quantità e prezzi degli ordini nel periodo considerato avrebbe consentito di procedere al ragionamento presuntivo invocato dall’appellante ed alla liquidazione equitativa del danno, invece preclusa dalla mancata prova dell’esistenza di un danno di difficile quantificazione. Di contro, la assenza di qualunque documentazione impedisce di ipotizzare con una certa probabilità un danno cagionato dal convenuto, certamente possibile alla luce dei poteri gestori dal medesimo svolti, ma non ricavabile da alcun elemento presuntivo. La situazione economico-finanziaria dell’azienda in qualche anno avrebbe, infatti, potuto consentire un ridotto acquisto di merce e sconsigliare quindi l’adozione di pratiche irregolari o ridurle a cifre ben più modeste di quelle determinate nel periodo documentato. Le variabili che possono aver influenzato il prodursi di un danno patrimoniale all’azienda sono molteplici e non possono essere superate sic et simpliciter dall’accertamento riferito ad un quadrimestre del 1991, così come opinato dal collegio di primo grado”

E’ dunque del tutto palese che la sentenza d’appello è stata semplicemente confermativa, ed in parte rafforzativa, del ragionamento compiuto dal giudice di primo grado nel ritenere che dal dato concernente il quadrimestre in discorso non potesse risalirsi, anche data per ammessa la costante pratica del “nero”, l’entità degli importi ipoteticamente incamerati dal D.G., con conseguente danno della società.

7.2. – Il secondo mezzo è infondato.

Il Collegio non ravvisa affatto nella motivazione sopra trascritta alcun irriducibile contrasto tra affermazioni inconciliabili, né tantomeno alcun tratto di perplessità o incomprensibilità.

Il ragionamento è invece piano e lineare: l’essersi il D.G. appropriato di una certa somma in un determinato quadrimestre non consentiva di ritenere che avesse fatto altrettanto nell’intero arco temporale in contestazione, sia perché in una parte del periodo l’amministrazione era stata esercitata dal fratello L., sia perché la mancanza della documentazione concernente il magazzino non consentiva di risalire presuntivamente alla movimentazione di danaro di cui il D.G. potesse essersi appropriato.

7.3. – Il terzo mezzo è inammissibile.

Si tratta in effetti di un motivo che, attraverso il richiamo all’art. 2727 c.c. e all’art. 115 c.p.c., mira, per l’appunto inammissibilmente, a rimettere in discussione l’accertamento di fatto del giudice di merito in ordine alla insussistenza della prova del danno, al di la di quanto accertato dal primo giudice e della parziale riforma in punto di quantum disposta in appello.

Difatti, con riguardo alla prima delle due norme invocate, va fatta applicazione del principio secondo cui, in tema di prova presuntiva, è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 17 gennaio 2019, n. 1234).

Con riguardo all’altra norma, il principio da applicare si riassume in ciò, che la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità solo lamentando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dovere osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa, fuori dei poteri officiosi riconosciutogli. In linea di principio – comunque – la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e, in relazione al nuovo testo di questa norma, qualora il giudice abbia preso in considerazione il fatto storico rilevante, l’omesso esame di elementi probatori non integra, di per sé il vizio di omesso esame di un fatto decisivo (Cass., Sez. Un., 22 giugno 2017, n. 15486).

Ciò detto, si è già evidenziato che la motivazione addotta dalla Corte d’appello eccede senz’altro la soglia del minimo costituzionale (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053), avendo del resto la sentenza impugnata ampiamente preso in considerazione il fatto storico rilevante, ovvero l’accertata appropriazione relativa al menzionato quadrimestre, mentre la ricorrente di null’altro si duole se non dell’omessa considerazione, secondo il suo punto di vista, di elementi istruttori che avrebbero potuto orientare il ragionamento in senso a sé più favorevole. Doglianza che, peraltro, si mostra del tutto generica, anche sotto il profilo del vizio motivazionale, dal momento che si limita denunciare l’omesso esame dei bilanci della società dal 1985 al 1994 senza precisare se, e come, dalle risultanze della contabilità “ufficiale” fosse possibile trarre dati di riscontro di una gestione contabile parzialmente occulta.

7.4. – E’ infondato il quarto mezzo.

La liquidazione equitativa, nel caso in cui il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, ovvero quando la prova sia particolarmente difficoltosa, presuppone ovviamente la prova dell’an: prova in questo caso ritenuta mancante, visto che il giudice di merito ha giudicato non provato che appropriazioni di somme vi fossero state al di fuori dell’arco temporale indicato.

Inoltre, la liquidazione equitativa è frutto dell’esercizio di un potere discrezionale (p. es. di recente Cass. 9 novembre 2020, n. 25017), sicché il mancato esercizio di detto potere non è sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo motivazionale, entro i limiti in cui il vizio di motivazione può essere oggi fatto valere (v. la cit. Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053). E nel caso di specie la Corte d’appello ha chiarito di ritenere che la liquidazione equitativa fosse preclusa dalla mancanza di dati concreti -anche parziali- concernenti il magazzino, i quali avrebbero consentito di accedere al ragionamento presuntivo e alla conseguente liquidazione equitativa: ergo la Corte d’appello ha motivatamente disatteso l’applicazione della disposizione invocata.

Quanto all’art. 115 c.p.c., è sufficiente richiamare il principio già ricordato al paragrafo precedente.

7.5. – Il quinto mezzo è inammissibile.

Esso non ha effettivamente ad oggetto l’omessa considerazione di un fatto decisivo e controverso, bensì omessa considerazione di taluni elementi istruttori che, secondo quanto già detto, avrebbero potuto condurre, nell’ottica della società ricorrente, ad un risultato a sé più favorevole.

Si tratta cioè ancora una volta di un motivo di pieno merito, concernente il governo del materiale istruttorio.

7.6. – Il sesto mezzo è inammissibile.

Si tratta nuovamente di un motivo volto a rimettere in discussione un giudizio di merito, veicolato dal richiamo agli artt. 1226 e 2727 c.c. e art. 115 c.p.c., riguardo ai quali non resta che ribadire i principi già in precedenza citati.

7.7. – Il settimo motivo è infondato.

Esso è riferito al seguente passaggio sviluppato a pagina 20 della sentenza impugnata: “Deve, invece, essere confermato il rigetto pronunciato in primo grado con riguardo alla ripetizione delle somme asseritamente addossate alla società attrice per lavori di ristrutturazione eseguiti nell’interesse del convenuto. Il consulente tecnico, previa ispezione dei luoghi al fine di riscontrare l’esistenza delle lavorazioni descritte nelle fatture addebitate alla società attrice, in parte individuava le lavorazioni suddette e per le restanti non escludeva la compatibilità delle opere fatturate, rilevando come, in conseguenza del tempo trascorso e della generica descrizione riportata in fattura non fosse possibile determinare con un margine apprezzabile di veridicità l’effettiva esecuzione in favore della Edili D. e la congruità dei prezzi, conclusione che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, non comporta automaticamente la dimostrazione dell’utilizzo indebito da parte dell’amministratore neppure sotto il profilo della scarsa diligenza prestata nella compilazione delle fatture generiche, irrilevante ai fini del decidere la presente controversia”.

Ricorda in proposito la ricorrente di aver prospettato nell’atto introduttivo del giudizio “l’inadempimento dell’amministratore, osservando come egli avesse sostenuto dei costi estranei alle esigenze gestori, e verosimilmente, finalizzati alla edificazione dello stabilimento di proprietà della concorrente Commerciale D. S.r.l… Precisava, ancora, come l’entità degli stessi, pari a circa Lire 220.000.000 fosse “macroscopicamente spropositata avuto riguardo ai normali lavori di manutenzione eseguiti dalla società attrice nel medesimo periodo””. Dopodiché il motivo richiama giurisprudenza di questa Corte, peraltro concernente l’azione di responsabilità del curatore fallimentare (Cass. 21 marzo 1974, n. 790; Cass. 4 aprile 2011, n. 7606), la quale si sofferma sull’obbligo dell’amministratore di tenuta della contabilità, per concludere infine: “Quali prove, mai, la società avrebbe potuto addurre, e quali accertamenti un ausiliario avrebbe potuto eseguire, per dimostrare la non inerenza di tali “lavori” e dei relativi costi alla gestione sociale?”.

Orbene, contrariamente a quanto dedotto nel motivo, è corretta l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui non è possibile postulare alcun automatismo risarcitorio – automatismo escluso finanche in sede di iniziativa adottata dal curatore fallimentare, come chiarito da Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100 – tale da collegare la genericità delle fatture con la dimostrazione dell’utilizzo indebito delle somme da esse portate da parte dell’amministratore: dopo di che la Corte d’appello non ha deciso la causa, come sembra reputare la ricorrente, in applicazione del principio dell’onere probatorio, ma ha osservato che le fatture evidenziavano in parte lavorazioni riscontrate ed in parte esponevano lavorazioni compatibili, il che ha condotto il giudice di merito ad escludere che l’esborso degli importi fatturati avesse riguardato non la manutenzione di un immobile della stessa società attrice, bensì della società de114 convenuto.

7.8. – L’ottavo motivo è inammissibile.

Esso si apre con il richiamo ad alcune risultanze istruttorie che la Corte territoriale non avrebbe esattamente valorizzato, così disattendendo il principio di “vicinanza o riferibilità della prova”.

Ma è cosa nota che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, nei limiti in cui detto sindacato è tuttora consentito dell’art. 360 c.p.c., vigente n. 5, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 agosto 2017, n. 19547; Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357). Ne’ il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009, n. 42; Cass. 17 luglio 2001, n. 9662). Oltretutto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (ex plurimis: Cass. 24 ottobre 2013, n. 24092; Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 21 aprile 2006, n. 9368).

La censura è dunque sviluppata in violazione dei principi sopra esposti, giacché diretta a rimettere in discussione la valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, che lo ha portato ad escludere, per difetto di prova, l’appropriazione da parte del D. di somme ulteriori rispetto a quelle concernenti il quadrimestre di cui si è già ripetutamente detto.

7.9.- Il nono mezzo è inammissibile.

La ricorrente censura il passaggio della sentenza impugnata in cui si afferma che: “le dichiarazioni testimoniali indicate dall’appellante non apportano particolari elementi dai quali desumere, nemmeno in via presuntiva, che i convenuti avessero ingenerato confusione tra le diverse imprese della famiglia D., operanti sul mercato”. Si sostiene, quindi, che sarebbe evidente l’errore ermeneutico commesso dalla Corte d’appello nell’applicare l’art. 2598 c.p.c., n. 1, norma che colpirebbe gli atti di concorrenza sleale indipendentemente dal fatto che essi abbiano esplicato i loro effetti. A sostegno di detta affermazione è richiamata l’autorità di due decisioni di questa Corte (Cass. 9 agosto 1991, n. 8691, e Cass. 29 maggio 2015, n. 11224), entrambe concernenti confusione tra le ditte e le denominazioni sociali di due imprenditori.

Ciò detto è sufficiente osservare che né dal corpo del motivo, né dall’espositiva (la tematica dell’illecito confusorio è trattata a pagina 5 del ricorso) riesce affatto a comprendersi in che cosa l’illecito addebitato a Commerciale D. S.r.l. si sarebbe sostanziato.

Sicché il motivo non è al riguardo autosufficiente.

7.10. – L’ultimo mezzo è inammissibile.

Esso concerne l’applicazione dell’art. 184 c.p.c., nel testo all’epoca (nel 1998) vigente, secondo cui: “… il giudice istruttore… su istanza di parte, rinvia ad altra udienza, assegnando un termine entro il quale le parti possono produrre documenti e indicare nuovi mezzi di prova, nonché altro termine per l’eventuale indicazione di prova contraria”. Per ciò che riesce a comprendersi dal ricorso, anche considerando quanto riferito nella sentenza impugnata, il giudice istruttore aveva nel caso di specie assegnato un primo termine di 60 giorni per la formulazione dei mezzi istruttori ed un secondo termine per prova contraria di 20 giorni. Ciò che emerge dal ricorso è che il primo termine scadeva l’11 luglio 1998 e la memoria contenente l’indicazione di prova contraria era stata depositata il 16 settembre 1998, epoca in cui, come è noto, la sospensione feriale ancora si protraeva dal 1 agosto al 15 settembre. E’ inoltre da considerare che il 12 luglio cadeva di domenica.

Orbene, secondo la ricorrente il termine di 20 giorni avrebbe dovuto essere computato a far data dall’11 luglio, anche se dal motivo non riesce ad intendersi in quale data detto termine, avuto riguardo alla ricostruzione offerta in ricorso, sarebbe spirato: e cioè se, computandosi l’11 luglio, la scadenza dovesse essere fissata al 30 luglio oppure al 31 luglio, con conseguente tardività, peraltro, in ogni caso, della memoria, depositata, escluso il periodo feriale, il 16 settembre. Ciò in applicazione del principio – si sostiene in ricorso – “secondo il quale l’esclusione del dies a quo non può che riferirsi al giorno in cui si verifica quel fatto giuridico che determina una nuova scansione temporale nei confronti delle parti. Fatto giuridico che, nel caso di specie, doveva essere individuato nel deposito (rectius, nel termine per il deposito) delle prime memorie istruttorie”.

Viceversa, il ragionamento della Corte d’appello è stato il seguente: “La concessione del doppio termine, seppure nella formula semplificata di 60+20 gg., deve essere interpretata avuto riguardo al dato testuale dell’art. 184 c.p.c., nel testo vigente ratione temporis, laddove era prevista la concessione di un primo termine per la prova diretta e di “altro termine” per la prova contraria. La testuale previsione di un altro termine induce a ritenere, diversamente da quanto si può argomentare dall’art. 183 e dall’art. 190 c.p.c., che il computo dei giorni debba essere eseguito ai sensi ed agli effetti di cui all’art. 155 c.p.c., comma 1 e quindi che, nella specie, il primo giorno utile per il calcolo fosse il 13 luglio, come affermato nella sentenza impugnata”.

Ciò detto, il ragionamento della ricorrente, se ben se ne intende il senso, non del tutto chiaro, non può essere condiviso, per l’ovvia considerazione che, nella ricostruzione sostenuta col motivo, l’11 luglio rappresenterebbe simultaneamente sia l’ultimo giorno del termine per il deposito delle memorie contenenti la richiesta di mezzi di prova, sia il primo giorno del termine per il deposito delle memorie contenenti la deduzione di prova contraria, il che è evidentemente impossibile.

Per contro, spirato il primo termine l’11 luglio, il secondo ha preso il suo corso senza soluzione di continuità dal successivo 12 luglio ed è dunque scaduto il 31 luglio, che cadeva di venerdì, con conseguente tardività della memoria depositata, escluso il periodo feriale, il giorno successivo, 16 settembre.

Non spiega, per la verità, la sentenza impugnata perché abbia effettuato il computo dal 13 luglio, ma si può supporre – in mancanza di un’altra plausibile spiegazione – che ciò abbia fatto in considerazione della circostanza che il giorno precedente, 12 luglio, era festivo. Per contro, è da escludere che la Corte d’appello abbia potuto tenere in considerazione la circostanza che l’11 luglio cadeva di sabato, dal momento che nel 1998 non era vigente dell’art. 155, comma 5, concernente il compimento degli atti processuali svolti fuori dall’udienza che scadono nella giornata del sabato. Ma, se questo è stato il ragionamento, fondato sul rilievo che il 12 luglio cadeva di domenica, l’errore è palese, giacché l’art. 155 stabilisce che: “Se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo”. In questo caso, dunque, non possedeva alcun rilievo il fatto che, non già la scadenza, ma l’esordio del termine di 20 giorni per il deposito delle memorie contenenti prova contraria, cadesse di domenica, il che sta alla base, ad esempio, del principio, sostanzialmente sovrapponibile, secondo cui, in tema di sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, la disposizione della L. n. 742 del 1969, art. 1, per la quale, se il decorso del termine ha inizio durante il periodo di sospensione, esso è differito alla fine di detto periodo, va intesa nel senso che il primo giorno utile successivo alla sospensione feriale va computato nel novero dei giorni concessi dal termine, di cui tale giorno non costituisce l’inizio del decorso ma la semplice prosecuzione, a nulla rilevando che si tratti di giorno festivo (Cass. 20 marzo 2017, n. 7112, che ha ritenuto la tardività del controricorso notificato il quarantunesimo giorno a far data dal 16 settembre 2012, primo giorno utile successivo alla sospensione feriale, ricompreso nel termine quantunque cadesse di domenica).

Tanto premesso, la astratta fondatezza del motivo processuale spiegato non conduce alla cassazione della sentenza avuto riguardo al fermo principio secondo cui i vizi dell’attività del giudice che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato error in procedendo, con conseguente onere dell’impugnante di indicare il danno concreto arrecatogli dall’invocata nullità processuale (Cass. 9 luglio 2014, n. 15676; Cass. 12 settembre 2011, n. 18635).

E allora, sta di fatto, nel nostro caso, che questa Corte, alla lettura del ricorso, non sa assolutamente nulla dei mezzi istruttori ammessi ed assunti, con particolare riguardo ad un’ipotetica prova contraria dedotta dagli originari convenuti, e non sa assolutamente nulla dell’incidenza che l’ipotetica assunzione di una ipotetica prova contraria possa aver determinato sull’adozione della decisione della Corte d’appello. Sicché, non può pensarsi che la cassazione sia disposta al buio, senza alcuna certezza in ordine all’incidenza causale dell’errore in procedendo sull’esito sostanziale del giudizio.

Di qui l’inammissibilità della censura.

8. – Il ricorso incidentale condizionato è assorbito.

9. – Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale condizionato, e condanna la ricorrente al rimborso, in favore dei controricorrenti, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in Euro 15.000,00 per compensi ed in Euro 200,00 per esborsi quanto a Sardares S.p.a. nonché in Euro 15.000,00 per compensi ed in Euro 200,00 per esborsi quanto a D.G. e M.G., oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021

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