LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TORRICE Amelia – Presidente –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11857-2015 proposto da:
T.M.P., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DI PIETRA n. 26, presso lo studio dell’avvocato LOREDANA RONDELLI, rappresentata e difesa dall’avvocato EMILIO BAGIANTI;
– ricorrente principale e controricorrente incidentale –
contro
AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE VITERBO – A.S.L. Viterbo, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata ope legis in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato PATRIZIA BECECCO;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 6348/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/11/2014 R.G.N. 4790/2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/05/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.
RILEVATO
CHE:
1. la Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Viterbo che aveva respinto tutte le domande proposte da T.M.P. nei confronti della A.S.L. di Viterbo, ha dichiarato illegittimo il provvedimento di assegnazione dell’appellante al servizio di assistenza domiciliare ed ha ordinato all’Azienda di reintegrare la lavoratrice nelle mansioni precedentemente svolte, rigettando per il resto il ricorso, con il quale era stato domandato anche il risarcimento del danno, asseritamente derivato dalla condotta vessatoria subita e dal demansionamento;
2. la Corte territoriale, riassunti i fatti di causa ed esaminate le risultanze della prova documentale e testimoniale, ha ritenuto condivisibili, quanto al denunciato mobbing, le conclusioni alle quali era già pervenuto il giudice di prime cure ed ha rilevato che l’indiscutibile isolamento in cui l’appellante si era trovata ad operare in reparto non costituiva il frutto di iniziative persecutorie assunte dai colleghi e dal personale medico, perché si trattava piuttosto di reazioni all’atteggiamento “aggressivo, indisponente e persino inurbano della ricorrente nei loro confronti e nei confronti dei pazienti”, atteggiamento che la T. aveva sempre tenuto, tanto che le medesime situazioni di tensione si erano verificate presso gli altri reparti ai quali la stessa era stata assegnata in passato;
3. il giudice d’appello ha evidenziato che la conflittualità dei rapporti con la ricorrente, addebitabile all’atteggiamento di quest’ultima, aveva indotto gli altri infermieri operanti nel reparto di geriatria a rifiutare di prestare servizio negli stessi turni assegnati alla T. e questa indisponibilità, in un primo tempo manifestata solo a voce dalla maggioranza del personale, era stata ribadita dalla totalità degli addetti al reparto nella lettera del 1 agosto 2007, con la quale era stato sollecitato dai colleghi di lavoro il trasferimento della T. “ovvero in alternativa di tutti gli scriventi per incompatibilità ambientale”;
4. l’assegnazione dell’appellante al C.A.D. non era stata determinata da un intento vessatorio né aveva natura ritorsiva perché motivato dall’oggettivo clima di tensione creatosi nel reparto, tale da indurre anche i colleghi che non avevano mai lavorato in coppia con la ricorrente a rifiutare di farlo;
5. il giudice d’appello ha, invece, ritenuto provato il demansionamento ed ha rilevato che l’assistenza domiciliare non può essere ritenuta equivalente allo svolgimento delle mansioni all’interno di un reparto ospedaliero, che consente all’infermiere di arricchire la sua professionalità creando occasioni di continuo confronto con il personale medico e con gli altri colleghi;
6. la Corte territoriale ha aggiunto che nessun rilievo poteva spiegare ai fini di causa la previsione contenuta nel D.M. n. 739 del 1994, art. 1 ai sensi del quale l’infermiere svolge l’attività professionale nelle strutture sanitarie pubbliche e private e nell’assistenza domiciliare, perché, non trattandosi di classificazione del personale da parte di un contratto collettivo, ma di mera individuazione di un profilo professionale ad opera di un regolamento, non poteva operare il criterio dell’equivalenza formale delle mansioni;
7. infine il giudice d’appello ha ritenuto non fondata la domanda di risarcimento del danno perché l’appellante non aveva provato di avere subito un pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, a seguito del demansionamento;
8. infatti la T. aveva conservato il medesimo trattamento economico percepito prima del trasferimento e non aveva fornito elementi che consentissero di valutare la gravità della dequalificazione in quanto non aveva specificato “in che cosa siano di fatto consistite le mansioni svolte in qualità di addetta al CAD”, non aveva dedotto una perdita di chances di carriera, non aveva patito un danno alla salute, posto che la patologia dalla quale asseriva di essere affetta era stata diagnosticata già prima dell’assegnazione al servizio di assistenza domiciliare;
9. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso T.M.P. sulla base di due motivi, ai quali ha opposto difese la ASL di Viterbo che ha notificato controricorso con ricorso incidentale affidato ad un’unica censura e illustrato da memoria;
10. al ricorso incidentale la T. ha replicato con tempestivo controricorso.
CONSIDERATO
CHE:
1. con il primo motivo la ricorrente principale denuncia ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 violazione o falsa applicazione degli artt. 1175,1218,1375,2103,2087,2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti e addebita alla Corte territoriale di avere motivato la sentenza esclusivamente su alcuni fatti trascurandone altri e senza valutarli nel loro complesso, fornendone, di conseguenza, una ricostruzione parziale;
1.1. asserisce che il giudice d’appello, in violazione dell’art. 115 c.p.c., avrebbe omesso di valorizzare le circostanze decisive, non contestate dall’azienda, riportate alle pagine da 3 a 5 dell’atto di appello e, trascritte le deposizioni dei testi D., M., P., Ma., A. nonché la relazione psicologica redatta il *****, sostiene, in sintesi, che la Corte avrebbe trascurato fatti decisivi dai quali poteva essere desunta la prova degli atteggiamenti persecutori e vessatori subiti;
2. la seconda censura del ricorso principale, formulata sempre ai sensi dei nn. 3, 4 e 5 c.p.c., denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,2043,2059,2087,2126,2727,2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio in relazione al capo della sentenza impugnata che ha respinto la domanda di risarcimento del danno;
2.1. sostiene la ricorrente principale che la diminuzione della retribuzione mensile risultava per tabulas dal confronto fra le buste paga idonee a provare che dopo il trasferimento non erano state più corrisposte le indennità spettanti all’infermiere che, nel reparto ospedaliero, svolge l’attività in regime di turnazione (pronta disponibilità, indennità notturna, indennità festiva, lavoro straordinario);
2.2. aggiunge che il giudice d’appello, nel ritenere non dimostrato il danno non patrimoniale, ha finito per contraddire la parte della motivazione inerente la prova del demansionamento, fondato sulla perdita di arricchimento professionale e delle prospettive di carriera ossia su elementi che dovevano essere valorizzati a fini risarcitori;
2.3. infine si duole dell’errata valutazione della prova testimoniale, della non corretta lettura della documentazione medica, del mancato ricorso alla prova presuntiva;
3. il ricorso incidentale denuncia, con un unico motivo, la “violazione dell’art. 414 c.p.c., n. 4; nullità e comunque inammissibilità della domanda di accertamento del demansionamento; violazione dell’art. 112 c.p.c.; falsa applicazione dell’art. 2103 c.c.; violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52”;
3.1. l’Azienda rileva che nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado la T. non aveva fornito alcuna indicazione in merito al livello di inquadramento né aveva lamentato che le mansioni svolte nel servizio di assistenza domiciliare fossero proprie di una professionalità inferiore, dolendosi solo della mancanza di equivalenza;
3.2. addebita alla Corte territoriale di avere violato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 perché nell’impiego pubblico contrattualizzato rileva solo l’equivalenza in senso formale, ribadito anche dalla contrattazione collettiva applicabile al rapporto che intercorre con il personale non medico del servizio sanitario nazionale;
3.3. precisa che le mansioni esigibili da parte del datore di lavoro pubblico sono quelle del profilo dell’infermiere professionale che, sulla base delle previsioni contenute nel D.M. n. 739 del 1994, svolge i compiti analiticamente indicati nello stesso decreto sia nelle strutture sanitarie pubbliche o private, sia nell’assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero professionale;
4. il primo motivo del ricorso principale è inammissibile perché, attraverso l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, denunciato congiuntamente alla nullità della sentenza ed all’omesso esame di fatto decisivo, mira ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice del merito e si risolve in una critica del ragionamento decisorio seguito dalla Corte territoriale quanto agli accertamenti di fatto, sollecitandone la revisione, non consentita in sede di legittimità;
4.1. è ius receptum l’orientamento secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi e’, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017);
4.2. è stato altresì affermato che nella deduzione del vizio di violazione di legge o di disposizioni di contratto collettivo è onere del ricorrente indicare non solo le norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, svolgere specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. n. 17570/2020; Cass. n. 16700/2020);
4.3. il ricorso, pur denunciando nella rubrica del motivo la violazione di una pluralità di disposizioni del codice civile in tema di responsabilità da inadempimento e di risarcimento del danno, non indica le ragioni per le quali la Corte territoriale avrebbe errato nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme asseritamente violate e tutti gli argomenti sviluppati nel corpo del motivo si riferiscono, in realtà, alla valutazione della prova testimoniale e documentale che si legge nella sentenza impugnata, alla quale ne contrappone una difforme, sollecitando una revisione dell’accertamento di fatto che è riservato al giudice del merito;
4.4. già prima della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ad opera del D.L. n. 83 del 2012, era stato precisato che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (cfr. fra le tante Cass. n. 16467/2017; Cass. n. 11511/2014; Cass. n. 42/2009);
4.5. a maggior ragione, censure che siano volte a contestare la valutazione della prova non possono trovare ingresso in sede di legittimità all’esito della modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 perché l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018, Cass. S.U. n. 34476/2019);
4.6. né la valutazione del materiale istruttorio può essere messa in discussione nel giudizio di cassazione attraverso la denuncia di errata applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. perché la violazione delle richiamate disposizioni processuali può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 18092/2020; Cass. n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016);
4.7. è stato affermato al riguardo, ed il principio deve essere qui ribadito perché condiviso dal Collegio, che non si può trasformare in error in procedendo, per mezzo dell’invocazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica”, vizio non più denunciabile in sede di legittimità (Cass. n. 23940/2017) in quanto, all’esito delle modifiche apportate al codice di rito dal D.L. n. 83 del 2012, “il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. n. 11892/2016 e Cass. n. 23153/2018);
4.8. il motivo e’, quindi, inammissibile perché rispetto alla ricostruzione operata dalla Corte territoriale, che ha escluso la condotta vessatoria per le ragioni indicate nello storico di lite, nessuna delle circostanze asseritamente non valutate dal giudice del merito presenta la decisività richiesta dall’art. 360 c.p.c., n. 5;
5. logicamente preliminare all’esame del secondo motivo del ricorso principale è la valutazione delle censure formulate dalla ricorrente incidentale, la quale ha contestato in radice la fondatezza della domanda risarcitoria, rivendicando la legittimità del provvedimento con il quale lo ius variandi è stato esercitato dal datore di lavoro pubblico;
6. il ricorso incidentale è fondato nella parte in cui denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 l’errata applicazione dell’art. 2103 c.c., la violazione del CCNL per il personale del comparto sanità e del D.M. 14 settembre 1994, n. 739;
6.1. è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento, condiviso dal Collegio e qui ribadito, secondo cui per il rapporto di pubblico impiego contrattualizzato la disciplina delle mansioni è dettata, non dall’art. 2103 c.c., bensì dalla norma speciale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (Cass. S.U. n. 8074/2008) che, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, antecedente alla riformulazione operata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità acquisita e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (cfr. fra le tante Cass. nn. 16311, 976 e 450 del 2019; Cass. nn. 32592, 32151, 18817, 7304, 5696 del 2018);
6.2. si è precisato che tale nozione di equivalenza in senso formale comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria sono esigibili dal datore di lavoro, sicché, a fronte di un’equivalenza sul piano contrattuale, una dequalificazione è ipotizzabile solo qualora la nuova assegnazione comporti un sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa;
6.3. il CCNL 7.4.1999 per il personale non dirigenziale del comparto sanità, con il quale sono stati dettati i principi generali in tema di inquadramento, ha previsto all’art. 13 un sistema di classificazione articolato in quattro aree (A, B, C, D), “corrispondenti a livelli omogenei di competenze, conoscenze e capacità necessarie per l’espletamento delle relative attività lavorative”, aree nelle quali le parti collettive hanno inserito i profili che “descrivono il contenuto professionale delle attribuzione proprie”;
6.4. il richiamato art. 13 precisa, al comma 5, che “ogni dipendente è inquadrato nella corrispondente categoria del sistema di classificazione in base al profilo di appartenenza” ed il successivo art. 19 richiama, quanto ai profili delle professioni sanitarie, i decreti ministeriali adottati ai sensi del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 6, comma 3, che riserva al Ministro della Sanità la individuazione con decreto delle figure professionali e dei relativi profili in relazione al “personale sanitario infermieristico, tecnico e della riabilitazione”;
6.5. la declaratoria allegata al CCNL richiama espressamente per il profilo professionale di infermiere il D.M. n. 739 del 1994 sicché le previsioni dello stesso, quanto alle competenze ed alle attribuzioni del personale infermieristico, costituiscono parte integrante del sistema di classificazione;
6.6. ha errato, quindi, il giudice d’appello nell’affermare, a pag. 10 della motivazione, che del D.M. non si dovesse tenere conto ai fini del giudizio di equivalenza e che non potesse la ASL invocare il richiamato decreto, unitamente al principio di equivalenza formale, per trarne la legittimità del provvedimento di assegnazione ad un servizio diverso da quello ospedaliero;
6.7. al contrario l’accertamento sulla natura dequalificante o meno delle nuove mansioni andava condotto proprio alla luce del D.M. n. 739 del 1994 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte richiamata al punto 6.1.;
8. la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo, che procederà ad un nuovo esame da condurre nel rispetto dei principi sopra richiamati, dai quali discende che il demansionamento non può essere desunto dalle caratteristiche del servizio assegnato giacché, per il principio di equivalenza formale, assume rilievo solo la riconducibilità o meno delle mansioni svolte alle competenze del profilo professionale, come istituito dal menzionato decreto;
9. restano, di conseguenza, assorbiti il secondo motivo del ricorso principale e le ulteriori censure formulate dalla ricorrente incidentale;
10. alla Corte territoriale è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità;
11. non sussistono le condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato, perché il ricorso incidentale ha trovato accoglimento mentre il ricorso principale non è stato dichiarato inammissibile nella sua interezza, in quanto parzialmente assorbito dalla fondatezza dell’impugnazione incidentale;
11.1 la disposizione citata si applica ai soli casi tipici del rigetto dell’impugnazione o della sua declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità e, trattandosi di misura eccezionale, “lato sensu” sanzionatoria, è di stretta interpretazione e non suscettibile, pertanto, di interpretazione estensiva o analogica (Cass. n. 23175/2015).
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale, con assorbimento del secondo motivo del ricorso principale, e dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso ed al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, alla quale demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 27 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2021
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