LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16437/2019 proposto da:
C.A., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO GIOVANNI ORSOLINO;
– ricorrente –
contro
VOLKSWAGEN GROUP ITALIA S.P.A.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 636-2029 del Tribunale di GENOVA, depositata il 7/03/2019;
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.
RILEVATO
che:
C.A. citava in giudizio, dinanzi al Giudice di Pace di Genova, la Volkswagen Group Italia S.p.A., per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti a causa delle difformità riscontrate sull’autovettura di sua proprietà, immatricolata in Italia da parte della convenuta, rispetto alle caratteristiche dichiarate sulla carta di circolazione, assumendo, in particolare, che fosse stato falsamente attestato il rispetto dei requisiti previsti dal Reg. CEE 715/2007, relativamente alle emissioni di ossido di azoto, attraverso l’impiego di un software manipolativo, installato all’interno della centralina elettrica dell’auto, che aveva consentito di superare fraudolentemente i test di omologazione e di far risultare rispettati i limiti di emissione di sostanze inquinanti previsti dalla normativa Euro 5.
L’attrice, in considerazione delle modifiche tecniche cui sottoporre l’auto per renderla conforme ai parametri Euro 5, della maggiore svalutazione dell’auto rispetto a quelle di coeva immatricolazione di altre case costruttrici, quantificava la richiesta risarcitoria in Euro 4.500,00 o in quella ritenuta di giustizia o, in subordine, si rimetteva alla valutazione equitativa del giudice.
Il Giudice di Pace di Genova, con sentenza n. 2844/16, respingeva la domanda.
Il Tribunale di Genova, con la sentenza n. 636/2009, resa pubblica il 7/03/2019, rigettava l’appello proposto dall’odierna ricorrente, con una motivazione diversa rispetto a quella del giudice di prime cure, il quale si era soffermato sulla questione della legittimazione passiva della Volkswagen Group Italia S.p.A., società del gruppo Volkswagen ed importatrice in Italia della vettura acquistata dall’attrice, al fine di valutare l’equiparazione in termini di responsabilità tra la società ed il produttore ed il fabbricante, senza esaminare la condotta illegittima imputata alla Volkswagen Group Italia S.p.A., individuabile nella messa in commercio di un veicolo non conforme al tipo omologato, né il danno conseguitone, consistente nell’immatricolazione dell’auto. In particolare, il Tribunale riteneva che l’appellante non avesse dedotto né un danno evento né un danno conseguenza e che, essendo stata la domanda incentrata sulla violazione dell’art. 2043 c.c. e sull’art. 77 C.d.S., nessun rilievo avesse la decisione dell’AGCM dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato n. 26137, adottato nell’adunanza del 4 agosto 2016 (e notificato sia a Volkswagen Group Italia S.p.a. che a Volkswagen AG, in data 8 agosto 2016), con cui l’Autorità aveva condannato, in solido, Volkswagen Group Italia S.p.A. e Wolkswagen AG, al pagamento di una sanzione pecuniaria, per aver posto in essere una pratica commerciale scorretta ai sensi dell’art. 20, comma 2, art. 21, comma 1, lett. b) e art. 23, comma 1, lett. d), del codice di consumo.
C.A. ricorre avverso la suddetta sentenza articolando undici motivi.
Nessuna attività difensiva è svolta dall’intimata in questa sede.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo si censura la sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per falsa applicazione dell’art. 77 C.d.S., n. 3, nella parte in cui ha affermato che “il danno non può essere individuato nella mera immatricolazione della vettura, da tale immatricolazione nessuna conseguenza ha inciso la sfera dell’attrice”.
Secondo la ricorrente il bene tutelato dall’art. 77 C.d.S., a mente del quale “chiunque produce o mette in commercio un veicolo non conforme al tipo omologato è soggetto, se il fatto non costituisce reato, alla sanzione amministrativa del pagamento di una multa da Euro 841,00 ad Euro 3366,00”, è il diritto ad ottenere una vettura realmente conforme a quanto dichiarato sulla carta di circolazione, perciò l’immatricolazione, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza, non è il danno subito, ma il presupposto, cioè la fonte, che ha cagionato il danno derivante dall’acquisto della vettura.
2. Con il secondo motivo la ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia la violazione degli artt. 1173,2043 e 1218 c.c. e dell’art. 77C.d.S., per avere la sentenza affermato che “il danno non può essere individuato nella immatricolazione della vettura, da tale immatricolazione nessuna conseguenza ha inciso la sfera dell’attrice”. L’errore della sentenza consisterebbe nel non avere considerato che, ai sensi dell’art. 1173 c.c., il fatto illecito contrattuale ed extracontrattuale è fonte dell’obbligazione risarcitoria.
3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 1226 c.c., che la sentenza impugnata abbia le abbia negato il risarcimento, escludendo che l’immatricolazione abbia procurato conseguenze pregiudizievoli e in considerazione della mancata deduzione di alcuno degli elementi essenziali della domanda di risarcimento del danno.
L’assunto della ricorrente è che il giudice a quo dovesse procedere alla valutazione equitativa del danno, attesa la notevole difficoltà di quantificazione dello stesso, prendendo in considerazione gli elementi prodotti nelle sette pagine della memoria di replica a ciò dedicate e che sono riprodotti nel ricorso, alle pagine 15-19.
4. Con il quarto motivo la ricorrente censura la stessa statuizione oggetto del precedente motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4 e in relazione all’art. 1226 c.c..
5. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2043 c.c., per avere la sentenza impugnata ritenuto che, essendo stata la domanda formulata solo ai sensi degli artt. 2043 e 77 C.d.S., dovesse dichiararsi inammissibile ogni domanda volta a ricostruire la responsabilità sulla base di altre norme rispetto a quelle richiamate.
Secondo la ricorrente, pur essendo stata la domanda basata sulla responsabilità extracontrattuale della Volkswagen Group Italia, il Tribunale avrebbe dovuto rendere la pronuncia richiesta sulla base di una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalla parte nonché in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante.
5.1. I motivi dal primo al quinto meritano un esame unitario, perché pongono questioni tra di loro connesse.
Deve preliminarmente osservarsi che l’aver individuato una condotta antigiuridica non implica l’automatico riconoscimento del diritto risarcitorio, in assenza della prova della ricorrenza degli altri elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità invocata: colpa o dolo del soggetto agente, ricorrenza del danno ingiusto, nesso di causa tra la condotta e l’evento di danno, conseguenze pregiudizievoli.
E’ quanto ha inteso sottolineare il Tribunale, il quale, dopo aver dubitato della imputabilità della condotta giuridica sotto il profilo soggettivo della colpa in capo a Volkswagen Group Italia, in quanto mera importatrice dell’auto, ha escluso, ricorrendo al principio della ragione più liquida, il risarcimento del danno per la carenza di prova del danno, inteso sia come danno evento sia come danno conseguenza.
Addebitare una responsabilità risarcitoria senza la prova della ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi di cui all’art. 2043 c.c., significherebbe superare i limiti strutturali del fatto illecito e sconfinare nella responsabilità stocastica. Non basta, infatti, che al soggetto agente venga imputata una condotta antigiuridica, come in questo caso, occorrendo altresì la dimostrazione che quella condotta antigiuridica, di cui l’agente debba rispondere a titolo di colpa o di dolo, abbia provocato un danno ingiusto risarcibile. Evocando il danno evento ed il danno conseguenza il Tribunale ha inteso, negando la ricorrenza del primo, escludere che la condotta antigiuridica abbia leso un interesse giuridicamente rilevante e, escludendo la sussistenza del secondo, che la stessa condotta abbia provocato una conseguenza pregiudizievole nella sfera giuridica dell’odierna ricorrente che, attraverso i meccanismi propri della responsabilità civile, fosse necessario allocare diversamente, cioè non essere lasciata lì dove si era verificata, ma porla a carico del soggetto agente.
Nondimeno, la statuizione del Tribunale pur corretta in astratto non lo è nella sua applicazione al caso concreto.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare condivisibilmente che “quando il giudice di merito, dopo avere ricostruito la quaestio facti secondo le allegazioni e le prove offerte dalle parti individua i termini della c.d. fattispecie concreta e, quindi, riconduce quest’ultima ad una fattispecie giuridica astratta piuttosto che ad un’altra cui sarebbe in realtà riconducibile oppure si rifiuta di ricondurla ad una certa fattispecie giuridica astratta cui sarebbe riconducibile o a qualunque fattispecie giuridica astratta, mentre ve ne sarebbe una cui potrebbe essere ricondotta, la valutazione così effettuata e la relativa motivazione, non inerendo più all’attività di ricostruzione e, dunque, di apprezzamento dei fatti storici, bensì all’attività di qualificazione in iure di essi e, dunque, ad un giudizio normativo, è controllabile e deve essere controllata dalla Corte di Cassazione nell’ambito del paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 3.
In tal caso, infatti, fa parte del sindacato di legittimità (alla stregua del) detto paradigma secondo la specie cui il legislatore allude con la nozione di “falsa applicazione di norme di diritto”, il controllare se la fattispecie concreta (assunta così come ricostruita dal giudice di merito e, dunque, senza che si debba procedere ad una valutazione diretta a verificarne l’esattezza e meno che mai ad una diversa valutazione e ricostruzione o apprezzamento ricostruttivo), è stata ricondotta a ragione o a torto alla fattispecie giuridica astratta individuata dal giudice di merito come idonea a dettarne la disciplina oppure al contrario se doveva essere ricondotta ad altra fattispecie giuridica oppure ancora era irriconducibile ad una fattispecie giuridica astratta, sì da non rilevare in iure, oppure ancora non è stata erroneamente ricondotta ad una certa fattispecie giuridica cui invece doveva esserlo, essendosi il giudice di merito rifiutato expressis verbis di farlo (c.d. vizio di sussunzione o di rifiuto di sussunzione)” (così da ultimo Cass. 12/01/2021, n. 261 e già in termini analoghi Cass. 31/05/2018, n. 13747; Cass. 29/08/2019, n. 21772).
Abbandonata la ricostruzione dell’art. 2043 c.c., come norma generale – cioè come norma secondaria che per la sua attivazione necessitava che un’altra norma del sistema, quella primaria, appunto, avesse qualificato la posizione della vittima, assegnandole protezione da parte dell’ordinamento giuridico: protezione risarcitoria in concreto garantita, a completamento dal sistema, dall’art. 2043 c.c., rispondente come tale ad un’esigenza di conformazione della fattispecie legale che si oppone alla tecnica casistica – ha guadagnato spazio il convincimento che essa sia una clausola generale, per la cui attivazione non è richiesta la ricerca di divieti espressi da un atto normativo, essendo sufficiente ad integrare il presupposto dell’ingiustizia del danno la violazione di un interesse giuridicamente rilevante, selezionato, volta per volta, dall’interprete in coerenza con i valori del sistema normativo.
Il che assume precipuo rilievo nella fattispecie per cui è causa perché consente di ritenere errata l’affermazione del Tribunale in ordine al difetto di prova di un danno evento, cioè della lesione di un interesse giuridicamente rilevante, per un duplice ordine di considerazioni: perché non spiega sulla scorta di quale ragionamento sia stata esclusa la ricorrenza di un danno evento e perché pare, la scarna motivazione consente solo di avanzare delle ipotesi, avere aderito all’idea che l’invocazione dell’art. 2043 c.c. e dell’art. 77C.d.S., precludesse la ulteriore ricerca di un interesse meritevole di protezione, diverso da quello eventualmente ritenuto tipico in virtù del combinato disposto delle norme evocate.
Una volta accertato il fatto che l’informazione relativa al contenuto delle emissioni inquinanti era inesatta – circostanza pacifica – il Tribunale avrebbe dovuto, invece, verificare se l’appellante fosse titolare di un interesse giuridicamente rilevante, come tale meritevole di protezione risarcitoria. Proprio perché la domanda era stata formulata, ai sensi dell’art. 2043 c.c., il sintagma danno ingiusto evocato dalla disposizione attribuiva al giudice un’ampia libertà di selezione dell’area degli interessi protetti, risultando detta norma sostanzialmente priva di indicazioni preventive circa il criterio selettivo da adoperare.
Ad esempio, il Tribunale aveva la facoltà di verificare se il comportamento tenuto dal soggetto asseritamente danneggiante avesse leso il legittimo e ragionevole affidamento maturato dalla danneggiata in ragione della particolare qualità professionale del soggetto che aveva fornito i dati relativi alle emissioni inquinanti, in considerazione dell’art. 18, comma 1, lett. h), c. cons. e, quindi, della diligenza professionale ivi prevista, cioè del ” normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buonafede nel settore di attività del professionista”, e della correttezza intesa come adesione alle regole deontologiche-consuetudinarie del commercio nel settore; o anche ai sensi, ad esempio, dell’art. 20 cod. consumo, anche a prescindere dal provvedimento dell’Agcom che aveva sanzionato il gruppo Volkswagen, in ragione dell’adozione di una pratica commerciale scorretta in grado di condizionare tanto l’an quanto il quomodo della contrattazione e/o ai sensi dell’art. 1337 c.c..
Tale errore della Corte gioverebbe, nondimeno, alla ricorrente solo se risultasse dimostrata da parte sua la ricorrenza degli altri presupposti della fattispecie di responsabilità. Nel caso di specie, è stata appena lambita la questione della legittimazione passiva della Volkswagen Group Italia S.p.A. – il Tribunale si è limitato ad adombrare un dubbio a tal riguardo, ma non ha approfondito la questione perché ha adottato il criterio della ragione più liquida – che, invece, è dirimente. Sul punto si rinvia a Cass. 26/09/2019, n. 23981 che, riguardo al coinvolgimento di Volkswagen Group Italia S.p.A. nel caso dieselgate, sia pure esaminando la questione della idoneità ad interrompere il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria di una lettera inviata a Volkswagen Group Italia S.p.A. e non anche alla casa produttrice tedesca, ha ribadito che il fornitore è normalmente soggetto estraneo alla catena produttiva, che per il fornitore il codice del consumo prevede “una speciale disciplina” che ne giustifica la responsabilità alternativa rispetto al produttore solo a certe condizioni e che l'”importatore e distributore in Italia di un autoveicolo prodotto da un soggetto residente all’interno dell’Unione Europea non risponde dei danni causati dal difetto di fabbricazione del veicolo stesso, giacché in tal caso il D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224, art. 3, comma 4, consente al consumatore di promuovere il giudizio risarcitorio direttamente nei confronti del produttore”, a nulla rilevando che la fornitrice costituisca una “filiale” della casa madre tedesca, né che sia la società produttrice sia quella importatrice siano state raggiunte entrambe dalla misura di cd. “public enforcement” adottata dall’AGCM, a norma dell’art. 26 del cod. consumo.
Deve osservarsi, poi, che il Tribunale, sia pure attraverso la tecnica della ragione più liquida, ha negato accoglimento alla pretesa risarcitoria non solo per l’assenza di un danno evento, ma anche perché la danneggiata non aveva provato la ricorrenza di un danno conseguenza.
A tal riguardo, dopo aver stigmatizzato la sovrapposizione erronea tra an e quantum debeatur che inficia l’illustrazione del quarto motivo di ricorso, va precisato che, per insegnamento costante di questa Corte, la valutazione equitativa presuppone che il danno sia certo nella sua esistenza ontologica (Cass. 19/12/2011, n. 27447), cioè che “la sussistenza di un danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata (Cass. 4/04/2017, n. 8662). Ne consegue che, ove la prova del danno non sia stata raggiunta anche sulla scorta di elementi presuntivi e nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, non può chiedersi al giudice di creare i presupposti logici e normativi per la liquidazione del danno (Cass. 4/08/2017, n. 19447). Ne’, come sembra ipotizzare la odierna ricorrente, la circostanza che il danno possa essere provato anche attraverso presunzioni e che possa essere determinato nel suo ammontare equitativamente può aprire la strada alla ricorrenza di una sorta di “doppia presunzione”, trattandosi in tutta evidenza di momenti distinti, articolati nell’accertamento del danno attraverso il ragionamento deduttivo basato su fatti certi, prima, e nella liquidazione equitativa del danno, già accertato, poi (Cass. 4/4/2017, n. 8662).
La ratio della valutazione equitativa, una volta che la prova del danno sia stata raggiunta, e, in mancanza degli elementi necessari per procedere ad una sua puntuale quantificazione, è quella di rimettere al potere-dovere del giudice di sopperire alle eventuali difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria (Cass. 6/04/2017, n. 8920) e la ricerca di una omogeneità tra risarcimento accordato e danno risentito; giammai la valutazione equitativa assume alcuna valenza surrogatoria della prova del danno, né può pensarsi di utilizzarla per sopperire alla difficoltà di dimostrazione del nesso causale tra l’inadempimento o altra condotta illecita che ne sta alla base ed il danno (Cass. 27/04/217, n. 10393).
Tanto chiarito, deve, per di più, rilevarsi che alcuno degli indici che la ricorrente aveva offerto per dimostrare la ricorrenza del danno asseritamente subito risulta idoneo allo scopo, e ciò indipendentemente dall’errore in cui è incorso il Tribunale, ritenendo che il danno lamentato consistesse nell’immatricolazione e non piuttosto che l’immatricolazione di un’auto avente caratteristiche difformi rispetto a quelle convenute fosse la fonte di un eventuale danno.
La ricorrente non ha dimostrato di essere interessata ai livelli di emissioni inquinanti dell’auto acquistata, neppure ha allegato di aver risposto al richiamo della Volkswagen o di aver dimostrato interesse per la sostituzione del software difettoso; né ha fornito indici dai quali desumere un deprezzamento dell’auto, adducendo, ad esempio, gli esiti di un’accreditata indagine di mercato o che l’auto aveva perduto la qualificazione di Euro 5 o che le emissioni inquinanti avevano alterato la performance del mezzo o ne avessero ridotto la possibilità di circolazione. Quanto addotto dalla ricorrente ha i caratteri della mera congettura circa il possibile decremento di prezzo delle auto Volkswagen interessate dallo scandalo dieselgate.
Nonostante l’incongrua motivazione del Tribunale in ordine al difetto di un danno evento, i motivi, dunque, non possono essere accolti.
6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia il fatto che essendo il comportamento della convenuta chiaramente ascrivibile ad un reato – truffa ex art. 640 c.p. e frode in commercio ex art. 515 c.p. – avrebbe dovuto esserle riconosciuto il danno non patrimoniale da reato.
Il motivo è inammissibile, perché non sono stati prospettati al Tribunale tutti gli elementi per ritenere integrati gli estremi delle fattispecie penalmente rilevanti della truffa e della frode in commercio.
La censura è anche infondata, perché lascia intendere che il danno morale avrebbe dovuto liquidarsi in assenza di prova.
L’astratta ricorrenza di un reato esonera la parte asseritamente danneggiata dall’onere di provare la lesione di un interesse costituzionalmente protetto, ma non comporta alcun automatismo risarcitorio, restando a carico del danneggiato l’onere della prova della ricorrenza delle conseguenze pregiudizievoli. Deve richiamarsi, al fine di ribadirlo, il principio secondo cui “anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato la sussistenza del danno non patrimoniale non può mai essere ritenuta in re ipsa, ma va sempre debitamente allegata e provata da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici” (Cass. 12/04/2011, n. 8421).
7. Con il settimo motivo la ricorrente rimprovera alla sentenza impugnata di aver violato l’art. 112 c.p.c. e art. 2059 c.c., per avere escluso ogni rilevanza alla disciplina relativa alla pubblicità ingannevole in ragione del fatto che la domanda fosse stata basata esclusivamente sulla violazione dell’art. 2043 c.c. e art. 77 C.d.S., senza tener conto anche la violazione della normativa consumeristica, accertata e sanzionata dall’AGCOM integra gli estremi del fatto illecito e omettendo di considerare che l’art. 318 c.p.c., afferma chiaramente che nel procedimento davanti al Giudice di Pace la domanda deve contenere oltre all’indicazione del giudice e delle parti, l’esposizione dei fatti e l’indicazione dell’oggetto, senza espressamente prevedere anche le ragioni di diritto costituenti le ragioni della domanda.
8. Con l’ottavo motivo la ricorrente lamenta che il Tribunale abbia assunto una motivazione contraddittoria, avendo dichiarato ammissibile il provvedimento dell’AGCOM, salvo poi affermare di non dover tener conto del suo contenuto al fine del decidere, abbia omesso di motivare il mancato riconoscimento della responsabilità ex art. 2043 c.c., sulla base delle violazioni dell’art. 20, comma 2, art. 21, comma 1, lett. b e art. 23, comma 1, lett. d. del Codice del Consumo commesse dalla Volkswagen Group e sanzionate dall’AGCOM, abbia erroneamente ritenuto nuova la domanda di riconoscimento della responsabilità per le violazioni sanzionate dall’AGCOM, abbia pronunciato in violazione dell’art. 112 c.p.c..
9. Con il nono motivo si censura il fatto che il Tribunale non abbia preso in considerazione il provvedimento dell’AGCOM che indicava sia la violazione della pubblicità ingannevole da parte della Volkswagen Group Italia sia i criteri per la liquidazione del danno, in violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
10. Con il decimo motivo alla sentenza impugnata si imputa di non avere esaminato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il testo letterale della lettera inviata dalla Volkswagen Group Italia S.p.A. per fondare la responsabilità della stessa nella parte in cui affermava “A titolo personale ed a nome del gruppo che rappresentiamo le porgiamo le più sentite e sincere scuse per ogni eventuale disagio.
10.1. I motivi dal sesto al decimo sono assorbiti, perché quand’anche idonei a dimostrare la ricorrenza di un comportamento antigiuridico e/o la ricorrenza di un danno evento, non sono in grado di superare la statuizione con cui il Tribunale ha escluso la ricorrenza di alcun danno conseguenza.
11. Con l’undicesimo motivo, per violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, ed in relazione all’art. 1226 c.c., la ricorrente lamenta che il Tribunale non abbia tenuto conto delle aperture giurisprudenziali nei confronti del danno punitivo in considerazione del fatto che negli Stati Uniti, ove era stato smascherato l’utilizzo truffaldino del software che abbatteva le emissioni inquinanti, ogni acquirente era stato risarcito dalla Volkswagen con la somma di 10.000,00 dollari per timore di incorre in una condanna per danni punitivi.
Il motivo è infondato.
La pretesa di attribuire una connotazione punitiva alla domanda risarcitoria che trova giustificazione nella mancata dimostrazione della ricorrenza di danni conseguenza con correlativa impossibilità di far operare la funzione propria della responsabilità civile, quella compensativa e/o solidaristico-satisfattiva, non può trovare accoglimento. Sebbene questa Corte abbia riconosciuto che la funzione sanzionatoria non è incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento ed abbia individuato una pluralità di ipotesi di misure normative che trovano la propria ratio giustificatrice solo se si riconosce alla responsabilità civile natura polifunzionale che la proietta anche verso la dimensione preventiva e quella sanzionatorio-punitiva, non si è affatto spinta fino a riconoscere la possibilità che i giudici imprimano tale direzione al risarcimento del danno, in assenza di una intermediazione legislativa. Sicché, ai fini che qui interessano, risarcimenti ultracompesativi sono ammessi nel rispetto del principio di legalità; per converso, è escluso che il giudice basandosi sulla valutazione della condotta dell’autore dell’illecito e/o sulla condizione del danneggiato o su ragioni di politica del diritto possa dispensare risarcimenti che non siano fondati sul principio dell’integrale riparazione del danno: non bastando a tale scopo né la clausola generale dell’art. 2043 c.c., né la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. e tanto meno la possibilità di valutazione equitativa del danno (Cass., Sez. Un., 5/07/2017, n. 16601).
12. I motivi dal primo al quinto sono infondati, i motivi dal sesto al decimo sono assorbiti; il motivo undicesimo è infondato.
13. Nulla deve essere liquidato per le spese, non avendo l’intimata svolto attività difensiva in questa sede.
14. Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2021
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