Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.37348 del 29/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCI Roberto – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19016/2016 R.G. proposto da:

GRENKE FINANCE PLC rappresentata e difesa giusta delega in atti dall’avv. Carlo Romano e dall’avv. Flaminia Ferrucci con domicilio eletto in Roma, presso lo studio TLS associazione professionale di avvocati e commercialisti al Largo Angelo Fochetti n. 29;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara n. 86/06/16 depositata il 27/01/2016 non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 30/09/2021 dal Consigliere Dott. Succio Roberto;

Lette le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Vitiello Mauro che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

RILEVATO

che:

– con la sentenza di cui sopra il giudice di appello ha accolto l’appello dell’Ufficio e in riforma della pronuncia della CTP ha sancito la legittimità dell’atto impugnato, diniego di istanza di rimborso di iva del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 38bis relativa a operazioni perfezionatesi nel periodo d’imposta 2010;

– avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione la società contribuente con atto affidato a cinque motivi che illustra con memoria; detta ricorrente ha anche depositato istanza di fissazione sollecita dell’udienza di discussione; l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1197,1241,1252 c.c., art. 1325 c.c., n. 2, artt. 1362,1367,1470,1571,2744 del c.c. nonché del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, dell’art. 14 disp. prel. c.c. e dell’art. 135 della direttiva 2006/112/CE in relazione tutti all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere la sentenza impugnata violato le norme di diritto civile in materia di contratti, con conseguente illegittima qualificazione dell’operazione di una compravendita seguita da una retro locazione (c.d. sale and rent – back) come esente da iva, in quanto costituente operazione di finanziamento, con ciò negandosi a Grenke Finance plc la detrazione del tributo indiretto addebitatole da Grenke Locazione s.r.l. in sede di cessione dei beni compravenduti e ripresi poi in locazione in direzione inversa;

– il motivo è fondato;

– va dapprima premesso come ancora di recente questa Corte abbia ulteriormente ribadito, confermando propria giurisprudenza consolidata, che (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 27136 del 15/11/2017; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 9461 del 09/04/2021) l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico, così come di un contratto, si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito: il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto altresì a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti; non può quindi la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata;

– sotto questo profilo il motivo si colloca chiaramente nel solco dei principi in oggetto, che risultano quindi rispettati, poiché parte ricorrente non pretende puramente di sostituire a quella della sentenza impugnata la propria interpretazione del contratto ma censura l’applicazione al sistema del regolamento contrattuale operata dalla CTR, ritenendola non rispettosa delle disposizioni in materia di compensazione (art. 1241 c.c.) di compravendita (art. 1470 c.c.) e di locazione (art. 1571 c.c.) come tra di loro coordinate con il divieto del c.d. “patto commissorio” (art. 2744 c.c.);

– sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 30686 del 25/11/2019) fermo restando che l’interpretazione del contratto resta tipico accertamento devoluto al giudice del merito, qualora non sia dato rinvenire il criterio ermeneutico che ha indirizzato l’opera del predetto giudice, peraltro in presenza d’emergenze semantiche obiettivamente non corroboranti l’interpretazione proposta sussiste la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., senza che occorra ulteriormente onerare il ricorrente di ricercare, con specificità, la “ratio” decisoria avversata;

– il giudice, infatti, viene meno al dovere d’interpretazione secondo i canoni legali ove fornisca un’esegesi svincolata da regole conoscibili nel senso di verificabili attraverso il vaglio probatorio e non giustificata dal contenuto letterale dello strumento negoziale;

– la giurisprudenza è unanime nel ritenere che il sindacato di legittimità non possa allora investire il risultato interpretativo in sé (rientrando quest’ultimo nell’ambito dei giudizi di fatto) potendo viceversa detto sindacato solo attenersi alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito. In altre parole, in sede di legittimità non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati (cfr., ex plurimis, Cass. sentenze n. 7500/2007, n. 10554/2010 e n. 10891/2016);

– nel presente caso parte ricorrente non prospetta una diversa e propria interpretazione del contratto alla quale addivenire previa ricostruzione della volontà negoziale delle parti, opponendola a quella adottata dalla sentenza impugnata, ma puntualmente sottópone a critica il risultato dell’interpretazione adottata dalla CTR (e prima dall’Ufficio risultato vittorioso in appello) in quanto ne denuncia l’esser stata essa resa in violazione dei canoni ex lege previsti;

– pertanto deve qui la Corte valutare se quanto statuito dalla CTR derivi o meno da una ermeneusi del regolamento contrattuale atto a disciplinare il rapporto tra Grenke Locazione s.r.l. e Grenke Finance PLC che risulta in concreto, quanto agli effetti che ne discendono, distante alla valutazione e dalla interpretazione del rapporto contrattuale in atti poiché – in particolare questo è il punto – omette di esaminare secondo i canoni ad essa propri, come previsti dagli art. 1362 e s.s. c.c. il contenuto del contratto in essere tra le parti, fermo restando poi che in forza della L. n. 212 del 2000, art. 10, le violazioni di carattere esclusivamente tributario non possono ripercuotersi sulla validità del rapporto contrattuale;

– come è noto, l’intenzione comune delle parti (quando esiste, potendo darsi che le intenzioni dell’una parte non siano quelle dell’altra) prevale in linea di massima su ogni valore oggettivo della dichiarazione contrattuale; pertanto, per l’accertamento del contenuto di essa vale il principio di atipicità dei mezzi ermeneutici secondo il quale tutto ciò che può servire ad accertare la comune volontà delle parti può esser utilizzato;

– orbene, il rapporto giuridico di natura patrimoniale dedotto nel contratto (e conseguentemente il regime iva dell’operazione d’esordio che lo costituisce, che la contribuente ritiene “cessione di beni” imponibile – e che l’Ufficio prima e la CTR poi ritengono invece operazione di mero finanziamento – esente) si colloca in un contesto di riorganizzazione societaria a seguito della quale l’odierna ricorrente Grenke Finance PLC (di seguito anche “GF”) stipulava con Grenke Locazione s.r.l. (di seguito anche “GL”) un contratto per l’acquisto di cespiti con successiva locazione, in base al quale GL vendeva a GF “i beni oggetto di contratti di locazione in essere” con locatari nazionali; detti beni, successivamente alla cessione, venivano locati a GL;

– secondo la prospettazione della società contribuente, detta operazione è da considerarsi operazione imponibile del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 2, pertanto da sottoporre ad IVA con esposizione del tributo nella fattura allo scopo emessa; dopo essere stata correttamente esposta VIVA in fattura da parte di GL (cedente dei beni) e una volta puntualmente pagata a quest’ultima da GF (cessionaria dei beni), detta IVA veniva richiesta a rimborso da GF dopo che GL l’aveva regolarmente versata all’Erario;

– è incontroverso sia che GF sia soggetto non residente in Italia del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 38-bis/2; sia che GL sia soggetto ivi residente; risulta parimenti incontestato che tal trasferimento dei beni da GL a GF sia stato regolarmente annotato nelle scritture contabili, esposto in fattura come si è detto e che la relativa IVA sia stata normalmente incassata da GL e altrettanto regolarmente versata all’Erario;

– come è noto, nel sistema iva la fattispecie di rimborso in oggetto è sostitutiva della detrazione che permette quindi al soggetto passivo di uno Stato, in luogo di una detrazione non possibile per spese che tuttavia sono effettuate all’interno dell’Unione Europea, un diritto al rimborso da far valere nei confronti dello Stato di residenza o domicilio dei fornitori dei beni o dei servizi, vale a dire nei confronti dello Stato che beneficia dell’IVA dovuta addebitata in sede di rivalsa al soggetto estero;

– secondo l’Ufficio – la cui prospettazione è stata accolta dalla CTR – il rapporto commerciale di compravendita e successiva locazione posto in essere tra GF e GL doveva essere invece riqualificato come contratto di mutuo o comunque come operazione di finanziamento con conseguente regime di esenzione IVA di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10m e rigetto della richiesta di rimborso. Nel dettaglio, secondo la pronuncia qui impugnata, “le operazioni poste in essere da Grenke Finance PLC sono di natura finanziaria e quindi esenti da IVA (non rimborsabili per carenza dei requisiti della detraibilità). Trattasi di finanziamento tramite mutuo esente IVA quindi Grenke Locazione srl ha erroneamente addebitato l’IVA a Grenke Finance PLC del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 10, trattandosi di operazioni esenti”;

– osserva dapprima la Corte come la CTR nel riqualificare l’operazione per cui è causa abbia fatto corretta applicazione della giurisprudenza di Legittimità secondo la quale (in ultimo Cass. n. 33593/2019) in materia tributaria, i concetti di evasione ed elusione (o abuso) pur accomunati dalla richiesta di un tributo maggiore rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, non sono sovrapponibili: mentre il primo si riferisce alla pretesa impositiva su fatti realmente posti in essere, in alcuni casi anche di rilievo penale, ma occultati al Fisco (ad esempio l’uso o l’emissione di documenti contabili falsi), il secondo riguarda la pretesa impositiva su fatti non realmente posti in essere (e dunque non dichiarati), ma che, secondo il Fisco, si sarebbero dovuti compiere, stante la finalità e l’effetto perseguiti di ottenere, attraverso l’uso distorto degli strumenti giuridici, risparmi di imposta non dovuti perché incoerenti con lo spirito della legge e i principi del sistema fiscale, in ciò consistendo l’equivalenza dell’elusione fiscale con l’abuso;

– tanto va rilevato poiché in tema di IVA l’abuso del diritto si configura, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia Europea, in presenza delle condizioni dell’acquisizione di un “vantaggio fiscale” contrastante con l’obiettivo perseguito dalla Direttiva Iva e dalla legislazione nazionale, benché formalmente applicate, e dello “scopo essenziale” (con locuzione assai simile anche sotto il profilo terminologico a quella dello Statuto dei diritti del contribuente, L. n. 212 del 2000, art. 10bis che utilizza sul punto l’avverbio “essenzialmente”) perseguito in tale direzione attraverso l’operazione negoziale controversa, da ricercarsi nella causa concreta della stessa sottesa al “meccanismo giuridico contorto”. Più specificatamente, è ammissibile la riqualificazione dell’operazione controversa, nonostante il rispetto delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la recepisce, ove essa abbia il risultato di procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sia contraria all’obiettivo perseguito da queste disposizioni e, dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione controversa è il conseguimento di un vantaggio fiscale (cfr. CGUE, 21 febbraio 2006, causa C-255102, Halifax pie, punto 7475; id. CGUE, 17 luglio 2014, causa C-272/13, Equoland soc. coop. a r.l., punto 39);

– dalla descrizione della fattispecie qui esaminata, la CTR risulta aver operato (ben diversamente) come ordinario interprete della legge d’imposta, al di fuori di un caso di vero “abuso”: essi si è limitata a riqualificare una tipologia di negozio le cui clausole sono risultate, secondo l’interpretazione ex art. 1362 e s.s. c.c., giuridicamente incompatibili con il nomen iuris utilizzato. Il giudice dell’appello, confermando la tesi dell’Agenzia delle Entrate, ha quindi in concreto adeguata in termini estensivi l’applicazione del contenuto letterale della legge tributaria (anche) alla realtà negoziale in atti, al solo fine di garantirne la “intrinseca coerenza” con la ratio legis, assegnando al contratto interpretato gli effetti giuridici che gli sono propri. Il vantaggio tributario qui contestato, allora, viene disconosciuto rilevando la violazione di specifiche disposizioni tributarie, contestando quindi ciò che – diversamente dalle operazioni c.d. abusive – è rimesso all’ordinaria rimediabilità interpretativa. Tali fenomeni danno luogo tout court alla violazione diretta delle norme tributarie che consegue dall’applicare, operando il contribuente una forzatura interpretativa che l’interpretazione riqualificatoria dell’Ufficio vuole correggere sostituendovisi, a quel contratto la disciplina di un diverso contratto;

– alla luce di ciò le considerazioni svolte in sentenza dal giudice dell’appello in ordine all’abuso del diritto (e oggetto di critica da parte del ricorrente come di difesa da parte della controricorrente) sono in effetti fuori luogo rispetto al thema decidendum e risultano pertanto del tutto inconferenti, come correttamente rilevato da parte ricorrente;

– ciò chiarito, la questione in diritto che si introduce con motivo di ricorso riguarda essenzialmente la corretta interpretazione del contratto in vigore tra GL e GF;

– esso consta in una vendita con patto di riaffitto (nella prassi negoziale anglofona denominata “sale and rent back”), socialmente tipizzata da tempo ma divenuta strumento giuridico di recente regolato dalla legge (D.L. n. 269 del 2003, art. 29, convertito in L. n. 326 del 2003), quando in tal caso preordinata alla cessione di immobili adibiti ad uso governativo che solo apparentemente cessano da tale uso per effetto della alienazione poiché la loro destinazione viene contestualmente ripristinata tramutandosi in tal modo il titolo della detenzione da appartenenza dominicale a locazione di lunga durata;

– proprio per la sua spiccata vocazione di (auto) finanziamento si è lungamente ritenuto, nel quadro di una valutazione unitaria della fattispecie, che il prezzo corrisposto dal lessor (acquirente del bene da concedere in locazione, qui GF) altro potrebbe non essere che la dazione di una somma mutuata da restituire mediante versamenti rateali (i canoni) e che la proprietà formale in capo al primo fosse in realtà una garanzia reale atipica destinata a svuotare l’effetto traslativo, suscettibile di consolidamento nel caso di mancato esercizio dell’opzione di riacquisto e/o di inadempimento del lessee (l’utilizzatore già proprietario, qui GL).

– il c.d. sale and rent back si distingue per il difetto di continuità del rapporto: vi figura la corresponsione periodica di una somma, paragonabile a un canone mensile, anziché il versamento una tantum. Se gli altri modelli garantiscono al lessee la permanenza nell’immobile Per il resto della propria vita, qui il lessor ne acquista la proprietà per un valore – di solito – decisamente inferiore a quello di mercato, consentendo al cedente di continuare a disporne a fronte del pagamento di un corrispettivo allineato ai prezzi correnti, ma spesso con una previsione di durata contenuta; non e’, quindi, protetta l’aspettativa alla permanenza protratta e duratura nell’immobile.

– profilo essenziale che differenzia il sale and lease back dal sale and rent back è anche l’assenza della clausola di riscatto, che impedisce all’originario proprietario del bene di porre nel nulla gli effetti della prima cessione, impedendo che abbia luogo il c.d. retro – leasing vale a dire il ritorno del bene all’originario proprietaria sia pur concedendogli in concreto di non subire alcuna immediata soluzione di continuità del proprio potere di disposizione del bene. L’operazione, quindi, non è puramente sovrapponibile a quella di sale and lease back, oggetto di recenti plurime pronunce di questa Corte (Cass. n. 17713/2021; Cass. 11023/2021; in tema vedasi poi anche Cass. n. 17710/2021);

– secondo tal appena citato orientamento, che il Collegio condivide, la nozione di “cessione di bene” quale presupposto impositivo, in forza della interpretazione conforme del diritto interno a quello sovranazionale come interpretato dalla Corte di giustizia, si riferisce non al trasferimento di proprietà nelle forme previste dal diritto interno bensì a qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale con la quale una parte autorizzi l’altra a disporne di fatto come se ne fosse il proprietario. Naturalmente, rimane in capo al giudice di merito determinare, caso per caso e in relazione alla singola fattispecie, se una data operazione comporti il trasferimento del detto potere. Ne discende che la vendita sale and lease back, unitaria e complessa operazione fondata sulla causa concreta finanziaria, impedisce di assimilare, ai fini IVA, la somma corrisposta dall’acquirente-concedente al corrispettivo dovuto al venditore in forza del tipico contratto di vendita e, allo stesso tempo, l’ininterrotta disponibilità del bene in capo all’alienante-utilizzatore, impedisce di assimilare l’operazione ad una “cessione di bene”, in ragione dell’assenza di autorizzazione in capo all’acquirente-concedente di disporre del bene come se ne fosse proprietario;

– ebbene, a fronte di una situazione complessa come quella che qui si pone, e a principi giurisprudenziali articolati sul punto, il giudice dell’appello non ha preso minimamente in esame né la durata del rapporto di rent successivo all’operazione di sale alla luce della pacifica mancanza di una clausola di riscatto, né l’ammontare dei canoni pattuiti a fronte della ripresa in locazione dei beni, né il valore di mercato dei beni oggetto del contratto durante lo stesso e alla conclusione della locazione;

– in tal modo, la CTR non ha né logicamente né cronologicamente rispettato quelle regole ben precise dettate dagli artt. 1362 e s.s. c.c. nel disattendere le quali il giudice si rende autore di violazione di norme di diritto, di guisa che primo ed assorbente criterio di interpretazione di qualsivoglia vicenda negoziale a struttura bilaterale deve ritenersi quello della ricostruzione delle volontà delle parti sì come emergente dal tenore letterale della scrittura, fermo restando che le stesse potrebbero indicare riassuntivamente il voluto con una qualificazione che vale come indice della volontà pattizia se non contraddetta da diverse e più specifiche clausole. In particolare, i criteri ermeneutici soggettivi, previsti dalle norme cosiddette strettamente interpretative dagli artt. 1362-1365 c.c. devono trovare preliminarmente applicazione rispetto ai criteri ermeneutici oggettivi, previsti nelle norme cosiddette interpretative integrative degli artt. 1366-1371 c.c. e ne escludono la concreta operatività quando la loro applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti (Cass. n. 21885 del 2004). Le regole legali di interpretazione contrattuale sono articolate quindi secondo una scala gerarchica (cfr. altresì Cass., 13 dicembre 2006, n. 26690; Cass., 11 agosto 1999, n. 8584): uno dei risultati applicativi più importanti di tale distinzione sistematica e teoretica è costituito dal fatto che la violazione da parte del giudice del principio gerarchico dà luogo ad una vera e propria violazione di diritto e come tale deducibile nel ricorso per cassazione. Peraltro, gli elementi testuali sopra indicati (pur non esaminati, come visto, dalla CTR) non possono essere ritenuti di per sé decisivi ai fini della ricostruzione del contenuto dell’accordo, giacché l’interprete non può “limitarsi al senso letterale delle parole”, ma deve indagare, come recita l’art. 1362 c.c., quale sia la “comune intenzione” dei contraenti. La necessità della ricerca della volontà delle parti è allora essenziale sia per compiere la sussunzione del negozio in quel tipo, anziché in un tipo diverso, sia per assegnare un contenuto concreto allo schema di vincoli nascenti dal negozio. Il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo che non si arresti alla ricognizione del tenore letterale delle parole, pure da operarsi, occorrendo però anche una successiva valutazione composita in cui operino sinergicamente la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo), tutti legati da un rapporto di necessità ai fini dell’esperimento del procedimento interpretativo della norma contrattuale (cfr. Cass.7 n. 12912 del 2015; Cass. n. 12360 del 2014; Cass. n. 5287 del 2007);

– resta, tuttavia, fermo che il canone fondato sul significato letterale delle parole costituisce, come è stato efficacemente affermato (cfr. Cass. 12912 del 2015 cit.), la “porta di ingresso” della cognizione della quaestio voluntatis, risultando prioritario, e qui la CTR non ha acceduto al percorso interpretativo da tal via di passaggio, come avrebbe dovuto. In ogni caso, poi, la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico. D’altro canto, l’adozione dei criteri integrativi di cui agli artt. 1365-1371 c.c. non può portare alla dilatazione del contenuto negoziale mediante l’individuazione di diritti ed obblighi diversi da quelli espressamente contemplati nel contratto o mediante l’eterointegrazione dell’assetto negoziale esplicitamente previsto dai contraenti, neppure se tale adeguamento si presenti, in astratto, idoneo a ben contemperare il loro interesse (cfr. ex plurimis tra le altre: Cass. n. 23447 del 2014; Cass. n. 925 del 2012; Cass. n. 17324 del 2012);

– secondariamente, per costante giurisprudenza di legittimità (cfr., fra le più recenti, Cass., n. 24392 del 2020, n. 20683 del 2020, n. 13595 del 2020) a cui si intende dare continuità facendone applicazione nella fattispecie, nell’interpretazione del contratto il carattere prioritario dell’elemento letterale non deve essere inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c.., alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici, anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti. Pertanto, assume valore rilevante anche il criteriologico-sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti. Dunque. la comune volontà delle deve essere ricostruita sulla base di due elementi principali, ovvero il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale, e tra questi criteri interpretativi non esiste un preciso ordine di priorità, essendo essi destinati ad integrarsi a vicenda ed ancora che il criterio letterale e quello del comportamento delle parti, anche successivo al contratto medesimo ex art. 1362 c.c. concorrono, in via paritaria, a definire la comune volontà dei contraenti;

– applicando detti principi alla fattispecie che ci occupa, dapprima andava allora esaminata e tenuta in conto l’assenza della clausola di riscatto, quindi la concreta durata del rapporto di retro – locazione (c.d. rent – back) e l’ammontare dei canoni di locazione a fronte del prezzo di trasferimento del bene anche in relazione al residuo valore del medesimo esaurito il periodo di locazione; quindi la CTR avrebbe dovuto porre in relazione tutto ciò sia con l’interesse delle parti a finanziare GL, rendendole disponibile la liquidità derivante dall’operazione nel suo complesso ai fini di ridurre l’indebitamento e migliorarne la posizione finanziaria, sia con la ratio complessiva dell’operazione pure nelle sue conseguenze per la controllante GF e per il gruppo al quale esse appartengono;

– in tal modo, sarà individuata correttamente la causa del contratto, al di là dei motivi delle parti sui quali la CTR erroneamente ha concentrato la propria attenzione; invero, l’attività del giudice del merito si articola in due fasi, come qui in parte accennato in esordio. La prima è diretta ad interpretare proprio la volontà delle parti, ossia a individuare gli effetti da esse avuti di mira, che consiste in un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo della motivazione. La seconda è volta però a qualificare il negozio mediante l’attribuzione di un nomen iuris, riconducendo quell’accordo negoziale ad un tipo legale o assumendo che sia atipico; detta fase è sindacabile in cassazione per violazione di legge (Cass. Sez. 6 – 3, n. 3590 del 11/02/2021, Cass. Sez. L, n. 3115 del 09/02/2021);

– tale seconda fase di qualificazione deve procedere secondo il modello della sussunzione, cioè del confronto tra la fattispecie contrattuale concreta e tipo astrattamente definito dalla norma, per verificare se la prima corrisponde al secondo. In questo momento ha luogo l’applicazione di norme giuridiche ed il giudice non è vincolato dal nomen juris adoperato dalle parti, potendo correggere la loro qualificazione quando riscontri che la stessa non corrisponde alla sostanza del contratto da esse voluto e come ricostruito con l’interpretazione. Rispetto alla seconda fase, trattandosi dell’applicazione di norme di diritto, la stessa, in caso di violazione di queste ultime, è – come si è già illustrato – sindacabile in sede di legittimità (vedasi Cass. 10 febbraio 2003, n. 1928);

– l’interpretazione del regolamento contrattuale operata dalla CTR, alla luce delle sopra esposte considerazioni, risulta allora eccentrica rispetto ai canoni di cui all’art. 1362 e s.s. c.c., come interpretati e applicati dalla giurisprudenza di Legittimità sopra riportata: essa non ha esaminato, violando quindi le regole dell’interpretazione contrattuale, né la durata della retro-locazione, per verificarne la sovrapponibilità o meno, in forza di legittima operazione di interpretazione estensiva che è ammessa, a una retro-vendita, specificamente alla luce della mancata previsione di una clausola di riscatto, né l’ammontare dei canoni in relazione del prezzo di trasferimento del bene in rapporto al suo valore residuo, per verificare la natura degli stessi, stabilendo se costituissero in concreto, ad esempio, prezzo del bene retroceduto oppure interesse dell’operazione finanziaria sottesa;

– inoltre, detta interpretazione si è erroneamente compressa nel ristretto perimetro delle singole pattuizioni parcellarmente esaminate, finendo per attribuire rilevanza ai fini della riqualificazione del contratto come finanziamento, anziché come compravendita e ripresa in locazione dei beni, ai soli motivi delle parti e non alla causa in concreto da queste perseguita anche nell’ottica e nell’interesse del gruppo societario al quale le società coinvolte appartengono;

– quanto ai sopra citati profili, dunque, il giudice del rinvio dovrà procedere a nuovo esame, nel rispetto delle disposizioni codicistiche relative all’interpretazione del contratto; da tal interpretazione deriverà allora la qualificazione corretta del rapporto contrattuale e ne discenderanno le conseguenti ricadute in termini di identificazione nel trasferimento dei beni da GL a GF come “cessione di beni” rilevante a fini iva o come mera operazione di finanziamento come tale esente dal tributo in parola;

– nel primo caso allora, risultando l’operazione in parola cessione di beni, l’iva versata dalla ricorrente dovrà esser rimborsata in accoglimento del ricorso originario;

– viceversa, nél secondo caso, sarà GL a doversi vedere restituita l’IVA debitamente versata all’erario previa corresponsione della stessa ad opera di parte ricorrente; IVA per la quale risulta peraltro formulata a suo tempo apposita prudenziale istanza di rimborso autonoma e non rilevante ovviamente in questo giudizio;

– in accoglimento quindi del primo motivo di ricorso, la sentenza è cassata con rinvio alla CTR per nuovo esame; all’esito della decisione su tal motivo, i restanti motivi sono assorbiti nella decisione che precede.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti i restanti motivi; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale degli Abruzzi in diversa composizione che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio di Legittimità.

Così deciso in Roma, il 30 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2021

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