Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.32953 del 09/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2635-2015 proposto da:

N.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

nonché contro BE, Think, Solve, Execute S.P.A. (già B.E.E. TEAM S.p.A., già DATA SERVICE S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE FONTANA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8708/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/01/2014 318/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/07/2021 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO;

visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello di N.A. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva ritenuto infondate le domande proposte, dalla ricorrente e da altri litisconsorti, nei confronti del Ministero della Giustizia e di Data Service s.p.a. (poi divenuta BEE Team s.p.a. e successivamente BE, Think, Solve, Execute s.p.a.) volte ad ottenere: l’accertamento di un’interposizione illecita di manodopera ai sensi della L. n. 1369 del 1960 e, per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, di una somministrazione nulla, fraudolenta o irregolare; la dichiarazione di sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con il Ministero convenuto decorrente dalla data di prima assegnazione agli uffici giudiziari; la condanna dell’amministrazione all’inquadramento nel rispetto della disciplina prevista dal c.c.n.l. del comparto Ministeri, alla regolarizzazione contributiva e previdenziale, al pagamento delle differenze retributive maturate a far tempo dalla costituzione in via di fatto del rapporto. In via subordinata la ricorrente aveva domandato il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e l’accertamento del diritto a vedersi riservata una quota pari al 60% dei posti nelle assunzioni che in futuro il Ministero avesse effettuato. Era stato, inoltre, richiesto il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivati dalla mancata costituzione del rapporto di lavoro.

2. La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che gli appellanti avevano dedotto di avere lavorato solo formalmente alle dipendenze della società Data Service s.p.a., perché la prestazione lavorativa era stata resa nell’interesse del Ministero, nella cui organizzazione erano stati stabilmente inseriti. Avevano aggiunto di essere stati assegnati a funzioni non rientranti nell’attività oggetto dei contratti di fornitura e di avere ricevuto direttive, istruzioni e ordini di servizio esclusivamente dal personale del Ministero della Giustizia.

3. A fondamento del decisum il giudice d’appello ha rilevato che l’accesso ai pubblici impieghi può avvenire solo a seguito del superamento di un concorso e nel rispetto delle procedure previste dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35 e per questo il legislatore ha previsto una disciplina speciale che impedisce, in caso di violazione di norme imperative, la conversione del rapporto, disciplina che prevale su quella generale dettata dalla L. n. 1369 del 1960 e dal D.Lgs. n. 276 del 2003 anche nell’ipotesi in cui per l’accesso all’impiego sia sufficiente il rispetto della procedura semplificata prevista dalla L. n. 56 del 1987. Ha, poi, ritenuto infondate le domande risarcitorie per la genericità delle allegazioni ed ha rilevato che anche il danno patrimoniale, prospettato in relazione alle differenze retributive fra quanto spettante secondo il CCNL per il comparto Ministeri ed il trattamento economico corrisposto dalla società, era stato dedotto senza neppure indicare l’ammontare delle retribuzioni percepite.

Ne ha desunto anche l’infondatezza del motivo d’appello con il quale era stata censurata la mancata ammissione dei mezzi di prova, rilevando che nessuna conseguenza sarebbe potuta scaturire dall’accertamento sulle effettive modalità di svolgimento della prestazione.

4. Per la cassazione della sentenza N.A. ha proposto ricorso sulla base di nove motivi ai quali hanno opposto difese il Ministero della Giustizia e la s.p.a BE, Think, Solve, Execute.

La Procura Generale ha concluso del D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8 bi, convertito L. n. 176 del 2020, per l’accoglimento del quinto motivo di ricorso e per il rigetto delle ulteriori censure.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 1369 del 1960, della L. n. 196 del 1997, del D.Lgs. n. 276 del 2003, del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36 della L. n. 56 del 1987, dell’art. 97 Cost., degli artt. 112 e 113 c.p.c. e sostiene, in sintesi, che la conversione del rapporto non può essere esclusa nei casi in cui l’amministrazione non è tenuta ad assumere all’esito della procedura concorsuale, potendo, invece, ricorrere alla chiamata diretta. In detta ipotesi, infatti, non si realizza alcuna violazione dell’art. 97 Cost. e non può neppure operare l’esclusione prevista dal D.Lgs. n. 276 del 2003.

2. La seconda censura, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, addebita alla sentenza impugnata l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, perché la Corte territoriale non avrebbe considerato che non è richiesto il superamento del concorso pubblico per la costituzione del rapporto di impiego con dipendenti da inquadrare nell’area B.

3. La terza critica denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 4, error in procedendo per violazione degli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. sul rilievo che sarebbe insufficiente ed incongrua l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto quanto all’esclusione dell’applicabilità della regola generale della conversione del rapporto.

4. Con il quarto motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 4, la ricorrente eccepisce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c. e deduce che la Corte territoriale non ha pronunciato sulla domanda di pagamento delle retribuzioni dovute per le prestazioni di fatto svolte avendo esaminato la sola domanda di risarcimento del danno.

5. La quinta critica, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, addebita alla Corte territoriale la violazione e falsa applicazione degli artt. 2126 e 2697 c.c., nonché degli artt. 115,116,414,421,437 e 345 c.p.c.. Sostiene la N. che il giudice di merito avrebbe dovuto accertare le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa al fine di verificare se sussistessero gli indici rivelatori della subordinazione. Ciò perché il divieto di conversione non esclude l’applicabilità alle pubbliche amministrazioni dell’art. 2126 c.c. norma, questa, che riconosce il diritto a percepire il giusto trattamento retributivo anche nei casi in cui il rapporto di lavoro sia stato illegittimamente instaurato. La tutela invocata non poteva essere esclusa solo perché non erano state prodotte dalla ricorrente le tabelle retributive ed indicato l’ammontare delle retribuzioni ricevute dalla Data Service giacché allorquando il lavoratore chiede la retribuzione contrattuale grava sul datore l’onere di provare di aver adempiuto correttamente l’obbligazione. Aggiunge che, tra l’altro, era stata depositata copia della busta paga relativa al mese di aprile 2006 dalla quale potevano essere desunti tutti i dati necessari ai fini della quantificazione delle differenze.

6. Con il sesto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente si duole della violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, degli artt. 2727 e 2697 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione al capo della sentenza che ha rigettato la domanda di risarcimento del danno. La N. ribadisce che, per le ragioni già indicate nella quinta critica, nessuna prova doveva essere fornita, essendo sufficiente l’allegazione dell’avvenuto svolgimento di attività lavorativa subordinata.

7. La settima critica torna ad addebitare alla Corte territoriale l’omesso esame della busta paga che, secondo la ricorrente, integrerebbe il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

8. L’ottavo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c. perché il giudice d’appello avrebbe rigettato la domanda dei lavoratori con motivazione insufficiente ed incongrua.

9. Con la nona censura, rubricata “mancata ammissione dei mezzi istruttori – violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c. e all’art. 24 Cost. – omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia”, la ricorrente si duole della mancata ammissione dei mezzi istruttori articolati al fine di dimostrare “i presupposti oggettivi e soggettivi posti a base della domanda azionata” necessari per pronunciare quanto meno sulla richiesta di pagamento delle retribuzioni ex art. 2126 c.c. e di risarcimento del danno.

10. Infine la N. sollecita la Corte a promuovere l’incidente di costituzionalità in relazione alla L. n. 1369 del 1960, art. 1, alla L. n. 196 del 1997, art. 10, al D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36, al D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 1,29 e 86 e deduce che il divieto di conversione è privo di fondamento costituzionale quanto alle assunzioni che prescindono dal concorso pubblico, in relazione alle quali si realizza una ingiustificata disparità di trattamento con i dipendenti di datori di lavoro privati. Aggiunge che l’art. 1, comma 2, dell’art. 276/2003, se interpretato nel senso di escludere l’applicabilità dell’art. 29 alle pubbliche amministrazioni anche nei casi in cui le stesse rivestono la qualità di committenti, sarebbe in contrasto con la legge delega n. 30 del 2003, art. 6.

11. In continuità con l’orientamento già espresso da questa Corte in fattispecie sovrapponibili a quelle oggetto di cause (Cass. n. 21315/2020 e Cass. n. 25169/2019), deve essere accolto il solo quinto motivo di ricorso, con assorbimento del nono, mentre vanno respinte le ulteriori censure.

12. I primi tre motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione logica e giuridica.

Non si ravvisa la dedotta violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36 e delle ulteriori disposizioni di legge richiamate nella rubrica della prima censura, perché, come già affermato nelle pronunce indicate al punto 11, nonché da Cass. n. 1200/2019 e da Cass. n. 3472/2019, la L. n. 1369 del 1960, art. 1, comma 4, che estende allo Stato e agli enti pubblici la disciplina introdotta dalla stessa legge, deve essere coordinato con le altre norme che escludono la costituzione di un valido rapporto di impiego con le Pubbliche Amministrazioni, al di fuori delle specifiche procedure di reclutamento, e sanciscono la nullità delle assunzioni avvenute in violazione del principio costituzionale di cui all’art. 97, secondo il quale agli impieghi pubblici si accede mediante concorsi. Opera, dunque, il divieto oggi sancito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, (e, in precedenza, dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 36, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 22), nella parte in cui prevede che “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.

L’orientamento consolidato di questa Corte, che esclude la possibilità di costituzione di rapporti di impiego con le Pubbliche Amministrazioni, al di fuori delle procedure previste dalla legge, ha valorizzato i principi affermati, principalmente in tema di rapporti a tempo determinato affetti da nullità, dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 5072/2016), dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 89/2003) e dalla Corte di Giustizia (sentenza 7.9.2006 causa C53/04 Marrosu e Sardino) per escludere profili di illegittimità costituzionale e di contrarietà al diritto dell’Unione del divieto di conversione, principi che valgono anche per le altre forme di lavoro flessibile e che sono stati ribaditi dalla più recente giurisprudenza del Giudice delle leggi (Corte Cost. n. 248/2018), alla luce della quale si deve ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata nel ricorso.

12.1. Ne’ si può sostenere che il divieto di conversione sarebbe privo di copertura costituzionale nei casi in cui, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 1, lett. b), l’assunzione può legittimamente essere disposta, a prescindere dal previo esperimento di procedura concorsuale, mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento. L’argomento è già stato esaminato e disatteso da questa Corte, la quale ha evidenziato che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, seppure tradizionalmente ricondotto al principio sancito dall’art. 97 Cost., comma 4, si ricollega anche alla necessità di assicurare il buon andamento della Pubblica Amministrazione, che sarebbe pregiudicato qualora si consentisse l’immissione stabile nei ruoli a prescindere dall’effettivo fabbisogno del personale e dalla previa programmazione delle assunzioni, indispensabili per garantire efficienza ed economicità della gestione dell’ente pubblico. Si è pertanto affermato che la regula iuris dettata dal legislatore ordinario non ammette eccezioni e trova applicazione anche nell’ipotesi in cui per l’assunzione a tempo indeterminato non sia richiesto il concorso pubblico (Cass. n. 8671/2019 e Cass. n. 6097/2020), tanto più che il richiamato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, nello stabilire che le assunzioni di alcune categorie di pubblici dipendenti può avvenire mediante espletamento di procedure selettive, o mediante avviamento dei soggetti iscritti nelle liste di collocamento, rappresenta solo una semplificazione dello strumento tecnico (il pubblico concorso), ma non il superamento delle esigenze di trasparenza ed imparzialità insite nel concetto di concorsualità e imposte dall’art. 97 Cost. (Corte Costituzionale n. 159 del 2005).

12.2. Il motivo di ricorso è infondato anche nella parte in cui invoca, a fondamento della domandata conversione, il D.Lgs. n. 276 del 2003, atteso che, da un lato, l’art. 1 è chiaro nel prevedere, come principio di carattere generale, che “il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”, dall’altro l’art. 86, comma 9, pur consentendo, in via di eccezione, agli enti pubblici il ricorso alla somministrazione a tempo determinato, esclude espressamente l’applicazione dell’art. 27, comma 1, (al quale rinvia il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3 bis) ribadendo l’impossibilità della instaurazione di rapporti di impiego stabili con l’amministrazione pubblica.

Gli argomenti sviluppati nel ricorso e nella memoria ex art. 378 c.p.c. sono già stati disattesi da questa Corte, la quale, a partire da Cass. n. 15432/2014, seguita da Cass. n. 20327/2016, ha evidenziato che l’esegesi prospettata contrasta con il chiaro tenore letterale dell’art. 1 che, nell’affermare l’inapplicabilità della normativa dettata dal decreto, sia alle pubbliche amministrazioni che al loro personale, non fa altro che recepire e rendere più esplicita la indicazione data dal legislatore delegante, il quale aveva previsto con la L. n. 30 del 2003, art. 6 che “le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate”. Se si scorrono i principi dettati dagli articoli richiamati nella disposizione ci si avvede che solo alcuni di essi possono essere propriamente riferiti al “personale”, perché attinenti a rapporti di lavoro già instaurati, mentre per quelli relativi alle tipologie di lavoro flessibile, alla loro disciplina, agli obblighi posti a carico del datore di lavoro (effettivo o apparente) l’esclusione deve necessariamente essere riferita al soggetto non legittimato alla conclusione del contratto, che precede la instaurazione del rapporto di dipendenza o di collaborazione, o al contraente a carico del quale l’obbligo viene posto ed e’, quindi, improprio esprimere la stessa facendo riferimento al “personale”. Non sussiste, pertanto, alcun contrasto fra l’art. 1, comma 2, del decreto legislativo e la legge delega, perché il primo, in realtà, si limita ad esplicitare ciò che era già contenuto nella L. n. 30 del 2003, art. 6.

12.3. La Corte territoriale, nell’escludere la possibilità dell’invocata conversione, non si è discostata dai richiamati principi di diritto né si ravvisa la nullità dedotta con il terzo motivo perché, all’esito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità, quale violazione di legge costituzionalmente rilevante, attiene solo all’esistenza della motivazione in sé, prescinde dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. S.U. n. 8053/2014 che richiama Cass. S.U. n. 5888/1992).

Il difetto del requisito di cui all’art. 132 c.p.c. si configura, quindi, solo qualora la motivazione o manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero esista formalmente come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum.

Nessuna di dette ipotesi ricorre nella fattispecie perché la Corte territoriale ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della pronuncia di rigetto, richiamate nello storico di lite, ed i passaggi argomentativi, seppure non tutti condivisibili, risultano coerenti fra loro.

12.4. Parimenti non si ravvisa il vizio denunciato con il secondo motivo di ricorso, perché l’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’interpretazione datane dalle Sezioni Unite di questa Corte a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014, riguarda solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, decisivo ai fini del giudizio, sicché non può essere denunciata, ai sensi della disposizione richiamata nella rubrica del motivo, l’omessa considerazione delle modalità di accesso all’area B del comparto ministeri, sia perché si tratta di un argomento giuridico, non di mero fatto, sia in quanto lo stesso, in ogni caso, è privo di decisività per le ragioni indicate nei punti che precedono.

13. E’ infondata la quarta critica, giacché il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo allorquando risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto e non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (cfr. fra le tante Cass. n. 12652/2020 e Cass. n. 2151/2021). Il giudice del merito, infatti, non è tenuto ad esaminare espressamente e singolarmente ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, atteso che ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4 è necessario e sufficiente che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, con la conseguenza che si devono ritenere disattesi per implicito tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito.

Nel caso di specie, come già rilevato da Cass. n. 21315/2020, la Corte territoriale non ha omesso di statuire sul motivo di appello, sintetizzato a pag. 7 della pronuncia, con il quale era stata invocata l’applicazione dell’art. 2126 c.c., perché ha ritenuto che le domande patrimoniali volte ad ottenere la condanna del Ministero al pagamento delle differenze retributive non potessero essere accolte per essere mancate l’allegazione e la prova del perceptum. Detta affermazione, salvo quanto si dirà in prosieguo sulla sua correttezza o meno, è tale da comportare il rigetto di ogni pretesa, a prescindere dal titolo fatto valere, sicché non è ravvisabile l’eccepita violazione dell’art. 112 c.p.c..

14. E’ fondato, invece, il quinto motivo di ricorso, per le ragioni indicate dalle richiamate Cass. n. 25169/2019 e Cass. n. 21315/2020, alla cui motivazione si rinvia ex art. 118 c.p.c., con le quali si è osservato che l’azione ex art. 2126 c.c. ha natura retributivo-corrispettiva e non risarcitoria sicché, sulla base del principio generale enunciato in tema di adempimento delle obbligazioni da Cass. S.U. n. 13533/2001, il lavoratore è tenuto solo ad allegare e provare il fatto costitutivo dello svolgimento della prestazione lavorativa, mentre spetta al datore di lavoro provare di avere correttamente adempiuto l’obbligazione di pagamento.

Con le richiamate pronunce si è anche precisato che nei casi in cui l’originario ricorrente abbai domandato, in ragione dell’illegittima interposizione o somministrazione, una pronuncia di accertamento del rapporto di lavoro subordinato con l’amministrazione e la conseguente condanna del datore di lavoro pubblico al pagamento delle differenze retributive, non è nuova, ed è quindi proponibile anche in grado di appello, la domanda formulata ex art. 2126 c.c. perché quest’ultima è relativa ad un diritto che si fonda sui medesimi fatti storici, non introduce elementi nuovi nel contraddittorio fra le parti, né altera la causa petendi, ma solo “ne valorizza un unico aspetto minore (svolgersi di fatto della prestazione subordinata) che, in diritto, secondo il principio iura novit curia, va soltanto giudizialmente qualificato come tale da produrre l’effetto perseguito (differenze retributive)”.

Si è evidenziato, infine, che l’onere che grava sul datore di lavoro di provare il corretto adempimento dell’obbligazione retributiva non può essere escluso solo perché nell’ipotesi dell’interposizione fittizia o della somministrazione i pagamenti provengono da un terzo, atteso che, da un lato, il debitore, al fine di dimostrare l’ammontare del perceptum, può sempre richiedere un ordine di esibizione e, dall’altro, il giudice, in presenza di una pista probatoria costituita dall’incontestato pagamento ad opera del terzo di una parte della retribuzione, può ricorrere ai poteri officiosi ex art. 421 e 437 c.p.c., può disporre una consulenza tecnica o, infine, ricorrere alla prova presuntiva, in presenza dei presupposti di gravità, precisione e concordanza.

Ha, pertanto, errato la Corte territoriale nel ritenere che la domanda retributiva non potesse essere accolta solo perché gli appellanti non avevano indicato “quanto fosse stato da loro percepito durante il rapporto” e nell’aggiungere che non si poteva supplire alla carenza di allegazione attraverso “il sollecitato ricorso ad una consulenza d’ufficio contabile, che avrebbe in tale contesto natura meramente esplorativa e sostitutiva degli oneri di parte”.

14.1. Dalla ritenuta fondatezza del motivo discende che il giudice d’appello non poteva esimersi dal verificare, sia pure al solo fine di valutare la fondatezza della domanda ex art. 2126 c.c. (essendo preclusa dalla legge la conversione del rapporto), se, al di là della qualificazione formale, le modalità di svolgimento della prestazione fossero state tali da determinare l’instaurazione di un rapporto lavorativo di fatto fra la ricorrente ed il Ministero.

L’accoglimento della quinta censura comporta, pertanto, l’assorbimento della nona critica, con la quale si lamenta il mancato accoglimento delle istanze istruttorie perché, come già evidenziato da Cass. n. 21315/2020, l’esame delle istanze istruttorie, omesso dalla Corte d’Appello “per valutazioni sulla prova del quantum ritenute assorbenti ma erroneamente impostate in diritto, dovrà avere corso a cura del giudice del rinvio”.

15. Vanno, invece, rigettati il sesto, il settimo e l’ottavo motivo, che attengono tutti alla ritenuta infondatezza della domanda di risarcimento del danno.

Occorre ribadire che in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno subito dal lavoratore nell’ipotesi di contratto di lavoro nullo per violazione delle disposizioni che regolano le assunzioni alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, di cui sia chiesto il risarcimento ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, deve essere allegato e provato dallo stesso lavoratore, ma non coincide con le retribuzioni ed i correlati oneri contributivi e previdenziali, dal momento che tali voci sono comunque dovute, in virtù del principio di corrispettività di cui all’art. 2126 c.c., per le prestazioni eseguite durante lo svolgimento in via di fatto del rapporto di lavoro.” (Cass. n. 6046/2018).

Premesso, dunque, che il pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, subito per effetto dell’illegittimo ricorso alle forme di lavoro flessibile è altro rispetto alle differenze retributive spettanti ex art. 2126 c.c., l’orientamento secondo cui il danno deve essere allegato e provato dal soggetto che assume di averlo subito è stato ribadito anche dalle Sezioni Unite di questa Corte che, con la pronuncia n. 5076/2016, hanno enunciato il principio alla stregua del quale solo qualora venga in rilievo la necessità di conformare l’ordinamento interno con il diritto dell’Unione, e di prevedere una misura adeguata ed effettiva di prevenzione dell’abuso nella reiterazione del contratto a termine, si impone il ricorso ad un’agevolazione probatoria, finalizzata a garantire l’effettività delle tutele previste dalla direttiva Eurounitaria.

La successiva giurisprudenza di questa Corte ha, poi, esteso l’ambito di applicazione dell’agevolazione probatoria anche ai contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa, se di fatto subordinati e sottoposti a termine (Cass. n. 10951/2018), nonché ai contratti di somministrazione stipulati in successione (Cass. n. 3815/2021, Cass. n. 446/2021, Cass. n. 992/2019), ma sempre alla condizione che fosse stata realizzata una reiterazione abusiva e che l’illegittimità fosse stata allegata dal lavoratore anche sotto tale specifico profilo nel giudizio di merito.

Nel caso di specie non risulta, né dalla sentenza impugnata né dal ricorso, che il risarcimento del danno, lo si ribadisce diverso dalle differenze retributive richieste ex art. 2126 c.c., fosse stato domandato anche in ragione di un’asserita violazione della clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, sicché la questione, prospettata nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c., si deve ritenere nuova e, quindi, inammissibile, in assoluto perché la memoria ha l’unica funzione di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi già debitamente enunciati nel ricorso, non già di integrare quelli originariamente formulati (Cass. n. 3780/2015), ed inoltre perché l’asserita reiterazione abusiva del termine richiede accertamenti di fatto, con la conseguenza che la stessa non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione.

15.1. Ciò premesso va rilevato che i motivi formulati avverso il capo della sentenza che ha ritenuto non provata la domanda risarcitoria, oltre a confondere, quanto al regime probatorio, le due azioni, erroneamente asseriscono che il danno D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, si deve ritenere provato in re ipsa, perché al contrario, con le sole eccezioni alle quali sopra si è fatto cenno, il danno deve essere dimostrato da chi asserisce di averlo patito. Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che la domanda risarcitoria non potesse essere accolta, da un lato, per l’assoluta genericità delle allegazioni contenute nell’atto introduttivo, dall’altro perché nei rapporti con la Pubblica Amministrazione “il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.” (cfr. Cass. S.U. n. 5076/2016).

16. In via conclusiva merita accoglimento il solo quinto motivo di ricorso, con assorbimento della nona censura, mentre vanno rigettati sia i motivi formulati avverso il capo della sentenza che ha negato la richiesta costituzione di un rapporto a tempo indeterminato con il Ministero della Giustizia, sia quelli proposti avverso la pronuncia di rigetto della domanda di risarcimento del danno.

La sentenza impugnata va, dunque, cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che, sulla base dei principi enunciati ai punti 14 e 14.1. procederà ad un nuovo esame della sola domanda di adempimento ex art. 2126 c.c., e, quindi, alla previa verifica della ricorrenza di un rapporto lavorativo di fatto fra la ricorrente ed il Ministero, necessaria ad integrare Van della pretesa, erroneamente pretermessa, invertendo l’ordine logico delle questioni, sulla base di una motivazione non conforme al diritto quanto alla ripartizione degli oneri probatori in ordine al quantum della pretesa.

Al giudice del rinvio è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

Non sussistono le condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, ‘art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, con assorbimento del nono motivo, e rigetta i primi quattro motivi nonché il sesto, il settimo e l’ottavo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021

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