LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro Consiglie – –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 23237/2017 R.G. proposto da:
AGENZIA LUCANA di SVILUPPO ed INNOVAZIONE in AGRICOLTURA (A.L.S.I.A.), – p.i.v.a. ***** – in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Potenza, alla via A. Serrao, n. 4, presso lo studio dell’avvocato Dorilena Riso che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
F.D.A., – c.f. ***** – rappresentato e difeso in virtù di procura speciale su foglio allegato in calce al controricorso dall’avvocato Donatello Genovese ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via Laura Mantegazza, n. 24, presso il dottor Marco Gardin;
– controricorrente –
e C.M.;
– intimato –
e D.G.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 341 – 16/28.6.2017 della Corte d’Appello di Potenza;
udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 28 settembre 2021 dal consigliere Dott. Luigi Abete;
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per la rimessione alle sezioni unite, in subordine per la declaratoria di inammissibilità ovvero per il rigetto del ricorso, udito l’avvocato Loredana Tulino, per delega dell’avvocato Dorilena Riso, per la ricorrente.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 124/2007 il Tribunale di Potenza, in accoglimento della domanda proposta dall’avvocato F.D.A. nei confronti dell'”Agenzia Lucana di Sviluppo ed Innovazione in Agricoltura” (A.L.S.I.A.) così, tra l’altro, statuiva (cfr. ricorso, pag. 1):
dichiarava la nullità, per difetto di forma scritta ad substantiam, del contratto d’opera professionale intercorso tra l’attore e la convenuta;
accoglieva la domanda ex art. 2041 c.c., e condannava la convenuta a corrispondere all’attore la somma di Euro 90.000,00, “già decurtata dell’acconto ricevuto”, oltre interessi e rivalutazione, per l’attività dall’avvocato F. svolta ai fini della cancellazione dell’ipoteca iscritta dal “Mediocredito Sud” s.p.a. sugli immobili di proprietà dell'”E.S.A.B.”, poi confluito nell'”A.L.S.I.A.”, attività consistita nella redazione di un parere e di un atto di citazione non notificato, nella redazione di un ricorso per la nomina di un c.t.u. per la stima dei beni e nella redazione di un atto di transazione;
rigettava la domanda proposta dall’attore nei confronti dei terzi chiamati, C.M. e D.G.A., rispettivamente, direttore ed amministratore unico dell'”A.L.S.I.A.”, a motivo dell’inapplicabilità dell’ordinamento finanziario e contabile all’agenzia convenuta in quanto ente strumentale della Regione Basilicata.
2. Proponeva appello l'”A.L.S.I.A.”.
Resisteva F.D.A.; esperiva incidentale.
Resistevano C.M. e D.G.A..
3. Con sentenza n. 341 – 16/28.6.2017 la Corte d’Appello di Potenza così, tra l’altro, statuiva:
in parziale accoglimento dell’appello incidentale, accoglieva la domanda, dell’iniziale attore, di adempimento contrattuale limitatamente all’attività giudiziale e, per l’effetto, condannava l'”A.L.S.I.A.” a pagare la somma di Euro 11.716,55, oltre accessori ed interessi legali dalla domanda al soddisfo;
accoglieva la domanda, dell’iniziale attore, di arricchimento senza giusta causa limitatamente all’attività stragiudiziale e, per l’effetto, condannava l'”A.L.S.I.A.” a pagare la somma di Euro 114.588,81 (comprensiva di rivalutazione ed interessi come in motivazione), oltre interessi legali sulla somma di Euro 88.177,26 dalla sentenza al soddisfo;
condannava l'”A.L.S.I.A.” a pagare all’avvocato F.D.A. le spese del “doppio grado”.
Evidenziava la corte, con riferimento al motivo del gravame incidentale con il quale era stato censurato il primo dictum nella parte in cui era stata affermata la nullità dell’incarico per difetto della forma necessaria, che il requisito della forma scritta ad substantiam del contratto di patrocino doveva, nella specie, reputarsi sussistente limitatamente all’attività giudiziale, insussistente limitatamente all’attività stragiudiziale.
Evidenziava la corte, con riferimento al secondo motivo del gravame principale, con il quale l'”A.L.S.I.A.” aveva censurato il primo dictum nella parte in cui era stata affermata la sussistenza dell’utilitas, che la relativa deduzione si traduceva in una nuova eccezione, inammissibile in appello.
Evidenziava la corte, del pari con riferimento al secondo motivo del gravame principale, con il quale l'”A.L.S.I.A.” aveva censurato il primo dictum pur nella parte in cui era stata affermata la sussistenza del riconoscimento dell’utilitas, che il motivo di gravame non aggrediva la “ratio” della prima pronuncia.
Evidenziava la corte che il compenso per l’attività giudiziale, traente titolo da valido contratto di patrocinio, era da determinare alla stregua delle tariffe di cui al D.M. n. 585 del 1994, con riferimento all’importo di Euro 10.329.137,00 quale valore della controversia e con applicazione dei valori tariffari “medi”.
Evidenziava la corte che l’indennizzo ex art. 2041 c.c., per l’attività stragiudiziale era da determinare, analogamente, alla stregua delle tariffe di cui al D.M. n. 585 del 1994, da applicare quale parametro di riferimento.
Evidenziava, in particolare, che il compenso dovuto per l’attività di assistenza alla fase peritale e di redazione dei relativi atti era da liquidare nel solco del D.M. n. 585 del 1994, art. 2, comma 2.
Evidenziava, in particolare, che il compenso dovuto per l’attività di assistenza alla transazione e di redazione dell’atto di transazione era da liquidare nel solco dell’art. 10 del D.M. cit., ossia con riferimento alla voce relativa al compenso per l’arbitro unico, tenuto conto del valore della controversia.
4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'”A.L.S.I.A.”; ne ha chiesto sulla scorta di sette motivi la cassazione con ogni susseguente pronuncia anche in ordine alle spese.
F.D.A. ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.
5. Il controricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. Con il primo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 1418 c.c.; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame della normativa di evidenza pubblica.
Deduce che, ai fini della valida stipula del contratto di patrocinio tra ente pubblico e professionista, non è sufficiente la delibera dell’ente, siccome, da un lato, la delibera costituisce un atto interno comunque suscettibile di revoca, siccome, dall’altro, la delibera ha da essere accompagnata dall’attestazione della necessaria copertura finanziaria, che dà conto dell’entità delle obbligazioni da adempiere.
Deduce d’altra parte, con riferimento all’attività stragiudiziale, che l’azione ex art. 2041 c.c., non può essere esperita onde “eludere le regole dell’evidenza pubblica” (così ricorso, pag. 6).
7. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2042 c.c..
Deduce che l’azione ex art. 2041 c.c., in dipendenza del carattere della sussidiarietà che la connota, non è esperibile qualora il depauperato possa rivolgere la sua pretesa nei confronti di persone diverse dall’arricchito.
Deduce segnatamente che, in virtù dell’art. 28 Cost., e degli artt. 22 e 23 del T.U. n. 3/1957, l’avvocato F. ben avrebbe dovuto “spiegare preventivamente azione nei confronti di tutti i responsabili del danno ingiusto subito” (così ricorso, pag. 9).
Deduce che l’avvocato F. comunque non ha dimostrato né che ha reso una prestazione vantaggiosa per l’ente né che l’ente ha valutato l’utilità del servizio ai fini del perseguimento dell’interesse pubblico.
8. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c.
Deduce che ha errato la corte d’appello, allorché ha reputato tardiva l’eccezione, da essa ricorrente sollevata, secondo cui l’attività professionale non aveva apportato alcun arricchimento all’interesse pubblico perseguito; che trattasi invero di circostanza costituente presupposto dell’azione, ricadente nell’onere probatorio del depauperato.
Deduce ulteriormente che ha errato la corte di merito, allorché ha reputato sussistente l’utilitas della prestazione resa dall’avvocato F. alla stregua delle delibere con cui era stato approvato l’atto di transazione.
9. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1325 c.c..
Premette che la corte distrettuale ha reputato legittima la richiesta di maggiorazione del compenso da Lire 130.000.000 e Lire 400.000.000.
Indi deduce che qualsivoglia successiva modificazione del contratto in precedenza stipulato avrebbe dovuto rivestir forma scritta ad substantiam.
10. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c..
Deduce che ha errato la corte territoriale a liquidare l’indennizzo ex art. 2041 c.c., alla stregua delle tariffe professionali, viepiù che l’indennizzo non può comprendere il lucro che il danneggiato avrebbe realizzato se il contratto fosse stato valido ed efficace.
11. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., e del D.M. n. 585 del 1994.
Deduce che, pur a reputar applicabili le tariffe, ha errato la corte d’appello, allorché ha determinato in Lire 20.000.000.000 il valore della controversia.
Deduce che la Corte di Potenza avrebbe dovuto, viceversa, tener conto del valore determinato dalle parti in sede di transazione e, in particolare, del valore dell’iscrizione ipotecaria.
12. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., la nullità della sentenza e del procedimento.
Deduce che il collegio d’appello è stato costituito con la partecipazione del giudice che aveva istruito la causa in primo grado.
13. Il settimo motivo di ricorso riveste, evidentemente, valenza del tutto preliminare; se ne impone, perciò, la preventiva disamina; il motivo comunque è privo di fondamento e va respinto.
E’ sufficiente il riferimento all’insegnamento di questa Corte secondo cui l’obbligo di astensione imposto dall’art. 51 c.p.c., n. 4, al giudice che abbia conosciuto della causa in altro grado concerne esclusivamente il caso dell’avvenuta partecipazione alla decisione oggetto di gravame, non anche quello di semplici attività istruttorie (cfr. Cass. 27.3.2001, n. 4412; Cass. sez. lav. 20.6.2003, n. 9905; Cass. 18.11.2016, n. 23520, secondo cui l’obbligo di astensione imposto dall’art. 51 c.p.c., n. 4, la cui violazione, ove oggetto di deduzione mediante rituale istanza di ricusazione, è causa di nullità della sentenza, va circoscritto alla sola ipotesi in cui il giudice abbia partecipato alla decisione del merito della controversia in un precedente grado di giudizio e non può estendersi al caso in cui questi si sia limitato ad istruire la causa in primo grado senza deciderla, oppure abbia ivi reso una pronuncia relativa alle deduzioni probatorie, trovandosi, poi, a conoscerne in grado di appello, trattandosi di provvedimento tipicamente ordinatorio, privo, pertanto, di qualunque efficacia decisoria).
E, ben vero, nella fattispecie, è la stessa ricorrente che ha riferito che il componente del collegio d’appello, che ebbe ad istruire il giudizio in primo grado, non ha partecipato in prime cure “alla decisione “a seguito dello scardinamento del ruolo” in fase di precisazione delle conclusioni” (così ricorso pag. 15).
14. Il primo motivo, il secondo motivo, il terzo motivo ed il quarto motivo di ricorso sono strettamente connessi; il che ne suggerisce la disamina contestuale; in ogni caso i motivi anzidetti sono privi di fondamento e vanno respinti.
15. Con precipuo riferimento al primo motivo si osserva quanto segue.
16. Va reiterato l’insegnamento di questo Giudice del diritto a tenore del quale, in tema di forma scritta “ad substantiam” dei contratti della P.A., il requisito è soddisfatto, nel contratto di patrocinio, con il rilascio al difensore della procura ai sensi dell’art. 83 c.p.c., atteso che l’esercizio della rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo perfeziona, mediante l’incontro di volontà fra le parti, l’accordo contrattuale in forma scritta, rendendo così possibile l’identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell’autorità tutoria (cfr. Cass. (ord.) 16.2.2012, n. 2266; Cass. (ord.) 24.2.2015, n. 3721; Cass. 22.7.2015, n. 15454).
17. Su tale scorta, con riferimento all’attività giudiziale esplicata dall’avvocato F.D.A., consistita nella “redazione di un atto di citazione, non notificato alla controparte per la manifestata possibilità di un accordo bonario” (così sentenza d’appello, pag. 2), appaiono del tutto ingiustificati i rilievi veicolati dal primo mezzo di impugnazione.
Ossia l’assunto secondo cui, ai fini della valida stipula del contratto d’opera intellettuale tra ente pubblico e professionista, non può reputarsi sufficiente la delibera dell’ente, giacché la delibera costituisce un atto interno.
Ossia l’assunto secondo cui, in dipendenza della mancata determinazione del compenso, il contenuto negoziale non è controllabile dall’autorità tutoria.
18. Va rimarcato, per altro verso, che il profilo concernente il “difetto di copertura finanziaria” non rinviene alcun riflesso né nei passaggi motivazionali tutti dell’impugnato dictum (se ne vedano, in particolare, il paragrafo n. 1, ove si riferisce della costituzione in prime cure dell'”A.L.S.I.A.”, il paragrafo n. 2, ove si riferisce della sentenza di primo grado, ed i paragrafi n. 6 e n. 7, concernenti i motivi dell’appello principale), né nella sintesi che la stessa ricorrente ha offerto dei suoi motivi d’appello (cfr. ricorso, pagg. 2 – 3. Del resto, l’avvocato F. ha addotto che “nel giudizio d’appello l’ALSIA (…) non ha dedotto la violazione delle regole dell’evidenza pubblica (quali?) e la carenza della copertura finanziaria”: così controricorso, pag. 16; così memoria, pag. 14).
Il surriferito profilo di doglianza ed i correlati rilievi, secondo cui l’azione ex art. 2041 c.c., non può essere esperita onde eludere le norme “dell’evidenza pubblica, che (…) travolgono ed invalidano qualunque convenzione con esse confliggente, rendendola inoperante” (così ricorso, pagg. 6 – 7), e secondo cui, in assenza di attestazione circa la necessaria copertura finanziaria, la mancanza di forma scritta non può essere sanata neppure con il riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte della P.A. (cfr. ricorso, pag. 7), sono, dunque, senza dubbio “nuovi” in questa sede.
Cosicché esplica valenza l’insegnamento di questa Corte in virtù del quale nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (cfr. Cass. 25.10.2017, n. 25319; Cass. 13.9.2007, n. 19164).
19. Tanto, ben vero, a prescindere dalla più recente elaborazione di questo Giudice, alla cui stregua non è affetta da nullità la delibera dell’ente locale che affidi l’incarico di difendere in giudizio l’ente ad un avvocato, a causa della omessa indicazione della spesa e dei mezzi per farvi fronte, perché le prescrizioni dettate dalla legge in materia riguardano solo le delibere implicanti un esborso di somme certe e definite e non sono applicabili nel caso di spesa non determinabile al momento della relativa assunzione (cfr. Cass. (ord.) 22.5.2019, n. 13913).
20. Va rimarcato, per altro verso ancora, che la corte d’appello ha specificato (cfr. sentenza d’appello, pag. 7) che il primo giudice aveva dato atto che l'”A.L.S.I.A.”, allora convenuta, non aveva contestato l’effettiva esecuzione dell’attività professionale e che siffatto passaggio motivazionale del primo dictum l’ente, appellante principale, non aveva censurato (“aggredito”).
In questi termini innegabilmente non si correla alla “ratio in parte qua decidendi” del secondo dictum la censura infine veicolata dal primo mezzo, secondo cui l’avvocato F. non ha dimostrato né l'”an” né il “quantum” della sua pretesa (cfr. Cass. (ord.) 10.8.2017, n. 19989, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata; Cass. 17.7.2007, n. 15952).
21. Con precipuo riferimento al secondo motivo si osserva quanto segue.
22. La Corte di Potenza, dapprima, ha precisato che il tribunale aveva, tra l’altro, “affermato che la normativa di settore trova applicazione solo per i comuni, le province e le comunità montane, non anche per le Regioni” (così sentenza d’appello, pag. 6).
Indi ha soggiunto che, “sul punto, l’appellante apoditticamente afferma che l’ALSIA sarebbe un ente locale, quando viceversa l’Agenzia è ente strumentale della Regione Basilicata” (così sentenza d’appello, pag. 6).
23. Su tale scorta le censure in primo luogo veicolate dal secondo mezzo del pari non si correlano puntualmente alla “ratio in parte qua decidendi”.
La ricorrente senza dubbio avrebbe dovuto in modo specifico addurre che non si era limitata a prospettare sic et simpliciter che fosse un ente locale.
Cosicché non “aggredisce” direttamente la “ratio” il rilievo secondo cui la corte di merito ha errato a reputare sussistente il requisito della sussidiarietà a motivo dell’asserita inapplicabilità alli “A.L.S.I.A.”, in quanto agenzia regionale, della disciplina che prevede l’azione diretta nei confronti del pubblico funzionario che ha stipulato il contratto (cfr. ricorso, pag. 8).
24. La Corte di Potenza, poi, ha precisato – lo si è premesso – che il secondo motivo d’appello, nella parte in cui, a censura del primo dictum, si era addotto che il primo giudice aveva erroneamente opinato per la sussistenza dell’utilitas, si traduceva in un’eccezione nuova, inammissibile in appello.
Ed ha precisato, ulteriormente, che il secondo motivo d’appello, nella parte in cui, a censura del primo dictum, si era addotto che il primo giudice aveva erroneamente opinato per la sussistenza del riconoscimento dell’utilitas, non attingeva la “ratio” della prima pronuncia, siccome, da un lato, il primo giudice aveva dato atto che la convenuta non aveva contestato l’effettiva esecuzione dell’attività professionale, siccome, dall’altro, il riconoscimento dell’utilitas era attestato dalle delibere dell’ente, principale appellante, con le quali era stato approvato l’atto di transazione.
25. Su tale scorta le censure in secondo luogo veicolate dal secondo mezzo del pari non si correlano in modo puntuale alla “ratio in parte qua decidendi”.
Trattasi, propriamente, delle censure secondo cui l’avvocato F. non ha dimostrato di aver reso una prestazione vantaggiosa per l’ente (la corte distrettuale, si ribadisce, ha reputato che la correlata deduzione sostanziasse una eccezione nuova) e secondo cui l’ente non ha valutato l’utilità del servizio ai fini del perseguimento dell’interesse pubblico (la corte distrettuale, si ribadisce, ha reputato che il riconoscimento dell’utilitas era attestato dalle delibere dell'”A.L.S.I.A.” con le quali era stato approvato l’atto di transazione).
26. Tanto, beninteso, a prescindere – in relazione a tal ultimo profilo – dall’elaborazione delle sezioni unite di questa Corte, alla cui stregua il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c., nei confronti della P.A., ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto” (cfr. Cass. sez. un. 26.5.2015, n. 10798; Cass. (ord.) 4.4.2019, n. 11209).
27. Con precipuo riferimento al terzo motivo si osserva quanto segue.
28. E’ fuor di dubbio che il complesso presupposto dell’actio ex art. 2041 c.c. – l’arricchimento di un soggetto e la corrispondente diminuzione patrimoniale di altro soggetto, tra loro in relazione di necessaria interdipendenza in quanto riconducibili ad uno stesso fatto causativo, e la mancanza, per entrambi, di una giustificazione giuridica (cfr. Cass. 29.7.1983, n. 5236) – e dunque il requisito dell’utilitas – che propriamente si raccorda al requisito dell’arricchimento – ricadano nell’onere probatorio dell'”impoverito”.
E’ fuor di dubbio, al contempo, che il motivo d’appello con cui l'”A.L.S.I.A.”, appellante principale, ha contestato la sussistenza dell’utilitas, doveva, a rigore, costituir riflesso di un’eccezione ritualmente sollevata in prime cure.
E tuttavia non può non darsi atto che, in prime cure, la principale appellante si era limitata ad eccepire “in via preliminare la nullità del contratto per difetto di forma scritta ad substantiam e l’improponibilità della domanda subordinata di indebito arricchimento per difetto di legittimazione passiva” e “nel merito (…) l’eccessività della pretesa” (così sentenza d’appello, pag. 2).
Devesi ritenere, cioè, che il profilo dell’insussistenza dell'”arricchimento rispetto all’interesse pubblico perseguito” (così ricorso, pag. 10) non sia stato oggetto di specifica contestazione in prime cure – d’altronde, la ricorrente non ha offerto in ricorso, al riguardo, riscontro specifico ed “autosufficiente” di segno diverso – ovvero che sia rimasto estraneo al thema decidendum, così come definitosi in primo grado al maturare delle preclusioni di rito, con inevitabile susseguente preclusione alla sua proposizione in appello (cfr. Cass. 29.11.2013, n. 26859, secondo cui, nel processo di cognizione, l’onere previsto dall’art. 167 c.p.c., comma 1, di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese e di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, comporta che, esaurita la fase della trattazione, non è più consentito al convenuto, per il principio di preclusione in senso causale, di rendere controverso un fatto non contestato, né attraverso la revoca espressa della non contestazione, né deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte; ne consegue che, in grado di appello, non è ammessa la contestazione della titolarità passiva del fatto controverso che debba aversi per non contestata nel giudizio di primo grado; Cass. (ord.) 2.12.2019, n. 31402, secondo cui la valutazione della condotta processuale del convenuto, agli effetti della non contestazione dei fatti allegati dalla controparte, deve essere correlata al regime delle preclusioni, che la disciplina del giudizio ordinario di cognizione connette all’esaurimento della fase processuale entro la quale è consentito ancora alle parti di precisare e modificare, sia allegando nuovi fatti – diversi da quelli indicati negli atti introduttivi – sia revocando espressamente la non contestazione dei fatti già allegati, sia ancora deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte; in particolare, la mancata tempestiva contestazione, sin dalle prime difese, dei fatti allegati dall’attore è comunque retrattabile nei termini previsti per il compimento delle attività processuali consentite dall’art. 183 c.p.c., risultando preclusa, all’esito della fase di trattazione, ogni ulteriore modifica determinata dall’esercizio della facoltà deduttiva; Cass. sez. un. 16.2.2016, n. 2951).
29. Nei termini anzidetti va, quindi, debitamente corretta la motivazione in parte qua dell’impugnato dictum ovvero va – rectius – affermata la preclusione in appello della contestazione circa la sussistenza dell’utilitas della prestazione professionale svolta dall’avvocato F.D.A..
30. Gli ulteriori profili di censura veicolati dal terzo mezzo (la corte di merito ha errato, allorché ha reputato sussistente l’utilitas; non vi è prova che “l’Alsia abbia ricevuto un vantaggio in termini di perseguimento dell’interesse pubblico”: così ricorso, pag. 10; l’avvocato F. “non ha provato (…) il fatto oggettivo dell’arricchimento”: così ricorso, pag. 10) non si correlano alla “ratio in parte qua decidendi”.
Si reitera che la corte distrettuale ha opinato per la “novità” (rectius, per la preclusione) della contestazione afferente all’insussistenza dell’utilitas.
31. Con precipuo riferimento al quarto motivo si osserva quanto segue.
32. La corte territoriale, in relazione al motivo dell’appello principale con il quale l'”A.L.S.I.A.” aveva addotto che il professionista aveva determinato il compenso a lui spettante con la lettera in data 2.2.1999, ha puntualizzato che il motivo non era idoneo a sovvertire sul punto la gravata decisione, siccome il tribunale aveva affermato che la richiesta – di cui, appunto, alla lettera del 2.2.1999 – non era in alcun modo vincolante per l’ente pubblico, giacché subordinata alla pronta liquidazione, poi non avvenuta, della parcella.
33. Evidentemente, non si correlano alla surriferita “ratio decidendi” le censure veicolate dal quarto mezzo (del resto, l’avvocato F. ha addotto che “non vi è alcuna attinenza tra quanto dedotto col motivo (circa la necessità della forma ad substantiam) e la decisione impugnata”: così controricorso, pag. 21; così memoria, pag. 19).
Più esattamente, la corte di seconde cure non ha reputato legittima la richiesta di maggiorazione del compenso; ha reputato viceversa che il rilievo del primo giudice – id est il difetto di vincolatività della maggiore richiesta – rimanesse impregiudicato al cospetto del motivo del gravame principale all’uopo esperito.
A nulla vale, quindi, che in questa sede l'”A.L.S.I.A.” adduca che l’invocata maggiorazione del compenso avrebbe dovuto trovar fondamento in un atto parimenti avente forma scritta ad substantiam, sì che neppure sarebbe stato sufficiente il mero riferimento al comportamento complessivo delle parti anche successivo alla stipulazione (cfr. ricorso, pagg. 11 – 12); che la invocata – ex adverso – maggiorazione del compenso neppure è da ascrivere a fatti sopravvenuti ed imprevedibili (cfr. ricorso, pag. 12).
34. Il quinto motivo ed il sesto motivo di ricorso del pari sono strettamente connessi; il che ne suggerisce l’esame simultaneo; i medesimi motivi comunque sono privi di fondamento e vanno respinti.
35. Ovviamente il riferimento alle tariffe di cui al D.M. n. 585 del 1994, appieno si giustifica in relazione all’attività giudiziale.
Nondimeno, il riferimento in toto si giustifica pur in relazione all’attività stragiudiziale, consistita “nella redazione di un parere in ordine ad ipoteche giudiziali iscritte in favore del Medio Credito Sud s.p.a. (…); nella redazione del ricorso per la nomina di un professionista da parte del Presidente del Tribunale di Potenza, per la stima dei beni residui; infine, per la redazione di un atto di transazione, poi sottoscritto dalle parti” (così sentenza d’appello, pag. 2).
36. A tal ultimo riguardo si dà atto della enunciazione – da parte di questo Giudice – di due indirizzi interpretativi per nulla sovrapponibili.
Da un canto, si è assunto che, qualora, per lo svolgimento di un’attività professionale, debba essere riconosciuto un indennizzo per arricchimento senza causa ai sensi dell’art. 2041 c.c., la quantificazione dell’indennizzo medesimo può essere effettuata utilizzando la tariffa professionale come parametro di valutazione, per desumere il risparmio conseguito dalla P.A. committente rispetto alla spesa cui essa sarebbe andata incontro nel caso di incarico professionale contrattualmente valido (cfr. Cass. (ord.) 10.1.2017, n. 351).
D’altro canto, si è assunto che, in tema di azione generale di arricchimento, l’indennizzo dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività in favore della pubblica amministrazione ma in difetto di un contratto scritto, non può essere determinato in base alla tariffa professionale, neppure indirettamente quale parametro del compenso che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore di un privato, né in base all’onorario che la P.A. avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto di un contratto valido (cfr. Cass. 4.4.2019, n. 9317).
37. Ebbene, reputa questo Collegio di dar continuità all’indirizzo esegetico dapprima enunciato, benché nei termini suggeriti da un’ulteriore recente indicazione giurisprudenziale.
Ovvero nei termini indicati dall’ordinanza n. 14670 del 29.5.2019 di questa Corte, a tenor della quale la diminuzione patrimoniale (“depauperatio”) subita dall’autore di una prestazione d’opera in favore della P.A., in assenza di un contratto valido ed efficace, da compensare ai sensi dell’art. 2041 c.c., può formare oggetto di una valutazione di carattere equitativo ai sensi dell’art. 1226 c.c., anche officiosa, in considerazione della difficoltà di determinazione del suo preciso ammontare.
Nella teste’ riferita occasione questa Corte ha, in verità, ulteriormente specificato che la diminuzione patrimoniale, da compensare ai sensi dell’art. 2041 c.c., non può coincidere con la misura del compenso calcolato mediante il parametro della tariffa professionale, nel rispetto del criterio dell’adeguatezza del compenso all’importanza dell’opera e al decoro della professione (art. 2233 c.c.), ma deve, comunque, oltre ai costi ed esborsi sopportati (danno emergente), ricomprendere quanto necessario a ristorare il sacrificio di tempo, nonché il dispendio di energie mentali e fisiche del professionista (lucro cessante), del cui valore si deve tener conto in termini economici, al netto della percentuale di guadagno.
38. In tal guisa si reputa, specificamente in relazione all’attività stragiudiziale, che la Corte d’Appello di Potenza ha fatto, sì, riferimento alle tariffe professionali (cfr. sentenza d’appello, par. 9) e, tuttavia, vi ha fatto riferimento, ineccepibilmente, nell’ottica equitativa – per così dire – di “ampio spettro” rappresentata da questa Corte con la menzionata ordinanza n. 14670/2019, in una prospettiva volta, cioè, ad indennizzare pur il sacrificio temporale, pur il dispendio delle energie mentali e fisiche del professionista.
39. Su tale scorta per nulla si giustificano le censure veicolate dal sesto mezzo di impugnazione, che invero si sarebbero attagliate ad una liquidazione tariffaria stricto sensu.
Il riferimento è propriamente ai rilievi (cfr. ricorso, pagg. 14 – 15) secondo cui occorreva tener conto del valore dell’ipoteca, “certamente inferiore a 9 miliardi di lire”, secondo cui sarebbero stati da applicare i “minimi” anziché i “medi” tariffari, secondo cui indebitamente sarebbe stato liquidato il “compenso per l’assistenza alla consulenza tecnica”, secondo cui erroneamente si è fatta applicazione per l’attività relativa alla fase transattiva del compenso dovuto all’arbitro unico, secondo cui l’assistenza stragiudiziale per la fase peritale e l’assistenza per la fase transattiva non possono essere considerate attività autonome, secondo cui per la fase transattiva sarebbero state da “applicare le competenze dovute in materia giudiziale”.
40. Del tutto generica è la censura infine veicolata dal sesto mezzo, a tenor della quale la condanna alle spese del “doppio grado” è ingiusta, siccome l'”A.L.S.I.A.” principale appellante, qui ricorrente, non è risultata integralmente soccombente, siccome “spropositata, non trovando alcun riscontro nelle tariffe professionali, e nemmeno motivata” (così ricorso, pag. 15. In relazione al menzionato triplice profilo di doglianza cfr. Cass. (ord.) 17.10.2017, n. 24502; Cass. 4.7.2011, n. 14542; Cass. 18.10.2001, n. 12758, e Cass. 2.4.1979, n. 1868).
41. La ricorrente, giacché soccombente, va condannata a rimborsare al controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità.
La liquidazione segue come da dispositivo.
42. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1, quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit., se dovuto (cfr. Cass. sez. un. 20.2.2020, n. 4315).
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente, “A.L.S.I.A.”, a rimborsare al controricorrente, F.D.A., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit., se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2021
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