Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.25028 del 08/10/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24066-2017 proposto da:

T.D., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DI PIETRA 26, presso lo studio dell’avvocato DANIELA JOUVENAL, rappresentata e difesa dall’avvocato MICHELE SABATINO;

– ricorrente –

contro

ETNALAND SRL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 432/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 14/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/03/2019 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità in subordine rigetto del gravame;

udito l’Avvocato MICHELE SABOTINO.

FATTI DI CAUSA

Con citazione 2-8-2010 T.D. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Catania la Etnaland srl per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti a seguito del sinistro verificatosi il *****, all’interno del parco acquatico in ***** gestito dalla convenuta, allorquando, mentre usufruiva di un acquascivolo, aveva riportato la frattura esposta della caviglia destra.

Con sentenza 4779/2016 del 24-9-2016 l’adito Tribunale rigettò la domanda.

Con sentenza 432 del 14-3-2017 la Corte d’Appello di Catania ha rigettato il gravame della T..

In particolare la Corte territoriale ha, in primo luogo, ritenuta inammissibile ex art. 345 c.p.c., in quanto formulata solo con l’atto di gravame, la deduzione dell’appellante volta a ricondurre la responsabilità della Etnaland al dovere del gestore dell’impianto di “evitare il contatto tra utenti, distanziando gli scivoli”; al riguardo ha infatti evidenziato che l’attrice nell’atto introduttivo aveva sostenuto che le lesioni, subite nel tragitto tra il punto di partenza e l’arrivo in piscina, erano dovute ad un malfunzionamento o alla pericolosità dello scivolo, che avrebbe determinato un anomalo attrito tra il suo corpo e la struttura; l’attrice aveva anche soggiunto che, in ogni modo, anche nell’astratta (e non verificatasi) ipotesi che l’infortunio fosse stato causato dallo scontro con altro utente, la responsabilità sarebbe stata comunque del gestore dell’impianto, che “avrebbe dovuto predisporre una organizzazione idonea a sgomberare la vasca di arrivo prima della partenza degli altri utenti, o comunque qualsiasi tipo di contatto tra gli utenti dello scivolo”; non era stato, quindi, fatto alcun cenno al dovere “di evitare il contatto tra utenti, distanziando gli scivoli”, poi invece dedotto in grado di appello.

La Corte, poi, ha precisato che la questione afferente le carenze organizzative della Etnaland non era stata riproposta in appello, essendo rimasto accertato con efficacia di giudicato che il personale aveva precisamente indicato alla T. la posizione da tenere onde evitare incidenti (braccia e gambe incrociate e posizione supina), sicchè doveva ritenersi adempiuto il dovere del gestore di segnalare il pericolo connesso all’uso improprio della cosa da parte dell’utente.

Ciò posto, la Corte ha ritenuto non provato il dedotto malfunzionamento della struttura, ed ha, invece, ritenuto accertato, in base alle dichiarazioni rese dalla stessa T. nell’immediatezza del fatto nonchè alle deposizioni dei testi R.G. (marito della T.) e Ra.Ad., che l’attrice si era procurato le lesioni a causa dello scontro con altro utente (lo stesso Ra.Ad.); scontro dovuto ad una invasione di corsia o da parte della T. o da parte del Ra..

La Corte, quindi, valutato che (come affermato anche dal primo Giudice) la gestione di un parco acquatico non costituisce attività pericolosa “in re ipsa”, sicchè la fattispecie in esame andava ricompresa nell’ambito dell’art. 2051 c.c. (responsabilità da cosa in custodia) e non dell’art. 2050 c.c., ha accertato, per un verso, che il gestore aveva adempiuto i suoi obblighi ponendo in essere la corretta sorveglianza; dall’altro, ha ritenuto che o il fatto della T. (che era entrata in posizione scorretta o che aveva invaso lo scivolo ove si trovava l’altro utente, cambiando la posizione suggerita dal personale) o il fatto dell’altro utente (che aveva invaso lo scivolo ove si trovava la T.) costituissero caso fortuito, idoneo a recidere il nesso di causalità tra la cosa e l’evento, “trattandosi di utilizzazione anomala o impropria della cosa, dipendendo il buon esito della discesa proprio dalla correttezza della posizione assunta”.

Avverso detta sentenza T.D. propone ricorso per Cassazione, affidato a nove motivi.

Etnaland srl non ha svolto attività difensiva in questa sede.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2050 e 2051 c.c., si duole che la Corte territoriale, nell’escludere la natura pericolosa dell’attività in questione, non abbia valutato la natura dei mezzi utilizzati, che erano invece pericolosi.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2050 e 2051 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto come deduzione nuova, implicante la introduzione di un nuovo tema di indagine, il rilievo (sollevato dalla danneggiata ricorrente) del mancato rispetto dell’obbligo del gestore di evitare il contatto tra utenti distanziando gli scivoli; tanto a prescindere dalla sussunzione della vicenda nell’ambito dell’art. 2050 c.c. o dell’art. 2051 c.c.; in particolare, infatti, nell’ipotesi di cui all’art. 2051 c.c. il custode, per liberarsi da responsabilità, deve allegare e provare un evento estraneo alla cosa avente le caratteristiche dell’imprevedibile ed inevitabile; nella specie la Corte aveva omesso ogni valutazione circa l’eccezionalità, imprevedibilità ed inevitabilità dello scontro, pervenendo solo apoditticamente all’accertamento della sussistenza del fortuito.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione dell’art. 345 c.p.c. nonchè – ex art. 360 c.p.c., n. 4 – omessa pronuncia su una domanda ex art. 112 c.p.c., si duole che la Corte territoriale, nel ritenere nuovo il rilievo di cui sopra, abbia completamente omesso di valutare il comportamento del gestore e la sua responsabilità per non avere evitato lo scontro tra gli utenti durante la discesa; responsabilità che la Corte avrebbe dovuto accertare indipendentemente da ogni domanda e deduzione delle parti.

Con il quarto motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame di fatti decisivi che hanno formato oggetto di discussione, si duole, in primo luogo, che la Corte territoriale non abbia tenuto conto della dichiarazione del teste Re.Gi., che aveva riferito che nel corso degli anni altre persone, usando acquascivolo, avevano riportato danni; circostanza decisiva al fine di valutare la pericolosità dell’attività; in secondo luogo, che la Corte territoriale non si sia pronunciata sulla richiesta di CTU sulla dinamica del sinistro.

Con il quinto motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 2697 c.c., art. 111 Cost., comma 4, si duole che la Corte territoriale abbia posto a fondamento della decisione solo la dichiarazione del teste Ra.Ad., e non invece quelle dei testi Re.Gi., Antonio e R.G., così giungendo alla conclusione della sussistenza del caso fortuito sulla base di una motivazione per omprensibile.

Con il sesto motivo la ricorrente, denunziando -ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2730,2731 e 2735 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 nonchè “omesso esame”, si duole che la Corte abbia travisato la dichiarazione resa in infermeria dalla stessa T., non avendo quest’ultima dedotto di avere assunto alla partenza una posizione scorretta, ma di essere entrata in acqua in posizione scorretta.

Con il settimo motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 – violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c., “omesso esame, nullità della sentenza”, sostiene che la Corte territoriale erroneamente abbia ritenuto non riproposte le questioni concernenti carenze organizzative, con conseguente giudicato sul punto.

Con l’ottavo motivo la ricorrente, denunziando -ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – violazione e falsa applicazione degli artt. 100,105,116 e 245 c.p.c., si duole che la Corte territoriale abbia rigettato la sollevata eccezione di incapacità a testimoniare del teste Ra.Ad. sol sulla base che lo stesso non avesse riportato in concreto alcun danno risarcibile, senza invece considerare che il Ra. in teoria poteva essere chiamato in causa come convenuto dalla T. o in rivalsa da Etnaland, e vi era quindi la generica possibilità della sua partecipazione al giudizio.

Con il nono motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 4 – nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, si duole che la Corte, nel motivare su alcune questioni si sia riferita a tutta una serie di circostanze prive di un unitario collegamento, sì da rendere impossibile ricostruire l’esatto e compiuto ragionamento seguito; in particolare, sostiene che non sia comprensibile: perchè la fattispecie sia stata sussunta nell’ambito dell’art. 2050 c.c.; perchè non siano state valutate le testimonianze di Re.Gi., R.A. e G. e non sia stata ritenuta insufficiente quella di Ra.Ad.; perchè la collisione è stata ritenuto un evento non prevedibile e non evitabile; come si è giunti alla responsabilità della T. o del Ra..

I motivi, da valutare congiuntamente in quanto tra loro connessi, sono inammissibili.

Va, in primo luogo, ribadito che, come più volte precisato da questa S.C., in tema di responsabilità del custode, la ricorrenza in concreto degli estremi del caso fortuito costituisce il risultato di un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in cassazione se non nei ristretti limiti del vizio motivazionale di cui alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (v., da ultimo, Cass. 10714/2017).

Nella specie, come sopra illustrato, la Corte territoriale ha accertato, con apprezzamento in fatto alla stessa riservato, che il comportamento della T. stessa, che era entrata in posizione scorretta o che aveva invaso lo scivolo ove si trovava l’altro utente (cambiando la posizione suggerita dal personale), o comunque il comportamento di altro utente, che aveva invaso lo scivolo ove si trovava la T., costituisse caso fortuito, idoneo a recidere il nesso di causalità tra la cosa e l’evento, “trattandosi di utilizzazione anomala o impropria della cosa, dipendendo il buon esito della discesa proprio dalla correttezza della posizione assunta”.

Tanto appare, in primo luogo, in linea con i principi di recente sintetizzati al riguardo da questa c.c. (v. Cass. 2480/2018; Cass. 2482/2018 e Cass.2478/2018), che ha, infatti, puntualizzato: che tutto ciò che non è prevedibile oggettivamente, ovvero tutto ciò che rappresenta un’eccezione alla normale sequenza causale (imprevedibilità quindi intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento), integra il caso fortuito, quale fattore estraneo alla sequenza originaria, avente idoneità causale assorbente e tale da interrompere il nesso con quella precedente; che il caso fortuito può essere; integrato dalla stessa condotta del danneggiato (che abbia usato un bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) quando essa si sovrapponga alla cosa al punto da farla recedere a mera “occasione” della vicenda produttiva di danno, assumendo efficacia causale autonoma e sufficiente per la determinazione dell’evento lesivo, così da escludere qualunque rilevanza alla situazione preesistente; che è vero che il riconoscimento della natura oggettiva del criterio di imputazione della responsabilità da cose in custodia si fonda sul dovere di precauzione imposto al titolare della signoria sulla cosa custodita, in funzione di prevenzione dei danni che da essa possono derivare; è, tuttavia, altrettanto vero che l’imposizione di un dovere di cautela in capo a chi entri in contatto con la cosa risponde a un principio di solidarietà (ex art. 2 Cost.), che comporta la necessità di adottare condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per i terzi, in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile; ne consegue che, quando il comportamento del danneggiato sia apprezzabile come ragionevolmente incauto, lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa o dal comportamento della stessa vittima o se vi sia concorso causale tra i due fattori costituisce valutazione (squisitamente di merito), che va compiuta sul piano del nesso eziologico ma che comunque sottende sempre un bilanciamento fra i detti doveri di precauzione e cautela; quando manchi l’intrinseca pericolosità della cosa e le esatte condizioni di queste siano percepibili in quanto tali, ove la situazione comunque ingeneratasi sia superabile mediante l’adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, va allora escluso che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell’evento, e ritenuto integrato il caso fortuito.

Nè, in secondo luogo, può ritenersi sussistente nella specie alcun vizio motivazionale.

I denunciati vizi al riguardo sono infatti tutti inammissibili, in quanto si risolvono in una critica alla valutazione delle prove operata dal giudice di merito, che ha solo attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difforme dalle aspettative e dalle deduzioni di parte. Come già precisato da questa S.C., invero, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione; siffatta censura, in particolare, non è inquadrabile nè nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario (fatto storico da intendere quale preciso accadimento o precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni”), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che -per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, attenendo all’esistenza della motivazione in sè, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; c.d. riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; (Cass. 11892/2016; v. anche Cass. sez. unite 8053/2014); anomalia motivazionale non sussistente nel caso di specie, ove la Corte, proprio sulla base dell’operata valutazione del materiale probatorio, e quindi non in maniera apodittica, ha (come detto) evidenziato l’utilizzazione impropria della cosa da parte della stessa danneggiata o di altro utente.

Va inoltre rilevato che, come già chiarito da questa S.C., in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, spettando in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge; di conseguenza, I denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del meritò non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012" (Cass. 23940/2017; conf. 2434/2016; v. anche Cass. 2700/2016, secondo cui “in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione”.

Siffatti considerazioni, ed in particolare l’interruzione del nesso causale tra la cosa e il danno riportato (per l’affermata sussistenza del caso fortuito), rende irrilevante la censura in ordine alla sussunzione della fattispecie in esame nel paradigma dell’art. 2051 c.c. (anzichè in quello dell’art. 2050 c.c.), posto che anche nell’ipotesi di esercizio di attività pericolosa è necessario comunque accertare la sussistenza del nesso causale (escluso invece -come detto- in virtù del fortuito, nella specie).

Siffatta doglianza è comunque inammissibile.

Come già chiarito da questa S.C., invero, ai fini dell’accertamento della sussistenza della responsabilità ex art. 2050 c.c., il giudizio sulla pericolosità dell’attività svolta (quando la stessa non sia stata espressamente qualificata come tale da una disposizione di legge), ossia l’apprezzamento della stessa come attività che, per sua natura, o per i mezzi impiegati, rende probabile, e non semplicemente possibile, il verificarsi dell’evento dannoso dr essa causato, distinguendosi, così, dall’attività normalmente innocua, che diventa pericolosa per la condotta di chi la eserciti od organizzi, comportando la responsabilità secondo la regola generale di cui all’art. 2043 c.c., è rimesso alla valutazione del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, se non nei ristretti limiti del vizio motivazionale di cui alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non specificamente invocato nella specie (in ordine al quale, comunque, valgono le considerazioni su riportate con riferimento al vizio motivazionale); l’accertamento in concreto se una certa attività, possa o meno essere considerata tale ai sensi dell’art. 2050 c.c. implica infatti un accertamento di fatto, rimesso in via esclusiva al giudice del merito, rispetto al quale peraltro l’onere di provare la sussistenza di un’attività pericolosa incombe su chi invoca l’applicazione dell’art. 2050 c.c. (in senso conforme v., tra le altre, Cass. 10268/2015; Cass. 18903/2017).

L’attività, quindi, può essere ritenuta pericolosa o per la sua natura o per i mezzi adoperati, sicchè il motivo, che si limita a sostenere, in modo peraltro assolutamente generico, la pericolosità dell’attività in questione per la pericolosità dei mezzi adoperati, è (come detto), anche per questa ragione, inammissibile.

In conclusione, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, non avendo parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, poichè il ricorso è stato presentato successivamente al 30-1-2013 ed è stato dichiarato inammissibile, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis del cit. art. 13.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 8 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2019

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