LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5912/2016 proposto da:
D.A.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA MERCEDE n. 33, presso lo studio dell’avvocato SIMONE VENEZIANO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
V.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI OTTAVI n. 9, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO SCARINGELLA, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
L.M.R., L.G., C.C.V., M.T., G.G., D.M.V., CO.AN., B.M.T. e Z.F.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 712/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;
viste le conclusioni scritte depositate dal P.G., nella persona del Sostituto Dott. ALESSANDRO PEPE, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione ritualmente notificato V.C. evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Roma D.A.M. e Z.F., chiedendo accertarsi la natura condominiale del terrazzo posto a livello dell’abitazione di proprietà dei convenuti, nonché dei due attigui locali, bucataio-stenditoio e cassoni, ordinarsi la riduzione in pristino dei predetti beni e il diritto dei condomini di accedervi liberamente, nonché la condanna dei convenuti al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio.
Si costituiva in giudizio la D., resistendo alla domanda e spiegando riconvenzionale l’accertamento della natura pertinenziale dei beni oggetto di causa rispetto all’immobile di sua proprietà, o comunque la loro intervenuta usucapione, nonché la condanna dell’attore al rimborso delle spese per la manutenzione e la bonifica dei beni predetti. Con separato atto di costituiva anche lo Z., aderendo alle conclusioni della D..
Con sentenza n. 23675/2006 il Tribunale di Roma accoglieva la domanda principale nei soli confronti della D., rigettando quella riconvenzionale; accertava la proprietà condominiale del terrazzo a livello; condannava la D. a demolire quanto edificato su detto bene e a consentire il libero accesso allo stesso da parte di tutti i condomini dell’edificio; condannava infine la predetta al risarcimento del danno da liquidare in separato giudizio.
Interponeva appello la D. e resisteva il V..
Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello rigettava l’impugnazione.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione D.A.M., affidandosi a sei motivi.
Resiste con controricorso V.C..
La parte ricorrente ha depositato memoria.
Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1117 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato la natura condominiale del terrazzo e degli annessi locali bucataio/stenditoio e cassino oggetto di causa, in assenza della prova della loro effettiva destinazione all’uso comune.
La censura è infondata.
La stessa ricorrente riconosce (cfr. pag. 9 del ricorso) che la presunzione di condominialità, che sussiste per i beni indicati dall’art. 1117 c.c. – tra cui sono compresi anche i lastrici solari -scatta in presenza della “suscettibilità” del bene ad essere destinato ad uso collettivo, e non della sua effettiva destinazione a tale scopo. Anche in assenza di uso effettivo, dunque, la semplice possibilità del bene di assolvere ad uno scopo comune è idonea a far scattare la presunzione di cui sopra, con conseguente onere della prova contraria a carico della parte che abbia interesse a vincere la predetta presunzione. In proposito, questa Corte ha affermato che “In tema di condominio degli edifici, qualora non intervenga una volontà derogatoria degli interessati sul regime di appartenenza, i beni e i servizi elencati dall’art. 1117 c.c., in virtù della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, sono attribuiti ex lege in proprietà comune per effetto dell’acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano; pertanto, il lastrico solare è oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo, per tale intendendosi gli atti di acquisto delle altre unità immobiliari nonché il regolamento di condominio accettato dai singoli condomini” (Cassa Sez. 2, Sentenza n. 13279 del 16/07/2004, Rv. 574665). Non basta, quindi, che la proprietà individuale risulti dal titolo di acquisto della parte che si rivendica proprietaria esclusiva del terrazzo, come è avvenuto nel caso di specie, ma occorre che essa risulti dagli atti di acquisto degli altri condomini o dal regolamento condominiale che essi abbiano espressamente accettato in occasione del loro acquisto. In difetto di tale prova, la presunzione di condominialità spiega piena efficacia.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1159 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la C.A. avrebbe dovuto riconoscere in suo favore la sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’usucapione decennale, alla luce del titolo di acquisto, in cui il terrazzo e i due locali attigui erano menzionati.
La censura è infondata.
La Corte di Appello afferma chiaramente che il terrazzo e i due locali su di esso insistenti non erano chiaramente indicati nell’atto di acquisto della D., risalente al 14.7.1986 (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). Poco prima, la stessa Corte distrettuale aveva affermato che l’odierna ricorrente aveva dichiarato, nel corso del giudizio di merito, di aver sopportato il passaggio dei condomini fino al 1987 (cfr. pag. 4). Su detti presupposti, la Corte capitolina ha escluso la prova del possesso pacifico, continuativo e indisturbato per venti anni, poiché la D. aveva acquistato nel 1986 e non aveva adeguatamente dimostrato un possesso esclusivo anteriore all’acquisto, esercitato dai suoi danti causa (cfr. pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata). Il senso complessivo dei richiamati passaggi della motivazione della sentenza impugnata consente di affermare che il giudice di secondo grado abbia ritenuto, all’esito del libero apprezzamento del fatto controverso:
1) da un lato, che il terrazzo e i due annessi locali non erano indicati nel titolo, di talché non si poteva configurare, in favore dell’odierna ricorrente, l’istituto dell’usucapione decennale previsto dall’art. 1159 c.c.;
2) dall’altro lato, che la D. non avesse fornito la prova di aver maturato comunque il ventennio per l’usucapione ordinaria.
La ricorrente contesta queste affermazioni del giudice di merito, invocando una “più attenta lettura della documentazione versata in atti” (cfr. pag. 13 del ricorso), con ciò inevitabilmente rivelando che la censura in esame attinge, almeno in parte, al merito della questione, ed è pertanto inammissibile. Il motivo di ricorso, infatti, non può risolversi nella mera istanza di revisione del giudizio di fatto operato dal giudice di merito (Cass. Sez. U., Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790), né nella invocazione di una differente lettura delle risultanze istruttorie, posto il principio secondo cui “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1480,1483 e 1484 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe errato nel non accogliere la domanda di evizione proposta dalla D. verso la sua dante causa.
La censura è infondata.
La Corte distrettuale richiama, sul punto, la motivazione già resa dal giudice di prime cure, il quale aveva ritenuto che la dante causa della D. non le avesse trasferito beni dei quali non poteva disporre, poiché sia il terrazzo che i locali annessi non erano compresi con certezza nel contratto stipulato tra le dette parti. A tale prima ratio decidendi il Tribunale aveva poi aggiunto l’ulteriore considerazione secondo cui, in ogni caso, anche se il trasferimento vi fosse stato, esso avrebbe avuto ad oggetto beni dei quali la dante causa della D. non poteva disporre, il che escludeva in radice la configurabilità dell’istituto dell’evizione. La prima parte del ragionamento, come detto confermato dal giudice di seconda istanza, è sufficiente a tener ferma la statuizione di rigetto della domanda di evizione, e non è adeguatamente attinta dalla censura in esame, poiché la ricorrente non dimostra che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di merito, il suo contratto di acquisto contenesse la chiara indicazione che la compravendita includeva anche il terrazzo ed i due locali annessi. Sul punto, infatti, la ricorrente si limita a far riferimento alla planimetria allegata al suo titolo di acquisto (cfr. pag. 3 del ricorso), senza tuttavia considerare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “Nei contratti in cui è richiesta la forma scritta ad substantiam, l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile sulla base degli elementi risultanti dal contratto stesso, non potendo farsi ricorso ad elementi estranei ad esso. Ne consegue che se le parti di una compravendita immobiliare hanno fatto riferimento per individuare il bene ad una planimetria allegata all’atto, è necessario che essa non solo sia sottoscritta dai contraenti, ma anche espressamente indicata nel contratto come parte integrante del contenuto dello stesso” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21352 del 09/10/2014, Rv. 632609; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5028 del 05/03/2007, Rv. 596773; in termini, cfr. anche Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 1626 del 24/01/2020, Rv. 656846 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 26351 del 19/11/2020, Rv. 659683, secondo le quali, quando in un contratto preliminare di compravendita immobiliare il bene sia individuato mediante rinvio ad una planimetria ad esso allegata, la stessa deve necessariamente essere prodotta in giudizio). Nel caso di specie, la ricorrente non indica, nella doglianza in esame, che la planimetria che – secondo la sua prospettazione – conterrebbe anche l’individuazione del terrazzo e degli annessi di cui è causa era stata allegata al suo titolo di acquisto, espressamente indicata come facente parte dello stesso e sottoscritta dalle parti stipulanti.
Peraltro, la Corte di Appello afferma (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata) che l’immobile della D. era descritto, nel suo titolo di acquisto, come un appartamento “composto da una camera, cucina e bagno”, senza alcun riferimento, quindi, né al terrazzo né ai due vani annessi allo stesso. Tale statuizione non viene neppure attinta dalla doglianza in esame, che pertanto non coglie pienamente la ratio del rigetto della domanda della ricorrente.
Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2058 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente omesso di riconoscere alla D. il diritto di provvedere al risarcimento del danno per equivalente.
La censura è infondata.
La Corte distrettuale dà correttamente atto che la tutela dei diritti reali si realizza mediante l’istituto della riduzione in pristino stato (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata). Sul punto, il collegio ritiene opportuno ribadire il principio secondo cui “Atteso il carattere assoluto dei diritti reali, la tutela degli stessi mediante reintegrazione in forma specifica non è soggetta al limite ex art. 2058 c.c., comma 2, salvo che lo stesso titolare danneggiato chieda il risarcimento per equivalente” (Cass. Sez. U., Sentenza n. 10499 del 20/05/2016 Rv. 639689). E’ dunque soltanto il danneggiato che può consentire acché la tutela del diritto reale oggetto di lesione venga attuata mediante una forma di risarcimento alternativa al ripristino, il quale ultimo rappresenta, in ogni altro caso, lo strumento tipico previsto per assicurare protezione ai diritti di natura assoluta. In ogni caso, il collegio ritiene opportuno evidenziare che, anche prima dell’arresto delle Sezioni Unite del 2016 appena richiamato, era pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, il fatto che “In tema di risarcimento del danno per lesione dei diritti reali, rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito (il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità) attribuire d’ufficio al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15875 del 25/06/2013, Rv. 626971; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 866 del 16/01/2007, Rv. 594587). Il mancato ricorso, da parte del giudice di merito, allo strumento della tutela per equivalente, non può quindi in nessun caso essere sindacato in sede di legittimità.
Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c., perché la Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso il suo diritto al rimborso delle spese di mantenimento delle parti comuni dell’edificio, sostenute negli anni dalla D. sulla base delle tabelle condominiali di ripartizione, che presupponevano la sua proprietà esclusiva dei beni oggetto di causa.
La censura è infondata.
La Corte di Appello afferma chiaramente che la questione era stata proposta in modo generico (cfr. pag. 9 della sentenza) e la ricorrente non si confronta adeguatamente con tale affermazione, non deducendo che – al contrario – la censura fosse stata proposta in modo specifico, né riportando la domanda proposta in prime cure ed il motivo di appello mediante il quale la questione è stata veicolata in seconde cure, né, infine, indicando da quali documenti la rivendicazione in esame sarebbe (in ipotesi) stata dimostrata. In tal modo, la D. non pone il collegio in condizioni di esaminare la correttezza della statuizione della Corte distrettuale, relativa alla ravvisata genericità della censura proposta dall’odierna ricorrente sullo specifico punto.
Inoltre, la Corte di Appello afferma che i pagamenti eseguiti negli anni dalla D. si giustificavano sulla base delle tabelle in vigore all’epoca dei vari riparti e dell’approvazione dei consuntivi di gestione da parte dell’assemblea di condominio. Questa statuizione, non attinta in alcun modo dalla censura in esame, è pienamente sufficiente a tener ferma la statuizione di rigetto operata dalla Corte distrettuale.
Infine, con il sesto ed ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di merito avrebbe quantificato le spese del grado in misura eccessiva, rispetto al valore della controversia.
La censura è inammissibile.
La ricorrente non deduce, infatti, né l’applicazione di uno scaglione di tariffa non corretto, né la violazione dei valori massimi previsti dallo scaglione al quale il giudice di merito avrebbe dovuto fare riferimento, ma si duole soltanto dell’asserita eccessività della condanna ricevuta. Il motivo e’, di conseguenza, carente di specificità, perché la D. non deduce quale sarebbe la lesione in concreto ricevuta. Ne’, d’altro canto, è possibile invocare, in sede di legittimità, una revisione del regime delle spese del giudizio di merito sul solo presupposto dell’eccessività della condanna, anche tenuto conto che, nel caso di specie, la Corte capitolina ha governato le spese del grado in applicazione del principio generale della soccombenza, previsto dall’art. 91 c.p.c..
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza nei soli confronti del controricorrente. Nulla, invece, per le parti intimate, in assenza di svolgimento di attività difensiva, da parte loro, nel presente giudizio di legittimità.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 4 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2021
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