Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza Interlocutoria n.3946 del 08/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COSENTINO Antonello – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 22958/2019) proposto da:

S.I.A.MED., (Società iniziative alberghiere del Mediterraneo) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.ti Angelo e Alberto Luminoso, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del Dott. Fabio Trinca, in Roma, via Portuense, n. 104;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO *****, (C.F.: *****), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al controricorso, dall’Avv. Francesco Di Giovanni, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, in Roma, v. Merulana, n. 247;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Cagliari n. 557/2018 (pubblicata il 13 giugno 2018);

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14 gennaio 2022 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. Francesco Di Giovanni per la parte controricorrente.

RITENUTO IN FATTO

1. La s.r.l. S.I.A.MED, con citazione notificata il 4 aprile 2001, convenne dinanzi al Tribunale di Tempio Pausania – sezione distaccata di Olbia il Condominio “*****”, sito in *****, affinché fosse accertato e dichiarato che era proprietaria di numerose porzioni immobiliari all’interno della omonima lottizzazione, giusta acquisto fattone con rogito del 7 febbraio 1994 dalla s.r.l. Porto Rotondo, che a sua volta le aveva acquistate il 2 marzo 1973 dalla s.p.a. Lumar. A sostegno della proposta azione la citata società S.I.A.MED deduceva che essa si era resa necessaria a seguito delle iniziative (consistite nell’instaurazione di un giudizio possessorio vittoriosamente esperito contro la stessa e nell’occupazione di fatto degli spazi in questione, con contestazione del suo diritto dominicale) con le quali il Condominio aveva inteso manifestare la propria volontà di acquisire le aree stesse, adibendole a parcheggio delle vetture dei condomini e dei visitatori dei medesimi.

Con la stessa domanda l’attrice chiese, inoltre, che fossero inibite all’ente di gestione siffatte condotte e che lo stesso fosse condannato al risarcimento dei danni cagionati.

Il Condominio, costituendosi, evidenziò di essere da oltre 20 anni nel possesso esclusivo degli spazi adibiti anche a parcheggio, sottolineando come l’originaria proprietaria-venditrice del complesso immobiliare, la società Porto Rotondo s.p.a., avesse predisposto un regolamento condominiale, richiamato nei singoli rogiti di acquisto gli spazi in esame; contestò, altresì, che la società attrice potesse vantare diritti su tali aree, a ciò ostando il disposto della L. n. 765 del 1967, art. 18, che aveva determinato una presunzione di pertinenzialità tra le stesse e gli immobili adibiti ad abitazione. In via riconvenzionale, eccepì la comproprietà in capo ai condomini delle aree oggetto di contenzioso, destinate a parcheggio, nonché l’acquisto per usucapione in proprio favore della proprietà o della servitù prediale di uso o del diritto reale d’uso delle medesime aree; in via subordinata, eccepì l’avvenuta costituzione ex lege del diritto reale d’uso come limite del diritto di proprietà della società attrice.

L’adito Tribunale, con sentenza del 14 aprile 2005, accolse l’eccezione di usucapione – così qualificando la difesa svolta dal Condominio e respingendo, di conseguenza, l’eccezione di inammissibilità proposta dalla società attrice, che aveva ritenuto che la richiesta del Condominio integrasse una domanda tardivamente proposta – e respinse la domanda della società attrice.

La Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, pronunziando con la sentenza n. 413/2009, in riforma dell’impugna decisione di primo grado, accolse invece la domanda di rivendica dell’appellante società S.I.A.MED. e condannò il Condominio al rilascio delle aree in contestazione, respingendo, tuttavia, le domande di risarcimento dei danni.

La Corte distrettuale pervenne a tale risultato ritenendo:

– che doveva ritenersi coperta da giudicato – per mancata proposizione di appello sul punto – la qualificazione come eccezione della richiesta di accertamento dell’intervenuta usucapione;

– che l’eccezione di usucapione sarebbe stata proposta dal Condominio, soggetto non legittimato attivamente, in quanto si verteva in materia di pertinenze di beni dei singoli condomini e non già delle parti comuni;

– che comunque l’eccezione stessa, ove mai si fosse ritenuto legittimato il Condominio, sarebbe stata comunque infondata perché l’ente di gestione non aveva dato prova del possesso pubblico, pacifico ed ininterrotto delle aree oggetto dell’avversa azione di rivendicazione, essendo a ciò inidonea la stessa articolazione istruttoria contenuta negli atti difensivi del medesimo;

– che, del pari, erano da qualificarsi infondate le, pur riprodotte, eccezioni dirette a far valere l’asserito nesso pertinenziale ex lege tra le aree scoperte e i singoli appartamenti, in quanto non era rimasta provata la violazione del rapporto tra la cubatura residenziale e la superficie destinata a parcheggio previsto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18 (venti metri quadrati – poi divenuti dieci per effetto della L. n. 122 del 1989, art. 2 – per metro cubo);

– che dall’esame degli atti di vendita dei singoli appartamenti e dalla lettura delle previsioni del regolamento contrattuale non era emersa la natura condominiale delle aree in questione e che le dedotte circostanze sarebbero state compatibili con la perdurante proprietà in capo all’appellante dell’area in questione – oggetto di riserva di proprietà in sede di predisposizione del regolamento condominiale -, separata dalla proprietà delle unità immobiliari;

– che, altresì, infondata doveva ritenersi l'”eccezione” di accertamento del diritto reale d’uso in capo ai singoli condomini, per effetto della ricordata carenza di legittimazione attiva del Condominio;

– che fondata, invece, era la domanda di rivendica della società S.I.A.MED. in forza delle emergenze documentali e della riscontrata infondatezza delle eccezioni del Condominio.

Per la cassazione di tale sentenza il predetto Condominio proponeva ricorso sulla base di tre motivi. La s.r.l. S.I.A.MED. resisteva con controricorso, proponendo, altresì, ricorso incidentale con riferimento alla reiezione della propria domanda risarcitoria.

Con il formulato motivo principale la parte ricorrente principale denunciava la violazione e falsa applicazione:

a – dell’art. 1117 c.c., nonché della L. n. 765 del 1967, laddove era stato ritenuto carente di legittimazione attiva l’amministratore del Condominio a proporre la domanda o l’eccezione di usucapione delle aree destinate a parcheggio, in forza del vincolo pertinenziale costituito ex lege in virtù della c.d. legge Ponte, escludendo erroneamente tali aree dal novero delle cose comuni;

b – della L. n. 1150 del 1942, art. 41-sexies, in relazione all’art. 1117 c.c., laddove la Corte di appello non aveva ritenuto provata la natura comune delle superfici in esame dall’analisi della documentazione prodotta, ovvero in base al regolamento (contrattuale) predisposto dalla venditrice s.p.a. Porto Rotondo, in cui la “sede stradale” doveva intendersi indicata come oggetto di proprietà comune indivisibile di tutti i proprietari delle unità immobiliari per la destinazione funzionale impressa dall’art. 18 della c.d. Legge Ponte e sulla scorta del progetto presentato al Comune di Olbia per ottenere la concessione a costruire;

c – degli artt. 1117,817 e 818 c.c., per non aver il giudice di appello considerato che, in mancanza di specificazione nei singoli atti di acquisto, gli spazi destinati a parcheggio dovevano considerarsi ceduti in comproprietà pro-quota, come pertinenze delle singole unità immobiliari.

A sostegno di tali censure il Condominio ricorrente deduceva l’inapplicabilità della giurisprudenza richiamata nella gravata decisione al fine di escludere la legittimazione attiva dell’amministratore del Condominio, in quanto, a differenza della fattispecie presa in esame, le aree stradali in oggetto si sarebbero dovute considerare nate sin dall’origine con la specifica destinazione a parcheggio.

Con l’unico motivo di ricorso incidentale la controricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 948,949,1130,1131,1133 e 2043 c.c., nonché il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, non avendo la Corte di appello riconosciuto il diritto della deducente al risarcimento del danno per l’occupazione delle aree di sua proprietà, sulla base dell’osservazione che di tale uso sarebbero stati partecipi anche tutti i frequentatori del comprensorio e del rilievo che, non trattandosi di cosa comune, i rispettivi diritti si sarebbero dovuti far valere nei confronti dei singoli proprietari effettivamente fruenti degli spazi oggetto di rivendica.

Questa Corte, con sentenza n. 2015/2012 (pubblicata il 16 novembre 2012), rigettava integralmente il ricorso principale ed accoglieva, con rinvio alla Corte di appello di Cagliari, quello incidentale.

La fondatezza di quest’ultimo veniva giustificata sulla base dell’assunto che appariva contraddittorio ordinare – come aveva deciso la Corte distrettuale – al Condominio il rilascio dei beni, presupponendo dunque che la disponibilità delle aree in questione sarebbe stata sottratta all’uso della proprietaria società S.I.A.MED. e sottoposta a contestazioni, quanto alla titolarità, con varie iniziative giudiziarie, dal medesimo Condominio, ed allo stesso tempo negare la tutela risarcitoria che tali condotte dell’ente di gestione avrebbero comportato, sull’erroneo presupposto che essa avrebbe dovuto essere fatta valere nei confronti dei singoli proprietari effettivamente fruenti degli spazi oggetto di rivendica.

2. Decidendo nel conseguente giudizio di rinvio riassunto dalla società S.I.A.MED, e nella costituzione del Condominio “*****” corrente in *****, la Corte di appello di Cagliari, con sentenza n. 557/2018 (pubblicata il 13 giugno 2018), nel pronunciare limitatamente all’impugnazione del rigetto della domanda di risarcimento dei danni (unica statuizione cassata della precedente sentenza della stessa Corte di appello n. 413/2009), respingeva la relativa domanda formulata dalla predetta società riassumente, condannando il citato Condominio al pagamento dei due terzi dei tre gradi di giudizio e compensandole per il residuo terzo, ponendo, tuttavia, le spese occorse per la c.t.u. espletata in sede di rinvio a carico della società riassumente.

A fondamento della decisione adottata all’esito del giudizio di rinvio, la suddetta Corte territoriale riteneva che, sulla base del “petitum” e dalla “causa petendi” addotti a fondamento della domanda originaria introduttiva del giudizio come proposta dalla S.I.A.MED s.r.l., risultava, innanzitutto, impossibile accogliere le tesi difese svolte dalla riassumente (richiamate anche nelle comparse conclusionali del giudizio di rinvio) e finalizzate al riconoscimento del danno “in re ipsa” da occupazione senza titolo, mai prima allegato.

Al riguardo la Corte di rinvio osservava che il riconoscimento del danno figurativo sulla scorta del valore locatizio di un bene presuppone pur sempre una indefettibile attività di allegazione di un pregiudizio derivante dalla impossibilità di utilizzarlo, pregiudizio, però, che nella fattispecie non era stato prospettato, poiché nella citazione introduttiva – a cui occorreva porre riferimento ai fini della individuazione dell’oggetto della domanda – era stata solo rappresentata l’impossibilità di alienare gli immobili e lucrare il prezzo della vendita.

Tuttavia, la stessa Corte cagliaritana evidenziava che la domanda della società S.I.A.MED di risarcimento dei danni da impossibilità di vendere gli immobili ed ottenerne il prezzo si poneva in un rapporto di logica incompatibilità con quelle insieme alle quali era stata proposta, non alternativamente ma cumulativamente – di rivendica e rilascio degli stessi; domande, queste ultime, che erano state accolte, ragion per cui l’accoglimento della domanda risarcitoria avrebbe comportato una indebita locupletazione in danno del convenuto. Il giudice di rinvio poneva ancora in risalto che nell’atto introduttivo del giudizio non erano state specificamente dedotte altre forme di pregiudizio (quale, per esempio, quello riconducibile ad una ipotetica differenza di valore tra il prezzo ricavabile al momento della instaurazione della controversia e quello ottenibile al momento della ottenuta disponibilità delle aree oggetto di causa) – sulle quali, peraltro, in disparte le carenze in punto allegazione, non era stato offerto alcun elemento di prova.

3. Avverso la suddetta sentenza n. 557/2018 della Corte sarda la s.r.l. S.I.A.MED. ha proposto ricorso per cassazione, riferito a tre motivi e illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Ha resistito con controricorso anche in questa sede il citato Condominio “*****” corrente in *****.

La causa è stata discussa nella pubblica udienza del 14 gennaio 2022 e quindi decisa – all’esito della intervenuta pubblicazione dell’ordinanza interlocutoria della III Sezione civile di questa Corte n. 1162 del 17 gennaio 2022 – nella Camera di consiglio riconvocata il 25 gennaio 2022.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Con il primo motivo la s.r.l. S.I.A.MED ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324c.p.c. e art. 384 c.p.c., comma 2, sul presupposto che, per effetto della pregressa sentenza di questa Corte n. 20125/2012 (mediante la quale era stata cassata la prima sentenza della Corte di appello di Cagliari – sez. dist. di Sassari, con riferimento al ricorso incidentale dalla stessa proposto in ordine al rigetto della domanda risarcitoria, che, invece, non avrebbe potuto essere negata per effetto delle condotte dell’ente di gestione), si era venuto a formare il giudicato interno sull’ammissibilità della domanda risarcitoria e sulla fondatezza della stessa circa l’an, rimanendo demandato alla Corte di rinvio il solo compito di procedere alla quantificazione del relativo danno.

5. Con la seconda censura la società ricorrente ha dedotto – sempre con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226,2043,2056 e 2697 c.c., sostenendo l’erroneità dell’impugnata sentenza adottata in sede di rinvio, nella parte in cui aveva ritenuto che essa società, quale originaria attrice, avrebbe dovuto assolvere l’onere di allegare un pregiudizio da occupazione senza titolo, che, invece, non era stato adempiuto, dal momento che nell’atto di citazione introduttivo essa società attrice aveva solo rappresentato l’impossibilità di alienare gli immobili a terzi e di lucrare il prezzo delle vendite. In senso contrario la ricorrente ha, invece, inteso sostenere che ai fini del riconoscimento del risarcimento dei danni da occupazione senza titolo di immobile – si sarebbe dovuto considerare sufficiente che la parte che aveva richiesto siffatto risarcimento allegasse l’idoneità dell’immobile a produrre reddito, nonché la sua intenzione di godere del bene o di impiegarlo per finalità redditizie. E a tal riguardo la ricorrente ha riprodotto testualmente la parte del contenuto dell’originario atto introduttivo del giudizio, nel quale, oltre alla proposizione della tutela di cui all’art. 948 c.c., aveva dedotto che le iniziative del convenuto Condominio e la sua occupazione senza titolo dell’immobile costituivano, inoltre, causa di un considerevole danno patrimoniale che essa stava subendo, specie in considerazione del fatto che essa si vedeva impedita di vendere a terzi le aree di sua proprietà e di ricavare i conseguenti profitti economici (da ricondurre, perciò, anche alla possibile concessione in locazione dell’immobile occupato, costituito da 33 parcheggi già frazionati, quale sua espressione dell’attitudine fruttifera e redditizia, con correlata liquidabilità del danno anche con applicazione del criterio equitativo).

In proposito, a conclusione del motivo, la ricorrente adduce che con la prima sentenza di appello cassata era già stata ritenuta sussistente l’allegazione dei fatti sufficienti a giustificare la liquidazione di un danno c.d. “figurativo”, tanto è vero che, con riguardo all’area illecitamente occupata dai suddetti parcheggi, era stato conferito al c.t.u. l’incarico di determinarne il valore locativo.

6. Con il terzo mezzo la società S.I.A.MED ha prospettato – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (e, in subordine, con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113 e 115 c.p.c., con riferimento all’avvenuto travisamento, da parte del giudice di rinvio, del senso, del contenuto e dell’oggetto della domanda risarcitoria di essa ricorrente, la quale avrebbe dovuto intendersi riferita anche all’impossibilità di non poter vendere a terzi i parcheggi che nel frattempo erano stati frazionati, ragion per cui non sarebbe stato possibile mettere a frutto il ricavato delle vendite.

7. Il secondo e terzo motivo del ricorso ripropongono la delicata questione dell’identificazione del danno da occupazione senza titolo (in tutte le sue possibili componenti) e dell’individuazione e ripartizione dei relativi oneri di allegazione e di prova; questione sulla quale la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi ripetutamente ma senza assumere una posizione sempre coerente, inequivoca e con valenza effettivamente e pienamente nomofilattica.

Nel caso di specie la Corte di rinvio, esaminando e decidendo nel merito la domanda risarcitoria avanzata dalla S.I.A.MED s.r.l. (del cui riesame era stata investita), ha ritenuto di respingerla sull’asserito (ma contestato dall’appena citata ricorrente) presupposto della mancanza dell’indefettibile attività di allegazione di un pregiudizio derivante dalla impossibilità di utilizzare gli immobili prima che venisse riconosciuta la fondatezza della domanda di rivendicazione ed ordinato il rilascio degli stessi. Detto pregiudizio era stato rappresentato dalla S.I.A.MED attraverso la prospettazione di un danno patrimoniale che essa stava subendo specialmente per essersi vista impedire l’esercizio del suo pieno diritto di godere dell’area oggetto dell’azione di rivendica e di vendere a terzi le aree di sua proprietà, nonché di ricavare i conseguenti profitti economici, allegando, perciò, l’idoneità dell’immobile a produrre reddito e facendo valere la sua intenzione di godere del bene o di impiegarlo per finalità redditizie.

Tale complessiva domanda accessoria di natura risarcitoria era evincibile da quanto dedotto specificamente fin dalla citazione originaria, laddove si era posto riferimento, oltre che al danno derivante dal mancato godimento ed alla impossibilità di vendere il bene, al lucro cessante dipendente dalla mancata percezione dei possibili frutti riconducibili a tutte quelle utilizzazioni dell’immobile che – se non illecitamente occupato – avrebbero potuto produrre reddito (quali la locazione o l’affitto, parzialmente o per intero), per la determinazione della cui apprezzabilità economica era stata anche disposta c.t.u. nel corso del giudizio di rinvio.

8. Ciò premesso, va osservato che questa Corte ha più volte sostenuto, sin da remoti precedenti, che il proprietario ha pieno diritto di usare e godere della cosa propria secondo la naturale destinazione della stessa, per cui qualsiasi intervento di terzi diretto a limitare tale uso e godimento costituisce turbativa del diritto di proprietà sul bene e legittima il proprietario a chiedere non solo la tutela in forma specifica, mediante cessazione di tale turbativa e ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, ma anche il risarcimento dei danni.

Sulla base di questo presupposto si è giunti spesso alla conclusione che il danno, in tale ipotesi, è in re ipsa (più correttamente dovrebbe sostenersi che la prova del danno è in re ipsa), in quanto automatica conseguenza della limitazione del godimento e della diminuzione temporanea del valore della proprietà, senza neppure che vi sia necessità di una specifica attività probatoria, salva concreta determinazione del danno stesso in sede di liquidazione, cui eventualmente procedere anche in via equitativa. In tal senso, l’azione risarcitoria sarebbe diretta a porre rimedio all’imposizione di una servitù di fatto, causa di un inevitabile perdita di valore del fondo che si produce per l’intero periodo di tempo anteriore all’eliminazione dell’abuso (cfr. indicativamente, di recente Cass., Sez. 2, n. 21501/2018; Cass., Sez. 2, 25475/2010; Cass., Sez. 2, 15238/2008, in fattispecie sovrapponibile a quella oggetto del presente giudizio; v., invece in epoca ben più risalente, Cass., Sez. 2, n. 2576/1974; Cass., Sez. 2, n. 299/1965; Cass., Sez. 2, n. 2007/1962).

A sostegno di un diverso orientamento vanno richiamate altre pronunce di questa Corte che, parallelamente all’analogo percorso seguito per i danni non patrimoniali, hanno negano l’astratta risarcibilità in re ipsa dei danni subiti dal proprietario per la perdita o la diminuzione della disponibilità del bene, affermando la necessaria correlazione della medesima risarcibilità al rapporto causale intercorrente tra “condotta materiale”, “evento lesivo” e “conseguenza dannosa”, sicché identiche risulterebbero le esigenze di prova – sia per l’an che per il quantum – del danno non patrimoniale o patrimoniale (cfr., ad esempio, Cass., Sez. 3, n. 13071/2018; Cass., Sez. 3, n. 31233/2018).

In realtà, anche nelle pronunce che hanno negato la configurabilità di un danno in re ipsa subito dal proprietario per l’indisponibilità della cosa, si è comunque riconosciuta all’interessato la facoltà di darne prova mediante ricorso a presunzioni semplici o al fatto notorio; conseguentemente gravando il medesimo dell’onere di indicare tutti gli elementi, le modalità e le circostanze della situazione, da cui, in presenza dei requisiti richiesti dagli artt. 2727 e 2729 c.c., possa desumersi l’esistenza e l’entità del concreto pregiudizio patrimoniale subito (v., da ultimo, Cass. Sez. 2, n. 39/2021).

9. Con riferimento ai riportati divergenti indirizzi giurisprudenziali è intervenuta la recente ordinanza interlocutoria della IIII Sezione civile di rimessione della relativa questione (qualificata come di massima di particolare importanza) alle Sezioni unite proprio al fine di pervenire all’adozione di una soluzione definitiva al riguardo.

In detta ordinanza si conferisce soprattutto rilievo – valorizzando, in particolare, la (già richiamata) sentenza della stessa III Sezione civile n. 13071/2018 – al fatto che nel caso di occupazione senza titolo di un immobile il danno subito dal proprietario non potrebbe ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giungerebbe ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto:

– sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (Cass., SU, sentenza n. 26972/2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato;

– sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (di cui a Cass. SU, sentenza n. 16601/2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost..

Da ciò, secondo l’orientamento maggiormente seguito dalla III Sezione civile (manifestatosi con pronunce della stessa anche successive alla citata sentenza n. 13071/2018, come Cass. n. 11203/2019 e Cass. n. 14268/2021, e, del resto, riscontrabile anche nella giurisprudenza relativa ad altre aree del danno patrimoniale e non patrimoniale), dovrebbe conseguire che il danno da occupazione sine titulo, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici; ma che un alleggerimento di tale natura dell’onere probatorio non potrebbe comunque includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto, dovendosi comunque escludere che il pregiudizio da occupazione abusiva possa assumere la connotazione di “danno punitivo”.

10. Orbene, sulla scorta del rilevato stato giurisprudenziale, questo collegio ritiene opportuno rimettere alle Sezioni unite anche la trattazione e decisione del ricorso di cui al presente procedimento, per l’esame congiunto con il procedimento iscritto al n. R.G n. 3930/19 (con riferimento al quale è stata adottata la richiamata ordinanza di rimessione n. 1162/2022 della III Sezione civile), onde sottoporre all’attenzione del massimo consesso nomofilattico l’ulteriore questione (anch’essa qualificabile come di massima di particolare importanza) – connessa e, per certi aspetti, propedeutica rispetto alle argomentazioni sviluppate nella citata ordinanza n. 1162/22 – se il danno patrimoniale da occupazione senza titolo debba qualificarsi, ai sensi dell’art. 1123 c.c., come “perdita” o come “mancato guadagno”; più precisamente, se la compressione della facoltà di godimento diretto del bene (da garantire fisiologicamente in modo “pieno ed esclusivo”) – che, insieme alla facoltà di disposizione del medesimo, costituisce il contenuto del diritto di proprietà fissato dall’art. 832 c.c. – debba considerarsi quale danno patrimoniale da risarcire ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2056.

Se tale prospettiva (che ha una diretta incidenza – per quanto precedentemente evidenziato – nella controversia cui si riferisce il ricorso della S.I.A.MED s.r.l.) fosse ritenuta condivisibile, infatti, la questione da risolvere si porrebbe a monte dell’alternativa concettuale indicata nell’ordinanza n. 1162/22 tra l’orientamento alla cui stregua “l’esistenza d’un danno risarcibile può ritenersi sussistente sulla base di una praesumptio hominis, superabile solo con la dimostrazione concreta che il proprietario, anche se non fosse stato spogliato, si sarebbe comunque disinteressato del suo immobile e non l’avrebbe in alcun modo utilizzato” (come evincibile dal paragrafo 8.4 di detta ordinanza, ove si richiama Cass. n. 39/21) e l’orientamento alla cui stregua il proprietario che agisce per il risarcimento del danno da occupazione senza titolo avrebbe l’onere di allegare “l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto” (come riportato al paragrafo 9 della stessa ordinanza, ove si richiama, con altre, Cass. 13071/18).

Entrambi tali orientamenti, in effetti, sembrano muovere dall’implicito presupposto che il danno risarcibile (il danno-conseguenza derivato dal fatto dannoso dell’occupazione) consista nel danno da mancato guadagno, ossia il lucro cessante conseguente alla impossibilità di impiegare il bene secondo la sua vocazione fruttifera (in Cass. n. 13071/18 si parla di “mettere l’immobile a frutto” e in Cass. n. 39/21 si discorre di “bene normalmente fruttifero”).

Si osserva, però, che – nella prospettiva del risarcimento del danno (patrimoniale) da perdita di godimento diretto – il riferimento alla naturale vocazione fruttifera del bene risulterebbe priva di rilevanza, giacché il danno-conseguenza, ossia il pregiudizio derivante dal fatto dannoso costituito dall’occupazione, sarebbe non l’impedimento a ritrarre dal bene occupato i frutti (civili o naturali) che esso può generare, ma l’impedimento a ricavare dal bene occupato l’utilità diretta (il godimento, secondo il linguaggio dell’art. 832 c.c.) che il medesimo offre; e tale impedimento non dovrebbe richiedere alcuna prova diversa ed ulteriore rispetto alla prova del fatto generatore del danno, potendo il godimento diretto esaurirsi anche in una fruizione meramente saltuaria o occasionale o anche nella utilitas derivante dalla mera potenzialità di una fruizione; invero, anche una fruizione in potenza, che non si traduca in una fruizione in atto, sarebbe idonea a costituire una posta attiva del patrimonio del proprietario.

In altri termini, il valore di utilizzazione diretta o indiretta di un bene – ossia il valore d’uso che si può ritrarre dal suo godimento diretto, o il valore di scambio che si può ricavare dalla cessione di tale godimento a terzi – costituisce di per sé un valore patrimoniale, ossia un valore attivo del patrimonio di chi dispone (rectius: ha il diritto di disporre) del bene; nessuno ha mai dubitato, del resto, che la titolarità attiva di un rapporto personale o reale di godimento costituisca una componente economicamente valutabile del patrimonio del titolare. In sintonia con questa premessa risulta consequenziale affermare che la privazione, anche temporanea, della disponibilità di un bene rappresenta di per se stessa una lesione patrimoniale, ossia un danno (qualificabile come danno emergente, o perdita subita dal creditore, per usare l’espressione dell’art. 1223 c.c.), del titolare del bene stesso.

La quantificazione di tale danno potrà essere più o meno difficile ma ad essa si potrà eventualmente giungere con valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.. Ma non sembrerebbero esserci ragioni per negare la risarcibilità della perdita della disponibilità temporanea del bene nei casi in cui non sia provato in qual modo il suo titolare avrebbe usato di tale disponibilità.

A quest’ultimo riguardo va, infatti, evidenziato che, secondo nozioni di comune esperienza, il valore patrimoniale di un immobile libero è più alto del valore patrimoniale di un immobile occupato, ragion per cui l’occupazione di un immobile causa ex se, una deminutio patrimonii del proprietario, indipendentemente dalla circostanza se, in concreto, tale immobile venga o non venga offerto in vendita o venduto.

Nella prospettiva che qui si delinea, in sostanza, il fatto generatore del danno (l’occupazione del fondo) e il danno conseguenza (l’impedimento al godimento del fondo) restano fatti concettualmente diversi; ma la prova del secondo si esaurisce in quella del primo (il fondamento dell’an è comune ad entrambe le forme di danno, quella da perdita e quella da mancato guadagno); cosicché, quanto al danno “da perdita”, potrebbe discorrersi di danno in re ipsa (o, meglio, di prova del danno in re ipsa), rispetto al quale il riferimento al valore commerciale del godimento del bene (c.d. valore locativo) rappresenta una mera tecnica, tra le varie possibili, di una liquidazione equitativa.

Da ciò consegue che il proprietario che agisca per il risarcimento del danno da occupazione senza titolo, ove chieda il risarcimento di un concreto danno da mancato guadagno, deve – oltre ad allegarlo – offrire la prova specifica delle occasioni di guadagno perse; ma, ove si limiti a chiedere il risarcimento del danno da perdita di godimento del bene, potrebbe ritenersi che sia sufficiente allegare e provare solo la durata dell’occupazione, competendo poi al giudice la liquidazione equitativa di tale danno secondo criteri adeguati alla peculiarità della fattispecie, tra i quali non sembrerebbe irragionevole includere l’ancoraggio al valore locativo di mercato.

11. Alla stregua delle complessive argomentazioni esposte, ritiene, quindi, il collegio di sottoporre all’esame delle Sezioni unite anche l’ulteriore questione (involta dal secondo e terzo motivo proposti dalla S.I.A.MED s.r.l. e connessa a quella sollevata dalla III Sezione civile con la più volte richiamata ordinanza n. 1162/2022) – da considerarsi di massima di particolare importanza – sul se, in caso di occupazione senza titolo di immobile (fatto illecito rimasto accertato nel caso sottoposto con il ricorso in trattazione per effetto dell’accoglimento, con sentenza passata in giudicato, dell’azione di rivendicazione proposta dalla ricorrente), la prova del danno emergente consistente nella deminutio patrimonii derivante dalla perdita della facoltà di godimento del bene per la durata dell’occupazione senza titolo debba considerarsi sussistente in re ipsa, con sua conseguente liquidabilità in via equitativa (ove non diversamente possibile), ai sensi dell’art. 1226 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c..

Nella prospettiva sopra delineata resterebbe ferma, ovviamente, la possibilità, per il danneggiato, di proporre, alternativamente alla domanda di risarcimento del danno “da perdita”, la domanda di risarcimento del danno da “mancato guadagno”, soggetta alla necessità dell’assolvimento dei relativi oneri di allegazione e di prova. Con l’ulteriore precisazione che non vi è ragione di escludere che, una volta soddisfatto adeguatamente l’onere dell’allegazione del mancato guadagno, l’onere della relativa prova possa essere assolto, secondo le regole generali, anche mediante ricorso a presunzioni semplici o al fatto notorio, sulla base di tutti gli elementi, le modalità e le circostanze della situazione, da cui, in presenza dei requisiti richiesti dagli artt. 2727 e 2729 c.c., possa desumersene l’esistenza e l’entità.

P.Q.M.

La Corte trasmette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale rimessione della indicata questione di massima di particolare importanza alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, a seguito di riconvocazione della Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 25 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2022

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