LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27787/2016 proposto da:
AZIENDA SOCIOSANITARIA TERRITORIALE LARIANA, in persona del Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore Dott. O.M.
Commissario Liquidatore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 32, presso lo studio dell’avvocato LIDIA SGOTTO CIABATTINI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati BASSANO BARONI, LUCA DOMENICO DE CENSI;
– ricorrente –
contro
M.E., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO GIUSEPPE TONIOLO 6, presso lo studio dell’avvocato UMBERTO MORERA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO MURVANA;
M.E., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO GIUSEPPE TONIOLO 6, presso lo studio dell’avvocato UMBERTO MORERA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO MURVANA;
AZIENDA SOCIOSANITARIA TERRITORIALE LARIANA, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 32, presso lo studio dell’avvocato LIDIA SGOTTO CIABATTINI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUCA DOMENICO DE CENSI, BASSANO BARONI;
MO.PI., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato RENATO MANTOVANI;
CATTOLICA DI ASSICURAZIONE COOP. A R.L., in persona del procuratore Dott. BE.AL., quale avente causa di DUOMO UNIONE ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE, 38, presso lo studio dell’avvocato PIERFILIPPO COLETTI, che la rappresenta e difende;
– controricorrenti –
e contro
D.F., D.A., B.A., GENERALI ITALIA SPA *****, ASSICURAZIONI GENERALI SPA, MILANO ASSICURAZIONI SPA, ZURICH INSURANCE COMPANY SA, INA ASSITALIA SPA ASSICURAZIONI GENERALI SPA, INA ASSITALIA, TORO ASSICURAZIONI;
– intimati –
nonchè da:
D.A., D.F., domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ANGELO SALA;
– ricorrenti incidentali –
contro
AZIENDA SOCIOSANITARIA TERRITORIALE LARIANA, M.E., MO.PI., B.A., GENERALI ITALIA SPA *****, ZURICH INSURANCE COMPANY SA, ASSICURAZIONI GENERALI SPA, ASSICURAZIONI GENERALI SPA, MILANO ASSICURAZIONI SPA, DUOMO UNI ONE ASSICURAZIONI SPA;
– intimati –
nonchè da:
GENERALI ITALIA SPA, ***** in persona dei Procuratori speciali Dott. C.P. e Dott. P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARCO VINCENTI, rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA ORLANDOMI;
– ricorrente incidentale –
contro
TORO ASSICURAZIONI, ZURICH INSURANCE COMPANY SA, MILANO ASSICURAZIONI SPA, DUOMO UNIONE ASSICURAZIONI, MO.PI., D.F., D.A., AZIENDA SOCIOSANITARIA TERRITORIALE LARIANA, B.A., M.E.;
– intimati –
nonchè da:
GENERALI ITALIA SPA, ***** in persona dei Procuratori speciali Dott. C.P. e Dott. P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARCO VINCENTI, rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA ORLANDONI;
– ricorrenti incidentali –
contro
TORO ASSICURAZIONI, ZURICH INSURANCE COMPANY SA, B.A., MILANO ASSICURAZIONI SPA, DUOMO UNIONE ASSICURAZIONI, MO.PI., AZIENDA SOCIOSANITARIA TERRITORIALE LARIANA, D.F., D.A., M.E.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1639/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 27/04/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto di tutti i motivi del ricorso principale tranne il 5 che è accolto. Rigetto ricorso dei ricorsi incidentali di Generali;
udito l’Avvocato LUCA DOMENICO DE CENSI;
udito l’Avvocato FRANCESCO MURVANA;
udito l’Avvocato ANGELO SALA;
udito l’Avvocato PIERFILIPPO COLETTI;
udito l’Avvocato ROBERTO OTTI per delega.
FATTI DI CAUSA
1. L’esposizione dei fatti di causa sarà limitata a quelli che sono ancora rilevanti in questa sede.
2. Il ***** A.D. diede alla luce due gemelli, M.L. e D., nell’ospedale *****, all’epoca dei fatti presidio della USSL ***** di Cantù.
A novembre dell’anno successivo, in una diversa struttura ospedaliera, venne certificato che i due neonati erano affetti da “tetraparesi spastica conseguente a grave sofferenza neonatale”.
3. Quindici anni dopo i fatti (nel *****) i coniugi M.E. e A.D. (i quali dichiararono di agire sia per sè, sia in rappresentanza dei due figli minori M.L. e D.), unitamente ad Ma.Em., convennero dinanzi al Tribunale di Como la ULSS ***** di Cantù ed i dottori S.S., D.G. ed B.A. (rispettivamente pediatra, ginecologo e primario di ostetricia nell’ospedale “*****”), assumendo che la tetraparesi patita dai propri figli fosse ascrivibile a responsabilità dei sanitari dell’ospedale di *****.
Dedussero che i sanitari non avrebbero dovuto consentire che il parto, il quale si presentava rischioso, avvenisse in una struttura priva del reparto di rianimazione neonatale; e che comunque i sanitari di ***** avevano prestato una insufficiente e tardiva assistenza ai neonati al momento della nascita.
4. Tutti i convenuti, ad eccezione di S.S., chiamarono in causa i rispettivi assicuratori della responsabilità civile al fine di essere manlevati in caso di soccombenza.
In particolare, la USSL ***** chiamò in causa le società Milano, Duomo, Zurigo ed INA; B.A. chiamò in causa la società Generali; D.G. chiamò in causa sia la società Generali, sia un quarto medico, Mo.Pi., assumendo che anche questi dovesse ritenersi corresponsabile nella causazione dell’evento dannoso.
Mo.Pi., a sua volta, si costituì e chiamò in causa il proprio assicuratore della responsabilità civile, la Lloyd Italico (che in seguito muterà ragione sociale in Toro Assicurazioni).
5. Al giudizio introdotto dai coniugi M. – A. ne vennero riuniti altri due: uno proposto dalla USSL ***** nei confronti dei propri assicuratori (come detto, le società Milano, Duomo, Zurigo ed INA); l’altro introdotto da B.A. nei confronti del proprio assicuratore (la società Generali).
6. Il Tribunale di Como con sentenza non definitiva 15.10.2009 n. 1430:
-) ritenne prescritto il diritto al risarcimento del danno azionato dai coniugi M. – A. in proprio;
-) rigettò l’eccezione di prescrizione con riferimento al credito azionato dai germani M.L. e D..
Quindi, con sentenza definitiva 17.12.2012 n. 1587, il Tribunale di Como:
-) accolse la domanda nei confronti della USSL, di D.G. e di B.A.;
-) accolse le domande di garanzia formulate dai tre soccombenti nei confronti dei rispettivi assicuratori.
7. Il Tribunale ritenne che:
-) la tetraparesi sofferta dai germani M. fu causata da una condotta colposa dei sanitari. Ravvisò quest’ultima tanto in un deficit di assistenza nei primi 75 minuti di vita dei due neonati, quanto nel non avere efficacemente contrastato una ipocapnia manifestatasi nei primi giorni di vita (che il Tribunale, però, ritenne dovuta all’operato di sanitari diversi da quelli dell’ospedale di *****);
-) la condotta dei sanitari dell’ospedale di ***** fu colposa, e la colpa consistette principalmente nell’avere accettato di ricoverare in una struttura inadeguata una gestante che lasciava presumere il rischio di un parto distocico.
8. La sentenza venne appellata, in via principale od incidentale, da tutte le parti tranne S.S. e Mo.Pi. (risultati totalmente vittoriosi all’esito del primo grado).
I vari appelli, complessivamente considerati, sottoposero alla Corte d’appello quattro temi:
-) se il diritto di M.L. e D. fosse prescritto;
-) se vi fosse nesso di causa tra l’operato dei sanitari e la tetraplegia;
-) se vi fosse stata colpa dei sanitari;
-) limitatamente al rapporto di garanzia tra la società Generali ed i suoi due assicurati ( B.A. e D.G.), quale fosse la misura dell’obbligo indennitario dell’assicuratore.
9. La Corte d’appello di Milano con sentenza 27.4.2016 n. 1639 accolse parzialmente i soli gravami proposti da M.E., nella veste di rappresentante di M.L. e D. e dalla società Generali s.p.a., nella veste di assicuratore sia di B.A., sia di D.G..
Per quanto attiene l’accertamento della colpa dei sanitari, la Corte d’appello ritenne che:
-) medici ed ospedale dovessero rispondere a titolo contrattuale nei confronti dei neonati; di conseguenza il diritto di credito di questi ultimi era soggetto a prescrizione decennale;
-) tale termine iniziò a decorre dal 28 novembre 2002, ovvero da quando i genitori vennero ufficialmente informati che i loro figli erano affetti da tetraparesi “conseguente a sofferenza neonatale”; ciò sul presupposto che, prima di tale diagnosi, i genitori non potessero sapere, alla stregua dell’ordinaria diligenza da essi esigibile, se la tetraparesi fosse dovuta ad errore dei sanitari o ad altre cause;
-) D.G. e B.A. tennero una condotta colposa, consistita nel trattenere la gestante nell’ospedale di *****, nonostante questo non fosse attrezzato per gestire eventuali complicanze richiedenti rianimazione neonatale;
-) l’ospedale era responsabile (anche) per l’insufficiente monitoraggio del battito cardiaco fetale, che aveva “ristretto le opzioni disponibili (taglio cesareo)”;
-) D.G. doveva ritenersi responsabile, pur non avendo “partecipato al ricovero”, sia perchè conosceva le condizioni di rischio della gestante, per essere suo ginecologo di fiducia; sia comunque per avere partecipato al travaglio ed al parto;
-) in ogni caso i gemelli non ricevettero adeguata assistenza rianimatoria per 75 minuti dopo la nascita;
-) infine, ritenne la Corte d’appello che all’epoca dei fatti erano già note e diffuse le linee-guida che imponevano, in casi come quello di specie, il trasferimento della gestante in strutture attrezzate per la rianimazione neonatale.
10. Per quanto riguarda l’accertamento del nesso causale, la Corte d’appello ritenne che:
-) la condotta dei sanitari dell’ospedale di ***** fu la causa preponderante del danno;
-) non vi era prova che il danno fosse stato causato o concausato dalla prematurità del parto od altre cause naturali; anzi tale circostanza rendeva più stringente l’obbligo di assistenza respiratoria perinatale, che invece mancò;
-) in ogni caso il concorso dei fatto umano e di cause naturali non attenua, nè consente di frazionare, il nesso di causa e quindi la responsabilità.
11. Sul piano del rapporto assicurativo, infine, la Corte d’appello ridusse nel quantum la condanna inflitta in primo grado alla società Generali, assicuratore tanto di D.G., quanto di B.A..
In particolare la Corte d’appello ha articolato un sillogismo così riassumibile:
-) l’obbligazione dell’assicuratore della responsabilità civile ha natura di obbligazione di valuta;
-) l’assicuratore è in mora, nei confronti del proprio assicurato, dal momento in cui, con l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto stimare il danno causato dall’assicurato al terzo, e liquidare il relativo indennizzo;
-) nel caso di specie, l’assicuratore era in grado di compiere tali operazioni dal 90 giorno successivo alla denuncia di sinistro, e dunque dal 1.11.2002, perchè a tale data era certamente in grado di avvedersi dell’esuberanza del danno causato dall’assicurato rispetto al limite del massimale.
Di conseguenza ha condannato l’assicuratore a tenere indenne i due assicurati ( D.G. e B.A. e per essi gli eredi) in misura eccedente il massimale: ma non già (come aveva ritenuto il Tribunale) rivalutando quest’ultimo dalla data del fatto (1991); ma soltanto dal 1 novembre 2002, ovvero, come già detto, dalla data in cui l’assicuratore era in grado, con l’ordinaria diligenza, di stimare il danno causato dall’atto compiuto dall’assicurato.
La Corte d’appello, infine, ha accordato sul massimale come sopra rivalutato gli interessi legali dalla data della domanda.
12. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione:
-) in via principale dalla Gestione Liquidatoria della ASL n. ***** di Como (succeditrice della USSL n. ***** di Cantù; d’ora innanzi, per brevità, “la Gestione”), con ricorso fondato su cinque motivi (contenenti tuttavia, come si dirà, plurime censure);
-) in via incidentale dagli eredi di D.G. ( D.F. ed D.A.), con ricorso fondato su due motivi;
-) ancora in via incidentale, dalla Generali Italia (che ha notificato due separati controricorsi con pedissequo ricorso incidentale: l’uno nella veste di assicuratore di B.A.; l’altro nella veste di assicuratore di D.G.), con impugnazione fondata su tre motivi.
13. I germani M. hanno notificato due distinti controricorsi, uno per resistere all’impugnazione principale, l’altro per resistere alle impugnazioni incidentali.
14. La Gestione ha depositato controricorso con il quale, oltre a dichiarare di condividere le censure contenute nel ricorso incidentale proposto dalla Generali e dagli eredi D., ha altresì inteso replicare ai controricorrenti (non impugnanti) Mo.Pi., M.L. e M.D.).
La società Cattolica (succeditrice della società Duomo) ha depositato controricorso dichiarando di rimettersi alla decisione della Corte.
Mo.Pi. ha depositato controricorso, coi qua e ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso principale.
15. La causa, già fissata e discussa alla pubblica udienza del 6 luglio 2018, con ordinanza interlocutoria 5.3.2019 n. 6418 è stata rinviata a nuovo ruolo, affinchè le questioni di diritto sollevate dal ricorso principale e da quelli incidentali, per il loro rilievo nomofilattico, fossero trattate in una udienza ad hoc, unitamente alle analoghe questioni poste da ricorsi consimili.
La causa è stata quindi fissata, discussa e riservata in decisione alla pubblica udienza del 2 luglio 2019.
16. Sia prima dell’udienza del 5 marzo 2018, sia prima di quella del 2 luglio 2019, sono state depositate memorie ex art. 378 c.p.c., dalla ricorrente principale, dal ricorrente incidentale D.F. (il quale nella seconda memoria ha dichiarato che l’altro ricorrente incidentale, D.A., è deceduto nelle more del giudizio); e dai controricorrenti Società Cattolica, M.L. e M.D..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Questioni preliminari.
1.1. La sentenza d’appello è stata pronunciata nei confronti della “Gestione Liquidatoria della ASL n. ***** corrente in Como” (così la sentenza d’appello, p. 3).
Il ricorso principale risulta proposto da una Amministrazione che si è così qualificata: “Azienda Sociosanitaria Territoriale Lariana, succeduta (…) all’Azienda Ospedaliera Ospedale di Como, cui è stata affidata la Gestione Liquidatoria della ASL n. ***** di Cantù, già USSL n. ***** (…), in persona del Direttore generale (…) che riveste anche la carica di Commissario Liquidatore della predetta disciolta USSL”.
Nella procura alle liti apposta in calce al ricorso, invece, si legge che il mandato difensivo è stato conferito dal Dott. O.M. “in qualità di Direttore Generale della Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Lariana (…) e quale Commissario Liquidatore in carica della disciolta USSL n. ***** di Cantù”.
1.2. Le formule utilizzate dall’amministrazione ricorrente e sopra trascritte appaiono imprecise ed ambigue. In particolare:
-) nell’epigrafe del ricorso si afferma che questo è proposto dalla AAST; nella procura invece si legge che questa è conferita dal Dott. O.M. “quale Commissario Liquidatore” della USSL n. ***** di Cantù;
-) nell’epigrafe del ricorso si fa riferimento alla disciolta “ASL” di Cantù, nella procura si fa riferimento alla disciolta “USSL” di Cantù.
E’ necessario dunque preliminarmente stabilire se il ricorso sia stato proposto da un soggetto munito della legitimatio ad causam.
1.3. Rileva il Collegio, in virtù del principio jura novit curia, che la USSL n. ***** di Cantù, gestore dell’ospedale di ***** all’epoca dei fatti oggetto del presente giudizio (1991), venne accorpata ad altre due USSL (la n. ***** e la n. *****) ed assunse la denominazione di “USSL n. ***** di Cantù – Ambito Territoriale n. 6” per effetto dell’art. 1 e della correlata Tabella “A” di cui alla L.R. Lombardia 15 settembre 1993, n. 28.
La USSL n. ***** di Cantù, a sua volta, venne trasformata in “ASL della Provincia di Como” per effetto della L.R. Lombardia 11 luglio 1997, n. 31, art. 2.
Infine, la L.R. Lombardia 11 agosto 2015, n. 23 (come modificata, per quanto qui interessa, dalla L.R. Lombardia 22 dicembre 2015, n. 41, art. 3, comma 1, lett. d) ed e)) ha soppresso le ULSS e costituito le “Agenzie Territoriali per la Salute – AST” e le “Aziende Socio-Sanitarie Territoriali – ASST”, attribuendo ai direttori generali delle ASST la funzione di commissari liquidatori “delle gestioni liquidatorie delle aziende USSL istituite ai sensi della L.R. 15 settembre 1993, n. 28 (…) e venute a cessare ai sensi della L.R. 11 luglio 1997, n. 31” (L.R. Lombardia n. 23 del 2015, art. 2, comma 12).
Il successivo comma 13 del medesimo articolo ha stabilito che “ai commissari liquidatori, quali legali rappresentanti delle gestioni liquidatorie di cui al comma 12, compete la legittimazione attiva e passiva, sostanziale e processuale per le controversie riguardanti debiti e crediti delle soppresse USSL e aziende USSL”.
L’obbligazione oggetto del presente giudizio sorse a carico della USSL n. ***** di Cantù. Essa pertanto, alla luce del quadro normativo appena riassunto, si è oggi trasferita in capo alla Gestione Liquidatoria della ASL della Provincia di Como, ed è pertanto quest’ultima, in persona del commissario Liquidatore, legittimata ad impugnare la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 1639/16.
1.4. Il ricorso per cassazione, tuttavia, come accennato risulta proposto da un soggetto che nell’incipit del proprio atto di impugnazione qualifica se stesso come “Azienda Sociosanitaria Territoriale Lariana”, non quale Gestione Liquidatoria della disciolta ASL della Provincia di Como.
Nondimeno, poche righe più oltre la medesima epigrafe del ricorso principale precisa che questo è proposto dal Direttore della ASST “anche” quale Commissario Liquidatore della disciolta ASL.
Ritiene la Corte che tali oggettive ambiguità non rendano inammissibile il ricorso.
Ed infatti la persona che ha conferito la procura speciale ha speso (sia nel testo della procura, sia nell’epigrafe del ricorso) espressamente la qualità di “commissario liquidatore”; e poichè, come già detto, il commissario liquidatore delle disciolte, ASL ed USSL della Regione Lombardia è ope legis il Direttore Generale delle neoistituite ASST, deve ritenersi tamquam non esset l’apparente riferimento a quest’ultima quale soggetto che ha proposto l’impugnazione.
Infatti l’ambiguità dell’atto processuale non ne comporta l’inefficacia o l’inammissibilità, tutte le volte che essa possa essere agevolmente superata dal giudicante facendo ricorso ad una interpretazione complessiva dell’atto. Ciò in ossequio al principio sovranazionale secondo cui nell’interpretazione non solo delle norme processuali, ma anche degli atti processuali, il giudice nazionale ha il dovere di preferire le interpretazioni tali da consentire una pronuncia sul merito, piuttosto che quelle tali da imporre una pronuncia di inammissibilità (Corte EDU 7.6.2012, Centro Europa 7 s.r.l e Di Stefano c. Italia, in causa n. 38433/09, p. 140; Corte EDU 17.5.2016, Karacsony ed al. c. Ungheria, in cause nn. 42641/13 e 44357/13; e soprattutto Corte EDU, sez. I, 15.9.2016, Trevisanato c. Italia, in causa n. 32610/07, p.p. 42-44, e Corte EDU, sez. I, 24.4.2008, Kemp c. Lussemburgo, in causa n. 17140/05).
1.5. Ancora in via preliminare, va rilevato che la gestione Liquidatoria della ASL ha notificato e depositato un atto qualificato “controricorso”, nel quale:
a) ha dichiarato di aderire alle impugnazioni proposte dalla Generali e dagli eredi di D.G.;
b) ha replicato alle difese svolte, nei rispettivi controricorsi, dai Germani M. e da Mo.Pi..
Tale atto è irricevibile.
Nel giudizio di legittimità, infatti, al ricorrente principale è consentito depositare un controricorso soltanto per replicare alle impugnazioni incidentali proposte dalle parti contro le quali egli rivolse l’originaria impugnazione (art. 371 c.p.c., comma 4).
Ma nel caso di specie nè Mo.Pi., nè i germani M. hanno proposto alcuna impugnazione incidentale, con la conseguenza che il “controricorso” notificato dalla Gestione Liquidatoria, datato “13.2.2016” e notificato il 13.2.2017, va espunto dal novero degli atti ricevibili al fine del decidere.
2. Il primo motivo del ricorso principale.
2.1. Col primo motivo del ricorso principale la Gestione Liquidatoria della ASL lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 2934,2935,2943 e 2947 c.c.); sia da un vizio di nullità processuale, per mancanza di motivazione ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4.
Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene tre censure.
2.2. Con una prima censura la Gestione lamenta che erroneamente il Tribunale ha individuato l’exordium praescriptionis nel mese di novembre del 1992.
Esso, sostiene la ricorrente, si sarebbe invece dovuto individuare almeno dal 24 giugno 1992, data in cui il personale dell’Istituto ***** comunicò ai genitori dei gemelli la diagnosi di tetraparesi spastica. Già da tale data, infatti, i genitori erano in condizione di conoscere l’esistenza del danno, e quindi far valere il loro diritto.
2.3. Con una seconda censura la Gestione lamenta che, in ogni caso, la motivazione con cui la Corte d’appello ha ritenuto di individuare nel novembre 1992 l’exordium praescriptionis sarebbe “illogica, contraddittoria e apparente”, nella parte in cui ha giustificata l’iniziale inerzia dei creditori col fatto che “nella patogenesi della tetraplegia spastica spesso coesistono fattori eziologici di varia natura”.
2.4. Con una terza censura, infine, la Gestione lamenta che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che la lettera datata 29.7.2002. inviata dagli originari attori alla ASL, abbia avuto efficacia interruttiva della prescrizione.
Deduce che quella lettera era “del tutto carente sotto il profilo della idonea deduzione del fatto costitutivo della pretesa”, ed in quanto tale non poteva sortire alcun effetto interruttivo del termine di prescrizione.
2.5. La prima delle censure appena esposte è inammissibile in quanto investe la valutazione delle prove per come compiuta dal giudice di merito.
Lo stabilire, infatti, quale sia il momento in cui un soggetto, con l’ordinaria diligenza, possa avvedersi di avere patito un danno ed acquisire consapevolezza della causa di esso, è un accertamento di fatto, e non una valutazione in diritto.
In punto di diritto, la valutazione compiuta dalla Corte d’appello è corretta: la prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre da quando il danneggiato, con la diligenza esigibile dall’uomo medio, possa avvedersi sia dell’esistenza del pregiudizio, sia della derivazione causale di esso da un fatto colposo o doloso di terzi (ex plurimis, Sez. 6-3, Ordinanza n. 16217 del 18/06/2019, Rv. 654317-01; Sez. 3, Ordinanza n. 18521 del 13/07/2018, Rv. 649729-01; Sez. L, Sentenza n. 9318 del 16/04/2018, Rv. 648725-01).
Lo stabilire, poi, quando e come il danneggiato abbia acquisito o avrebbe potuto acquisire la suddetta consapevolezza, è accertamento di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 22059 del 22/09/2017, Rv. 646018-01; Sez. 2, Sentenza n. 6747 del 07/04/2016, Rv. 639640-01; Sez. 3, Sentenza n. 3176 del 18/02/2016, Rv. 639073 01; Sez. 6-3, Sentenza n. 23635 del 18/11/2015, Rv. 637785-01).
2.6. La seconda censura è infondata.
Una nullità della sentenza per mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, può infatti ammettersi solo in quattro casi:
-) quando la motivazione manchi del tutto sinanche “sotto l’aspetto materiale e grafico”;
-) quando sia puramente apparente;
-) quando contenga un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”;
-) quando, infine, sia “perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Nessuna di queste ipotesi ricorre nel caso di specie. La Corte d’appello, infatti, ha ampiamente esposto alle pp. 78-81 della propria sentenza le ragioni per le quali solo al momento della diagnosi certa e definitiva di tetraparesi compiuta dall’Istituto ***** il ***** dovesse individuarsi l’exordium praescriptionis: e cioè la difficoltà della diagnosi di tale malattia nei neonati e l’impossibilità di far valere il diritto al risarcimento prima che i genitori dei neonati apprendessero non solo dell’esistenza del danno, ma anche della sua derivazione causale dalla sofferenza ipossica sofferta dai loro figli subito dopo il parto.
Non sarà superfluo aggiungere, a fronte di talune affermazioni contenute nel ricorso della Gestione su tale punto, che dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, resta esclusa la possibilità di censurare in questa sede “qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
2.7. La terza censura contenuta nel primo motivo di ricorso è, infine, inammissibile ex art. 366 c.p.c., n. 6.
La ricorrente, infatti, lamenta che erroneamente la Corte d’appello avrebbe attribuito efficacia interruttiva della prescrizione ad un atto che non l’aveva.
Ma denunciare in sede di legittimità l’erronea qualificazione degli effetti d’un atto giuridico (quale è la costituzione in mora) è un motivo di ricorso che, per usare le parole della legge, “si fonda” sull’atto della cui erronea qualificazione il ricorrente si duole.
Quando il ricorso si fonda su documenti, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).
“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:
(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;
(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;
(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6-3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).
Di questi tre oneri, la Gestione ricorrente non ne ha assolto alcuno. Il ricorso, infatti, non riassume nè trascrive il contenuto della suddetta lettera; nè indica con quale atto ed in quale fase processuale (atto di citazione, memorie ex art. 183 c.p.c., ordine di esibizione, ecc.) sia stata prodotta.
3. Il secondo motivo del ricorso principale.
3.1. Nel secondo motivo del proprio ricorso la Gestione accomuna cinque diverse censure (deve ritenersi una mera svista la circostanza che, nel sommario del motivo a p. 16 del ricorso, ne siano enumerate solo quattro).
3.2. Con una prima censura la ricorrente articola un sillogismo così riassumibile:
-) la condotta colposa ascritta dalla Corte d’appello al Dott. D.G. consistette nel non aver consigliato alla gestante di recarsi presso altra struttura;
-) questa condotta poteva essere tenuta solo prima del ricovero della gestante; essa dunque consisteva in una omissione che il convenuto aveva tenuto non già nella veste di dipendente della azienda sanitaria, ma nella veste di ginecologo di fiducia della gestante;
-) ergo, di tale condotta omissiva la ASL non poteva essere chiamata a rispondere.
Diversamente opinando – prosegue la ricorrente – la Corte d’appello ha violato il D.P.R. 20 maggio 1987, n. 270; D.P.R. 25 giugno 1983, n. 348 e D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761; ha, inoltre, pronunciato una sentenza nulla per difetto di motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
3.3. Con una seconda censura la Gestione sostiene che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto in colpa la ASL per non aver osservato linee-guida non ancora note e diffuse all’epoca dei fatti (e cioè dotarsi di un servizio di rianimazione o comunque garantire in tempi rapidi il trasferimento della gestante in un nosocomio dotato di tale servizio).
Deduce che, diversamente opinando, la Corte d’appello avrebbe “violato il principio tempus regit actum”, e comunque pronunciato una sentenza nulla per mancanza di motivazione, ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
3.4. Con una terza censura la Gestione sostiene che la Corte d’appello le ha imputato a titolo di colpa il non aver garantito un adeguato monitoraggio del battito cardiaco fetale e di non possedere una adeguata strumentazione, trascurando di considerare che la suddetta omissione non aveva avuto alcuna efficacia causale nella produzione del danno; e nonostante che le dotazioni strumentali dell’ospedale di ***** fossero in linea con quelle disponibili all’epoca “in molti altri ospedali consimili”.
Deduce che, in tal modo, la Corte d’appello avrebbe violato le regole sulla personalità della responsabilità e sulla colpa.
3.5. Con una quarta censura la Gestione lamenta che la Corte d’appello ha ritenuto in colpa i sanitari dipendenti della ASL, ma senza individuare la condotta alternativa corretta esigibile da parte di ciascuno dei sanitari convenuti, ed in particolare del Dott. D.G., che al momento del fatto era impegnato in sala operatoria.
3.6. Con una quinta censura l’azienda (formalmente allegando che la Corte d’appello avrebbe “travisato le evidenze istruttorie”) articola un sillogismo così riassumibile:
-) la Corte d’appello ha ascritto all’azienda una responsabilità per aver accettato una gestante che si sarebbe invece dovuta indirizzare in altri e più attrezzati ospedali; e comunque per non aver disposto un immediato trasferimento della gestante;
-) tuttavia il trasferimento della gestante in un altro ospedale (il più vicino dei quali si trovava a 23 km di distanza) avrebbe esposto la salute della madre a rilevanti rischi; ed in particolare quello che il parto potesse avvenire durante il trasporto e senza assistenza specialistica (per la mancanza all’epoca di ambulanze attrezzate);
-) ergo, nessun rimprovero poteva essere mosso ai sanitari dell’ospedale di *****, giacchè tra il rischio di un parto in itinere e quello di un parto in un ospedale meno attrezzato scelsero il male minore.
La censura si conclude con l’affermazione che la Corte d’appello avrebbe omesso di “esaminare fatti decisivi” per il giudizio, rappresentati dalle condizioni personali della gestante, delle sue condizioni cliniche al momento di arrivo all’ospedale, dal pericolo di vita cui la gestante sarebbe stata esposta in caso di trasferimento in altro ospedale.
3.7. La prima censura è inammissibile per difetto di rilevanza.
La Corte d’appello ha infatti ritenuto sussistente la responsabilità della ASL per diverse e concorrenti ragioni: sia perchè ha accettato una paziente che non doveva accettare; sia perchè l’ospedale non era dotato di strumentazioni adeguate per gestire il tipo di rischio presentato dalla paziente; sia per non aver prestato adeguata assistenza neonatale nei 75 minuti successivi al parto.
E poichè, per quanto si dirà, tali rationes decidendi resistono alle censure formulate con gli ulteriori motivi di ricorso, diviene irrilevante stabilire se il Dott. D., quando omise di consigliare alla gestante di partorire in altra e più attrezzata struttura, avesse agito nella veste di libero professionista o di dipendente della ASL.
Anche se fosse vera la prima ipotesi, infatti, la ASL comunque avrebbe dovuto rispondere delle ulteriori condotte colpose ravvisate dalla Corte d’appello.
3.8. Prima di esaminare la seconda censura del secondo motivo del ricorso principale, per amor di chiarezza sarà opportuno premettere che il principio “tempus regit actum”, invocato dalla ricorrente, è del tutto estraneo alla materia qui in esame.
Quel principio, infatti, disciplina gli effetti della successione di norme processuali nel tempo, mentre la questione posta dalla ricorrente è ben diversa: e cioè se la diligenza professionale dei sanitari si debba valutare in base alle leges artis generalmente condivise al momento in cui essi tennero la condotta che si assume colposa.
Ciò posto, la censura è infondata.
La Corte d’appello, infatti, ha ritenuto che “sin dagli anni ‘80” era nota la necessità di prevedere un’adeguata assistenza neonatale al cospetto di gestanti esposte al rischio di parto prematuro. Sicchè, essendo l’illecito di cui è casa avvenuto nel 1991, la Corte d’appello ha adottato un criterio giuridico corretto di valutazione della colpa.
Lo stabilire, poi, se davvero “sin dagli anni ‘80” fossero note e diffuse le leges artis che la Corte d’appello ha ritenuto trascurate dai dai sanitari, non costituisce questione di diritto, ma accertamento di un fatto non sindacabile in sede di legittimità.
3.9. La terza delle censure sopra riassunte è inammissibile.
La Corte d’appello ha infatti ritenuto che, se fosse stato correttamente e con adeguate apparecchiature (cardiotocografo con doppio trasduttore) eseguito il monitoraggio del battito cardiaco fetale, i sanitari avrebbero potuto avere una ulteriore possibilità per fronteggiare l’emergenza, ivi compresa quella del parto cesareo.
La Corte d’appello, di conseguenza, ha individuato una colpa (non aver eseguito il monitoraggio) e ne ha ravvisato una conseguenza dannosa (la perduta possibilità di eseguire un parto cesareo).
Non è, dunque, esatto quanto dedotto dalla ricorrente, e cioè che la Corte d’appello le avrebbe ascritto una condotta colposa priva di rilievo causale. La Corte d’appello infatti non ha affatto affermato che il mancato monitoraggio del battito cardiaco fetale fu causa della tetraplegia; ma ha affermato che il deficit di strutture in quell’ospedale impedì ai sanitari di avvedersi tempestivamente della possibilità di optare per un parto cesareo, evidentemente sul presupposto inespresso che questo avrebbe avuto effetti salvifici.
Anche in questo caso, pertanto, il denunciato errore non sussiste; lo stabilire poi se davvero un parto cesareo avrebbe evitato il danno è questione di merito, non sindacabile in questa sede.
La circostanza, infine, che all’epoca dei fatti anche altri ospedali fossero privi di cardiotocografi con doppio trasduttore è circostanza ovviamente irrilevante, giacchè una negligenza commessa da molti non diventa per ciò solo consentita.
Nè è possibile valutare in questa sede la questione, squisitamente di merito, se possa qualificarsi come “negligente” la condotta d’un ospedale che, nel 1991, non disponeva di un cardiotocografo a doppio trasduttore.
3.10. Anche la quarta delle censure sopra riassunte è infondata.
La Corte d’appello, infatti, là dove ha individuato tre condotte colpose a carico dell’ospedale (avere accettato la gestante, non possedere adeguata strumentazione, non avere prestato adeguata assistenza post partum) ha, per ciò solo, individuato le condotte alternative corrette che i sanitari avrebbero dovuto tenere (inviare la gestante in altro ospedale, essere dotati di adeguata strumentazione; prestare adeguata assistenza post partum).
Non è, dunque, fondata l’allegazione secondo cui la Corte d’appello avrebbe attribuito alla ASL una responsabilità per colpa, senza accertare quali sarebbero dovute essere le condotte alternative corrette che i sanitari avrebbero dovuto tenere.
Violazioni di legge nella valutazione della colpa, pertanto, non sono state commesse. Lo stabilire poi, se la condotta tenuta dai sanitari dell’ospedale di ***** fosse o meno giustificata dalle contemporanee ed ulteriori incombenze cui essi dovevano pur attendere, in quei momenti cruciali, è questione prettamente di merito, non sindacabile in questa sede.
3.11. La quinta censura, infine, è inammissibile nella parte in cui lamenta la violazione di legge (in tutte le sue declinazioni), dal momento che lo stabilire se sia più rischioso per una gestante essere ricoverata in un ospedale privo del reparto di rianimazione, oppure essere trasferita in ambulanza in altro ospedale, col rischio di partorire in ambulanza, è questione di fatto.
Nella parte in cui lamenta l’omesso esame del fatto decisivo la censura è invece inammissibile per due ragioni.
La prima ragione è che la ricorrente, in violazione dei precetti dettati dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la già ricordata sentenza n. 8053 del 2014, (e cioè l’onere, per chi intenda denunciare il vizio di omesso esame del fatto decisivo, di indicare quale sia il fatto trascurato, quando sia stato dedotto, come sia stato provato, perchè fosse rilevante) non ha indicato nel ricorso donde risultasse che, al momento del ricovero (alle 8:00 del mattino), tutto lasciasse presumere che la gestante potesse partorire da un momento all’altro (la gestante partorì invece quasi otto ore dopo, alle 15:40, di talchè non poteva dirsi “imminente” il rischio di parto, se la gestante fosse stata accompagnata in ambulanza ad un ospedale distante 23 km).
La seconda ragione di inammissibilità è la mancanza di decisività del fatto il cui esame si assume omesso.
La Corte d’appello, infatti, come accennato ha imputato al personale sanitario dell’ospedale di ***** non solo la colpa consistita nell’avere accettato la paziente, ma anche la colpa consistita nell’avere ritardato per 75 minuti dopo il parto una adeguata assistenza neonatale. E poichè tale seconda ratio decidendi sarebbe comunque sufficiente a sorreggere la sentenza impugnata, il fatto di cui si assume l’omesso esame, anche se fosse stato preso in considerazione, non avrebbe mutato l’esito del giudizio.
4. Il terzo motivo del ricorso principale.
4.1. Col terzo motivo del proprio ricorso la Gestione lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la Corte d’appello avrebbe violato sia gli artt. 40 e 41 c.p.; sia gli artt. 1176 e 1218 c.c.; sia le regole sul riparto dell’onere della prova.
Sostiene che:
-) la consulenza tecnica d’ufficio svolta nl corso dell’istruttoria era infirmata da “criticità, contraddittorietà e carenze”, delle quali il giudice di merito non tenne conto;
-) la Corte d’appello avrebbe dovuto constatare che mancavano elementi sicuri per stabilire un nesso di causa tra l’operato dei sanitari e la tetraplegia;
-) il giudice di merito avrebbe dovuto perciò compiere, a tal riguardo, “una più completa verifica” circa il concorso tra fattori umani e fattori naturali, od almeno compiere “una più prudente valutazione della parte di danno” ascrivibile al caso fortuito.
4.2. Il motivo – che, come i precedenti, con non lodevole tecnica frammischia e confonde problemi e questioni diverse – è in parte inammissibile perchè censura un apprezzamento di fatto ed in parte infondato.
4.3. Nella parte in cui ascrive alla Corte d’appello di avere erroneamente ritenuto sussistente un nesso di causa in realtà non dimostrato, il motivo è inammissibile.
In sede di legittimità è censurabile l’eventuale errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento. Per contro, l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze fattuali che sono derivate dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità (Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014).
Nel caso di specie, la Corte d’appello ha ritenuto in punto di fatto che una più tempestiva ed efficace assistenza respiratoria post partum avrebbe potuto “ridurre fino a zero” il rischio di distress respiratorio dei neonati; e che la ritardata assistenza neonatale svolse “un ruolo preponderante nel determinismo” della tetraplegia.
La Corte, dunque, ha applicato un criterio di causalità corretto, cioè quello c.d. della “probabilità dell’evidenza”, o del “più sì che no” (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011).
Stabilire, poi, se la suddetta valutazione fu corretta o meno alla luce delle prove acquisite, è questione di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di questa Corte.
4.4. Nella parte in cui assume che la Corte d’appello avrebbe violato i criteri di riparto dell’onere della prova, il motivo è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi.
La Corte d’appello, infatti, ha accolto la domanda per avere accertato in concreto la effettiva sussistenza del nesso di causa, e non già per avere addossato ai convenuto il rischio della indimostrata, sussistenza di esso.
4.5. Nella parte, infine, in cui lamenta che il giudice di merito avrebbe dovuto tenere conto del concorso di cause naturali ai fini della liquidazione del danno, il motivo è tanto inammissibile, quanto infondato.
E’ inammissibile perchè travisa l’effettivo contenuto della decisione di merito.
La Corte d’appello infatti non ha affatto affermato che la condizione di prematuri dei due germani M. sia stata una concausa del danno finale. Ha, invece, affermato che la loro condizione di nati ante terminum li esponeva ad un maggior rischio di problemi respiratori al momento della nascita, e questo maggior rischio avrebbe dovuto indurre i sanitari a scelte diverse da quelle effettivamente compiute.
La prematurità della nascita fu dunque valutata dalla Corte d’appello ai fini del giudizio sulla colpa, non ai fini del giudizio sul nesso causale, e dunque non sono pertinenti le censure con cui si denuncia una violazione delle regole sulla causalità (sul tema si tornerà ancora infra, p. 6.2).
In ogni caso, anche se il motivo fosse stato ammissibile, sarebbe stato comunque infondato nel merito.
La prematurità, infatti, costituiva in tesi un’ipotesi di “concausa di lesione”: cioè un caso in cui le condizioni soggettive della vittima dell’illecito esponevano quest’ultima ad un maggior rischio di patire il danno, poi puntualmente avveratosi. E secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, nell’ipotesi in cui la persona danneggiata sia, per la propria condizione soggettiva, più vulnerabile dei soggetti della stessa età e dello stesso sesso, tale circostanza non incide nè sul nesso di causa, nè sull’attribuzione della colpa, nè sulla liquidazione del danno (Sez. 3 -, Ordinanza n. 20836 del 21/08/2018, Rv. 650421-02; Sez. 3, Sentenza n. 8995 del 06/05/2015, Rv. 635338-01; Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618882-01). E tale principio è stato, per quanto detto, correttamente applicato dalla Corte d’appello.
5. Il quarto motivo del ricorso principale.
5.1. Il quarto motivo del ricorso principale contiene due censure.
Con una prima censura la Gestione torna a lamentare, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 40 e 41 c.p.; artt. 1176,1218 e 2697 c.c..
Formula al riguardo una tesi così riassumibile:
-) la Corte d’appello ha accertato che il danno finale patito dai due gemelli fu il prodotto del concorso di varie cause, fra le quali anche l’imperita gestione dei due neonati da parte del personale dell’ospedale di *****, i quali praticarono una terapia controproducente e che provocò l’alcalosi;
-) la Gestione aveva chiesto che si accertasse se tale condotta dei sanitari di ***** aveva concausato, ed in che misura, il danno finale;
-) la Corte d’appello trascurò tuttavia di stabilire in quale misura quella condotta concorse a causare il danno finale: sia perchè i sanitari dell’ospedale di ***** non erano parti del presente giudizio; sia perchè la loro condotta non poteva ritenersi colposa;
-) tale valutazione fu tuttavia erronea, poichè nel caso di concorso due condotte umane imputabili, l’autore di ciascuna di esse “può e deve essere chiamato a risponderne”.
5.2. Con una seconda censura la ricorrente sostiene che erroneamente la Corte d’appello, una volta accertata la sussistenza del concorso tra cause umane e cause naturali, ha ritenuto di addossare all’autore del fatto illecito l’intera responsabilità, senza alcuna riduzione.
Sostiene che questo criterio di causalità è erroneo, conduce a risultati iniqui ed inefficienti, è criticato dalla dottrina.
5.3. La prima censura è inammissibile per difetto di interesse.
Quale che fosse stato il contributo causale fornito dai sanitari dell’ospedale di ***** alla produzione del danno finale, rispetto al terzo danneggiato la Gestione ricorrente dovrà comunque rispondere per intero. Ai sensi dell’art. 1218 c.c., se nulla fosse in tesi imputabile ai sanitari dell’ospedale di *****; ed ai sensi dell’art. 2055 c.c., se in tesi questi ultimi contribuirono causalmente all’avverarsi del danno finale.
Nè, in tale ultima ipotesi, la Gestione potrebbe opporre alla ASL di *****, in sede di regresso, l’eventuale sentenza che ne ravvisi una corresponsabilità di quest’ultima, per l’ovvia ragione che tale decisione risulterebbe pronunciata all’esito d’un giudizio al quale il preteso condebitore è rimasto estraneo (e ciò anche a prescindere dalla questione se sia ammissibile il regresso in sede civilistica, invece che contabile, fra una Gestione Liquidatoria di una ASL ed una ASL appartenenti alla medesima regione, e come tali finanziate da un unico ente regionale).
5.4. La seconda censura è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., perchè sostiene una tesi contrastante con l’orientamento ormai consolidato di questa Corte, senza addurre validi argomenti in senso contrario.
Questa Corte ha infatti ripetutamente affermato che:
a) l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno esige l’accertamento di due nessi causali: quello di “causalità materiale” tra condotta e lesione; e quello di “causalità giuridica” tra lesione e conseguenze dannose;
b) l’accertamento della causalità materiale è disciplinato dagli artt. 40 e 41 c.p., i quali dettano il principio di equivalenza delle cause;
c) il principio di equivalenza delle cause ha per corollario che nel caso di concorso tra causa umana imputabile e causa naturale, l’unica comparazione e graduazione possibile consiste nello stabilire la causa umana abbia fornito un contributo causale superiore allo 0%. Superata tale soglia, l’autore della condotta illecita risponderà del danno per l’intero, senza alcuna riduzione proporzionale della responsabilità in ragione della minore gravità dell’apporto causale del danneggiante rispetto alla causa naturale, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (Sez. 3, Ordinanza n. 30922 del 22/12/2017, Rv. 647123-01; Sez. U, Sentenza n. 24408 del 21/11/2011, Rv. 620057-01; Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618881-01; Sez. L, Sentenza n. 5539 del 09/04/2003, Rv. 561998-01; Sez. 3, Sentenza n. 2335 del 16/02/2001, Rv. 543924-01, la quale ultima aveva ad oggetto una fattispecie concreta pressochè sovrapponibile a quella oggetto del presente giudizio).
5.5. La Gestione ricorrente ha sottoposto a critica – come era suo diritto e facoltà – tale orientamento, spendendo tuttavia argomenti che prescindono del tutto dalle ragioni poste da questa Corte a fondamento di esso, ed in particolare da quelle adottati da Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618881-01.
La ricorrente infatti, dopo avere dato conto dei contrasti dottrinari sulla questione (p. 30 del ricorso principale), ha mosso al suddetto consolidato orientamento le seguenti critiche:
a) “presenta criticità sul piano logico”;
b) contrasta “con la natura stessa del diritto, che esige che a ciascuno venga attribuito solo ciò che gli spetta in relazione alla condotta tenuta”;
c) non ha fondamento normativo;
d) “conduce ad esiti iniqui ed inefficienti”.
Ciascuna delle suddette affermazioni, tuttavia, innanzitutto è affermata ma non spiegata. Ai fini dell’ammissibilità del ricorso che invoca una decisione contrastante con un orientamento consolidato, infatti, l’art. 360 bis c.p.c., richiede la spendita di “elementi” nuovi ed ulteriori rispetto a quelli già presi in esame dalla giurisprudenza pregressa e consolidata, ed ovviamente tali non sono le mere citazioni dottrinarie contenute nelle note in calce a corredo del testo del ricorso.
Gli argomenti giuridici spesi in un ricorso per cassazione infatti devono essere in esso contenuti, e non è sufficiente pretendere di illustrarli rinviando a scritti e testi esterni al ricorso.
In ogni caso, dei quattro argomenti spesi dalla ricorrente e sopra evidenziati:
-) gli argomenti (a) e (d) sono privi di una chiara illustrazione;
-) gli argomenti (b) e (c) sono infondati, alla luce del chiaro disposto degli artt. 40 e 41 c.p..
6. Il quinto motivo del ricorso principale.
6.1. Col quinto motivo la Gestione ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1176,12181226 c.c..
Deduce che, una volta accertato dalla Corte d’appello l’esistenza di varie concause che avevano contribuito alla produzione dell’evento finale (la prematurità del parto, l’errore dei sanitari dell’ospedale di *****; l’errore dei sanitari dell’ospedale di *****), essa avrebbe dovuto attribuire rilievo alle concause estranee all’operato dei convenuti quanto meno sul piano del quantum debeatur, per ridurre ad equità la misura del risarcimento, e mitigare così il rigore del principio del “tutto o nulla”.
6.2. Anche questo motivo è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi.
Nel caso di specie infatti la Corte d’appello, come già detto, non ha affatto affermato che, in assenza di errore medico, i due gemelli avrebbero comunque sofferto un danno alla salute, sia pure minore di quello effettivamente prodottosi.
Non è, in particolare, esatto quanto affermato dalla Gestione ricorrente, e cioè che secondo la Corte d’appello la prematurità del parto sarebbe stata una delle cause della tetraparesi.
La Corte d’appello ha fondato la propria decisione su rilievi ben diversi.
Da un lato, infatti, ha ritenuto che la prematurità del parto esponeva i neonati “ad una maggiore vulnerabilità allo stress durante il periodo espulsivo, e quindi alla possibilità di nascere con segni di sofferenza asfittica”. Dunque la Corte lombarda non ha affermato che la prematurità fu una concausa della tetraparesi; ha affermato invece che la prematurità rendeva più probabile il rischio di ipossia intra partum, e di conseguenza imponeva ai sanitari di provvedere ad una più efficiente assistenza respiratoria postnatale (pag. 89, primo capoverso, della sentenza impugnata). La prematurità, insomma, per la Corte d’appello non fu una concausa naturale del danno, ma fu un campanello d’allarme che avrebbe dovuto indurre i sanitari a scelte diverse da quelle effettivamente compiute. Fu, dunque, una circostanza valutata ai fini del giudizio sulla colpa.
In ogni caso, con autonoma ratio decidendi, a Corte d’appello ha anche aggiunto che la pretesa della Gestione Liquidatoria di vedere ridotto il proprio obbligo risarcitoria a causa della compresenza di varii fattori causali, ulteriori e diversi rispetto all’operato dei medici, era infondata “dal punto di vista della prova del nesso causale” (così la sentenza d’appello, p. 88, terzultimo rigo). E tale valutazione non è stata validamente censurata in questa sede, nè avrebbe potuto esserlo, riguardando un accertamento di fatto.
7. Il primo motivo del ricorso incidentale di D.F..
7.1. Col primo motivo del proprio ricorso incidentale D.F. lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, comma 1 (convertito nella L. 8 novembre 2012, n. 189).
Sostiene, con ampia motivazione, che per effetto della norma suddetta la responsabilità del sanitario avrebbe sempre natura extracontrattuale; e che di conseguenza nel caso di specie non poteva applicarsi al credito risarcitorio il termine di prescrizione decennale.
7.2. Il motivo è infondato.
Il D.L. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito nella L. 8 novembre 2012, n. 189), oggi abrogato in parte qua, stabiliva all’art. 3:
“L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
Tale norma è stata abrogata dalla L. 8 marzo 2017, n. 24, il cui art. 7, comma 3, oggi dispone:
“L’esercente la professione sanitaria (…) risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c. (…). Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’art. 5” (nel quale si fissa il principio che il medico ha l’obbligo di attenersi alle linee-guida pubblicate nel “Nazionale delle Linee Guida” dagli enti ed istituzioni iscritti nell’apposito registro.
Or bene, a prescindere da qualsiasi considerazione circa il significato da attribuirsi alla arcana formula contenuta nel D.L. n. 158 del 2012, art. 3, quel che rileva nel presente giudizio è che tanto il decreto in esame, quanto la successiva L. n. 24 del 2017, in assenza di norme ad hoc non possono avere efficacia retroattiva.
Esse, pertanto, conformemente all’art. 11 preleggi, nella parte in cui disciplinano i criteri di accertamento della colpa e di valutazione della diligenza s’applicano solo ai fatti verificatisi successivamente alla loro entrata in vigore.
8. Il secondo motivo del ricorso incidentale di D.F..
8.1. Il secondo motivo del ricorso incidentale proposto da D.F. contiene tre censure.
Con una prima censura il ricorrente si duole dell’illegittimo rigetto dell’istanza, da lui formulata nei gradi di merito, volta ad ottenere dal giudice un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., avente ad oggetto le cartelle cliniche dei due ospedali dove i neonati vennero ricoverati immediatamente dopo la nascita. Da tali cartelle, secondo il ricorrente incidentale, emergerebbe che l’esistenza della tetraparesi e la sua derivazione causale da un errore umano sarebbe emersa ben prima del novembre 1992, e che di conseguenza la Corte d’appello aveva mal calcolato il momento dell’exordium praescriptionis, posticipandolo.
8.2. Con una seconda censura il ricorrente lamenta che, su tale ultima questione, il giudice di merito abbia illegittimamente rifiutato di disporre una consulenza tecnica.
8.3. Con una terza censura il ricorrente sostiene che in ogni caso già a giugno del 1992 i genitori dei due neonati vennero posti in condizione di sapere che i loro figli erano affetti da tetraparesi spastica, e che tale circostanza era stata illegittimamente trascurata dalla Corte d’appello.
8.4. La prima delle suesposte censure è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.
I ricorrenti, infatti, in violazione del precetto imposto dalla norma appena ricordata, non indicano nel proprio ricorso in quale fase e con quale atto del giudizio di primo grado abbiano formulato le istanze istruttorie della cui mancata ammissione si dolgono. Dalla pag. 25, nota 5, del ricorso incidentale si apprende unicamente che le suddette richieste vennero formulate in grado di appello.
Se, dunque, esse furono proposte per la prima volta in appello, esse erano inammissibili, e correttamente la Corte d’appello non le ha ammesse. Se, invece, furono proposte già in primo grado, la relativa censura è inammissibile perchè non indica in quale atto furono proposte, in quali termini, ed a quale fascicolo siano ora allegate.
8.3. La seconda delle suesposte censure è inammissibile, in quanto la scelta di disporre o non disporre una consulenza tecnica è facoltà discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità.
8.4. La terza censura, infine, è anch’essa inammissibile.
Mentre la Corte d’appello ha ritenuto in fatto che i genitori di M.L. e D. solo a novembre del 1992 appresero della malattia de loro figli e di quale ne fosse la causa, il ricorrente incidentale sostiene che tale accertamento sarebbe erroneo; che in realtà vi era in atti la prova che già a giugno del 1992 i coniugi M. ebbero quella informazione; che la Corte d’appello avrebbe perciò malamente valutato il certificato del *****, dal quale emergerebbe tale prova.
Ma, come ognun vede, la censura investe inammissibilmente la valutazione delle prove, e l’interpretazione di esse da parte del giudice di merito. Essa è pertanto infondata sia con riferimento all’art. 115 c.p.c., in quanto la violazione di tale norma può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016; Sez. U., Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, Rv. 640829-01); sia con riferimento al denunciato vizio di omesso esame d’un fatto decisivo, dal momento che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti” (Sez. U., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
9. Il primo motivo dei ricorsi incidentali della società Generali.
9.1. La società Generali, come accennato, ha ritenuto di proporre due ricorsi incidentali separati: l’uno nella veste di assicuratore della responsabilità civile di B.A.; l’altro nella veste di assicuratore della responsabilità civile di D.G..
I due ricorsi incidentali sono rivolti contro statuizioni contenute nella sentenza d’appello di identico contenuto, e svolgono argomenti identici. Essi pertanto saranno esaminati congiuntamente.
9.2. Il primo motivo dei due ricorsi incidentali proposti dalla società Generali prospetta censure identiche a quelle formulate da D.F. nel secondo motivo del proprio ricorso incidentale.
Esso è quindi inammissibile per le medesime ragioni già esposte in precedenza (supra, p.p. 7 e ss.).
10. Il secondo motivo dei ricorsi incidentali della società Generali.
10.1. Col secondo motivo dei propri ricorsi incidentali la Generali lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1175,1176,1219,1224,1375 e 1917 c.c.; art. 112 c.p.c.; D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 148.
Il motivo, sebbene formalmente unitario, contiene due diverse censure.
10.2. Con una prima censura la ricorrente si duole di essere stata condannata a pagare importi eccedenti il massimale garantito col contratto di assicurazione, nonostante gli assicurati non avessero formulato alcuna domanda al riguardo. Lamenta, di conseguenza, la violazione dell’art. 112 c.p.c..
10.3. Con una seconda censura la società Generali investe il capo di sentenza con cui è stata condannata a pagare una somma pari alla rivalutazione del massimale assicurato, calcolata nel periodo intercorso tra la data del 1.11.2002 (insorgenza della mora debendi) e quella della sentenza di primo grado (17.12.2012).
Sostiene che tale decisione sarebbe erronea sotto varii profili, così riassumibili:
(a) l’obbligo indennitario dell’assicuratore della responsabilità civile, in quanto obbligazione di valuta, è soggetto al principio nominalistico. Di conseguenza l’assicuratore, anche quando è in mora, è tenuto al pagamento soltanto degli interessi di mora, e soltanto se sia domandato e provato dall’assicurato può essere tenuto al risarcimento del maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2;
(b) l’assicuratore della responsabilità civile può essere ritenuto in mora nei confronti dell’assicurato solo quando il credito vantato dal terzo danneggiato nei confronti di quest’ultimo divenga liquido ed esigibile, e nel caso di specie ciò era avvenuto solo col deposito della sentenza di primo grado, come detto avvenuto il 17.12.2012;
(c) l’assicurato non aveva mai nè dedotto, nè provato, che l’assicuratore fosse stato negligente nella gestione dei comuni interessi (mala gestio), colposamente ritardando l’accertamento e la liquidazione di un danno agevolmente accertabile e liquidabile;
(d) in ogni caso la Corte d’appello ha errato nel ritenere che sin dal 1.11.2012 l’assicuratore potesse, con l’ordinaria diligenza, accertare la responsabilità dell’assicurato e liquidare il danno. A quella data, infatti, l’assicurato aveva fermamente negato la propria responsabilità; l’ospedale aveva fatto altrettanto; era seriamente dubitabile se il credito risarcitorio fosse prescritto o meno; la possibilità per l’assicuratore di procedere concretamente alla stima del danno maturò invece soltanto a momento del deposito della consulenza tecnica d’ufficio (data, tuttavia, non indicata nel ricorso incidentale: cfr. p. 20).
L’articolata censura formulata dalla società Generali nei propri ricorsi incidentali ci impone di affrontare, gradatamente, le seguenti questioni di diritto:
a) quando, nell’assicurazione della responsabilità civile, l’assicuratore possa essere condannato in misura eccedente il massimale;
b) da quando, nell’assicurazione della responsabilità civile, decorra la mora debendi dell’assicuratore;
c) quali siano, nell’assicurazione della responsabilità civile, le conseguenze della mora debendi.
La soluzione di tali questioni sarà propedeutica a stabilire innanzitutto se vi sia stata ultrapetizione nella sentenza d’appello; ed in caso negativo se essa sia comunque conforme a diritto.
10.4. L’assicurazione di responsabilità civile è una assicurazione contro i danni, rientrante nella sottospecie delle assicurazioni di patrimoni. In essa la “cosa” esposta al rischio non è infatti un bene determinato, ma è l’intero patrimonio dell’assicurato, che è esposto al rischio di impoverimento, in conseguenza della commissione di un fatto illecito che faccia sorgere l’obbligo di risarcimento in capo all’assicurato.
Nell’assicurazione di responsabilità civile non può dunque rinvenirsi un “valore” assicurato, per l’ovvia ragione che un patrimonio è normalmente soggetto a costanti variazioni: sicchè, ove nel contratto se ne indicasse il valore, questo potrebbe essere non più attendibile al momento dell’avverarsi del rischio, e l’assicurato si potrebbe trovare senza volerlo a beneficiare d’una copertura solo parziale.
Nell’assicurazione della responsabilità civile, pertanto, il limite dell’obbligo indennitario dell’assicuratore non è li valore della cosa assicurata (come avviene per le altre assicurazioni contro i danni, ai sensi dell’art. 1908 c.c.), ma è un tetto convenzionalmente fissato, detto massimale.
Tale massimale, essendo frutto di convenzione, non è necessario nè invalicabile: esso infatti da un lato potrebbe anche mancare senza che ciò comporti nullità del contratto (c.d. assicurazione con massimale illimitato); dall’altro può, a determinate condizioni, essere superato per effetto di determinate condotte dell’assicuratore.
Le ipotesi in cui l’assicuratore della responsabilità civile può essere tenuto al pagamento di indennizzi eccedenti il massimale sono in alcuni casi espressamente previste dalla legge (art. 1917 c.c., comma 3); in altri casi sono state ricavate in via di interpretazione dalla giurisprudenza.
Tra queste ultime ne vengono in rilievo due: la mora e la mala gestio.
10.4.1. L’assicuratore della responsabilità civile, quando sia in mora nell’adempimento della propria obbligazione indennitaria, è esposto come qualsiasi altro debitore agli effetti della mora (dei quali si dirà tra breve).
Gli importi dovuti dall’assicuratore all’assicurato a titolo di mora sfuggono al limite del massimale. Quel limite, infatti, concerne un indennizzo dovuto dall’assicuratore per fatto altrui, ovvero quale conseguenza dell’illecito commesso e del danno causato dall’assicurato.
La mora, per contro, è ascrivibile a un fatto proprio dell’assicuratore, e non dipende dalla condotta dell’assicurato. E’ fonte d’una obbligazione scaturente dall’inadempimento dell’obbligo indennitario, non dall’illecito commesso dall’assicurato (ex permultis, Sez. 3-, Sentenza n. 22054 del 22/09/2017, Rv. 646015-01; Sez. L, Sentenza 2525 del 06/03/1998, Rv. 513435-01).
10.4.2. L’assicuratore della responsabilità civile può altresì essere tenuto ai pagamento di somme eccedenti il massimale quando, trascurando di attivarsi con la diligenza da lui esigibile ai sensi dell’art. 1176 c.p.c., comma 2, pregiudica la copertura di cui l’assicurato avrebbe beneficiato, in caso di esatto adempimento da parte dell’assicuratore (c.d. mala gestio propria o “in senso proprio”: il caso di scuola è il rifiuto colposo, da parte dell’assicuratore, d’una vantaggiosa offerta transattiva avanzata dal terzo danneggiato).
L’assicuratore della responsabilità civile, infatti, anche a prescindere da qualsiasi espressa previsione in tal senso contenuta nella polizza, è comunque tenuto, in virtù del dovere di uberrima bona fides che scaturisce dalla comunanza di interessi tra lui e l’assicurato, a salvaguardare gli interessi di quest’ultimo, e comportarsi in modo da evitare che, per effetto di proprie scelte negligenti nella trattazione del sinistro, quegli resti abbandonato al suo destino dinanzi alle pretese del terzo danneggiato.
L’inadempimento, da parte dell’assicuratore della responsabilità civile, dell’obbligo di curare con solerzia gli interessi dell’assicurato, non ha nulla a che con vedere con la mora. La mala gestio non è che una particolare ipotesi, tipizzata dalla giurisprudenza, di inadempimento degli obblighi di diligenza e correttezza; la mora è il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione (ex plurimis, in particolare, per tali principi si veda Sez. 3, Sentenza n. 10725 del 08/07/2003, Rv. 569258-01). Da ciò discendono plurime differenze tra i due istituti.
La mora, in primo luogo, espone il debitore all’obbligo di pagare gli interessi moratori (art. 1224 c.c., comma 1), oppure il maggior danno (art. 1224, comma 2, c.c.) o quelli compensativi (Sez. U., Sentenza n. 1712 del 17/02/1995, Rv. 490480-01), a seconda che il debito abbia ad oggetto una obbligazione di valuta o di valore; per contro, conseguenza della mala gestio è l’obbligo di risarcire il danno causato dalla violazione dei doveri di diligenza e correttezza, che potrebbe essere ben diverso dal mero computo degli interessi (si pensi alla già ricordata ipotesi in cui l’assicuratore nell’immediatezza del fatto illecito commesso dall’assicurato rifiuti ingiustificatamente una vantaggiosa proposta transattiva inferiore al massimale avanzata dal danneggiato, il quale poi in conseguenza del rifiuto ricevuto ritiri la proposta e ottenga in sede giudiziale una condanna dell’assicurato eccedente il massimale).
In secondo luogo, l’assicurato che chieda la condanna dell’assicuratore al pagamento degli interessi di mora ha l’onere di provare solo il ritardo; mentre l’assicurato che chieda la condanna dell’assicuratore al risarcimento del danno da mala gestio ha l’onere di provare in cosa consistette la condotta colposa, e quali ne furono le conseguenze.
In terzo luogo, la mora dell’assicuratore comporta l’obbligo di pagamento degli interessi legali anche se il creditore non prova di avere sofferto alcun danno (art. 1224 c.c., comma 1); mentre il danno da mala gestio deve essere concretamente allegato e provato.
In quarto luogo, la mora matura de die in diem e, finchè perduri, costringerà l’assicuratore al pagamento degli interessi sul massimale senza alcun limite. Nel caso di mala gestio, invece, il risarcimento dovuto dall’assicuratore può essere senza limiti, oppure può essere limitato alla rivalutazione del massimale ed al computo su esso degli interessi, a seconda che al momento dell’avverarsi del rischio il danno causato dall’assicurato al terzo superasse o non superasse l’importo del massimale (Sez. 6-3, Ordinanza n. 9666 del 19/04/2018, Rv. 648408-01).
Beninteso, anche a mora dell’assicuratore può esporre l’assicurato al rischio di pagare al terzo danneggiato somme eccedenti la copertura assicurativa, e che l’assicurato avrebbe potuto risparmiare in caso di tempestivo adempimento, da parte dell’assicuratore, delle proprie obbligazioni: ma questa non è che una normale ipotesi di “maggior danno” da ritardo, di cui all’art. 1224 c.c., comma 2 e non v’è bisogno alcuno di coniare per essa una categoria giuridica ad hoc, in virtù del principio di civiltà giuridica secondo cui frustra fit per plura, quod potest fieri per pauciora.
La responsabilità per mala gestio in senso proprio, in definitiva, prescinde dalla mora e non la presuppone.
Una volta, poi, che sia insorta la mora debendi, tutti i danni causati da questa, non sufficientemente ristorati dal calcolo degli interessi, saranno risarcibili ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2 e non v’è necessità di discorrere di “mala gestio” per stabilirne l’ammontare e la risarcibilità.
10.4.3. Corollario di quanto precede è, per quanto rileva ai nostri fini, che la domanda di risarcimento del danno da mala gestio, la domanda di pagamento degli interessi di mora e quella di pagamento del “maggior danno” ex art. 1224 c.c., comma 2, non sono ricomprese l’una nell’altra. Tutte e tre debbono, beninteso, essere espressamente formulate (le ultime due, ovviamente, in modo alternativo tra loro); chi, tuttavia, abbia chiesto solo la condanna al pagamento degli interessi di mora, non può pretendere il risarcimento del danno da mala gestio, se la relativa domanda non sia stata formulata, nè siano stati dedotti i fatti costitutivi del relativo diritto.
Allo stesso modo, e converso, è inibito al giudice accordare il risarcimento del danno da mala gestio, come sopra ricostruito, se l’assicurato si sia limitato a domandare il pagamento degli interessi.
10.5. Così chiarito quando ed a quali condizioni l’assicuratore possa essere condannato al pagamento di somme eccedenti al massimale, occorre ora stabilire in quale momento insorga la mora debendi dell’assicuratore della responsabilità civile, nei confronti del proprio assicurato.
Al riguardo nella giurisprudenza di questa Corte si rinvengono varie oscillazioni.
10.5.1. Secondo un primo orientamento, l’assicuratore della responsabilità civile non può mai essere costituito in mora dal proprio assicurato, prima che il debito di quest’ultimo verso il terzo danneggiato sia divenuto liquido ed esigibile, e lo sia divenuto per contratto o per sentenza.
E’ divenuta tralatizia, al riguardo, la massima secondo cui “nell’assicurazione della responsabilità civile, l’assicurato, finchè non sia stata accertata giudizialmente o negozialmente la sua responsabilità e l’ammontare della somma da lui dovuta al terzo danneggiato, non può pretendere l’indennizzo da parte dello assicuratore. Fino a quel momento, dunque, anche se l’assicurato abbia provveduto a chiamare in causa l’assicuratore, a norma dell’art. 1917 c.c., u.c., non si può parlare di inadempimento e di costituzione in mora, nè di esistenza, a favore dello stesso assicurato, di un credito liquido ed esigibile, produttivo di interessi corrispettivi a norma dell’art. 1282 c.c.” (Sez. 3, Sentenza n. 3802 del 11/11/1975, Rv. 378011-01).
Questo orientamento si fondava, in origine, sull’assunto che nell’assicurazione della responsabilità civile debba intendersi per “sinistro” non già la commissione del fatto illecito da parte dell’assicurato, ma la liquidazione del relativo danno. E poichè – si diceva – in illiquidis non fit mora, ai fini della mora dell’assicuratore verso il proprio assicurato nulla rileva che quest’ultimo abbia formulato la domanda di pagamento dell’indennizzo, nemmeno sotto forma di chiamata in causa ai sensi dell’art. 1917 c.c., comma 4 (Sez. 3, Sentenza n. 5137 del 22/05/1998, Rv. 515726-01; Sez. 3, Sentenza n. 4240 del 07/05/1996, Rv. 497447-01; Sez. 1, Sentenza n. 7330 del 01/07/1995, Rv. 493160-01, ed innumerevoli altre fino a Sez. 3, Sentenza n. 2817 del 22/10/1963, Rv. 264376-01, sentenza capostipite di tale orientamento).
10.5.2. Per un secondo orientamento, invece, la relazione di stretta interdipendenza che sussiste tra l’obbligo dell’assicurato di risarcire il terzo danneggiato, e quello dell’assicuratore di manlevare l’assicurato, impone che ogni qual volta l’assicurato sia obbligato ad un pagamento risarcitorio nei confronti del terzo in base ad un titolo idoneo a far sorgere il dovere giuridico di quel pagamento, contestualmente insorge l’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne il detto assicurato, ancorchè quel titolo non contenga un accertamento definitivo sulla responsabilità e sull’ammontare complessivo del danno.
Secondo questo orientamento, se si pretendesse che l’obbligazione indennitaria dell’assicuratore insorga solo quando l’obbligo risarcitorio dell’assicurato sia accertato definitivamente, si altererebbe la causa del contratto, in quanto l’assicurato sarebbe obbligato a pagare immediatamente il terzo, mentre l’assicuratore sarebbe tenuto ad indennizzare l’assicurato solo in esito all’accertamento definitivo del debito di questi, che potrebbe intervenire a distanza di anni.
La conclusione che si trae da queste premesse è che è superfluo, ai fini del sorgere dell’obbligazione dell’assicuratore, sia l’accertamento giudiziale del debito dell’assicurato, sia l’avvenuta liquidazione di tale debito, sul presupposto che “il requisito della liquidità non coincide col requisito della certezza, e quest’ultimo non è richiesto dall’art. 1917 c.c., per attivare l’obbligazione di rivalsa a carico dell’assicuratore”.
L’orientamento in esame ha dunque concluso nel senso che “il diritto dell’assicurato di rivalersi nei confronti dell’assicuratore, per le somme versate al terzo danneggiato, non richiede per essere azionato un accertamento (negoziale o giudiziale) della responsabilità dell’assicurato medesimo e dell’ammontare complessivo del risarcimento, ma postula che il pagamento al terzo sia stato eseguito in base ad un titolo che, per quanto non definitivo e non contenente il suddetto accertamento, sia tuttavia idoneo ad attribuire al pagamento il carattere doveroso previsto dal citato art. 1917 c.c.” (Sez. 1, Sentenza n. 3008 del 01/04/1996, Rv. 496733-01).
Questo orientamento, tuttavia, al proprio interno si divide tra quanti ritengono che il debito dell’assicuratore della responsabilità civile sorge quando l’assicurato abbia adempiuto la propria obbligazione nei confronti del terzo danneggiato (oltre Cass. 3008/96, appena citata, in tal senso pure Sez. 3, Sentenza n. 30795 del 30/12/2011, Rv. 621075-01); e quanti invece ritengono che ai fini dell’insorgenza dell’obbligo dell’assicuratore verso l’assicurato basti che il debito dell’assicurato verso il terzo “sia effettivamente dovuto”, a prescindere dal suo accertamento e dal suo adempimento (Sez. 1, Sentenza n. 4861 del 06/08/1988, Rv. 459681-01).
10.5.3. Per un terzo orientamento, infine, l’obbligo dell’assicuratore della responsabilità civile di garantire l’assicurato, pur sorgendo al momento della commissione dell’illecito, diviene “attuale e concreto” non già al momento della liquidazione del debito risarcitorio dell’assicurato, ma nel momento in cui il terzo danneggiato manifesti (giudizialmente o stragiudizialmente) la sua intenzione di ottenere il risarcimento del danno, con a conseguenza che solo a partire da tale momento l’assicurato può chiedere giudizialmente l’accertamento del suo diritto e del correlativo obbligo dell’assicuratore (Sez. 3, Sentenza n. 4940 del 14/11/1977, Rv. 388546-01).
10.5.4. Ritiene il Collegio che tali orientamenti, sorti in epoche remote e con riferimento ad un quadro normativo molto diverso dall’attuale, non possano oggi essere più condivisi.
Tutti e tre, in primo luogo, muovono da un presupposto non condivisibile: e cioè che il momento in cui sorge il debito dell’assicuratore verso l’assicurato sia anche quello in cui si producano gli effetti della mora.
Questo non è esatto, dal momento che certamente l’obbligazione dell’assicuratore sorge nel momento in cui si avvera il rischio, e il rischio si avvera quando l’assicurato diviene debitore del terzo danneggiato (salvo, ovviamente, che le parti del contratto di assicurazione non abbiano pattiziamente derogato a tale principio, nei limiti in cui la deroga è consentita, come stabilito da Sez. U, Sentenza n. 22437 del 24/09/2018, Rv. 650461-01, in tema di clausola claims made).
Ciò non vuol dire, però, che da quel momento l’assicuratore sia per ciò solo in mora. Ed infatti l’insorgenza del debito nelle obbligazioni querables non comporta ipso facto la produzione degli effetti della mora, ed occorrerà dunque sempre accertare se la polizza preveda patti particolari al riguardo, o se non s’applichi la regola generale quod sine die debetur, statim debetur (art. 1183 c.c., comma 1, primo periodo).
10.5.5. Il primo dei tre orientamenti sopra riassunti, inoltre, non è sostenibile per ulteriori ragioni: per il fondamento su cui poggia, e per le conseguenze che genera.
Quanto al fondamento, esso riposa su uno di quei principi tanto scolasticamente ripetuti, quanto dogmaticamente erronei: quello secondo cui in illiquidis non fit mora.
Principio, però, contrastante con lo stesso dettato normativo, dal momento che l’art. 1219 c.c., espressamente include tra le ipotesi di mora ex re quella del debitore del risarcimento del danno da fatto illecito (così già Sez. 2, Sentenza n. 9510 del 30/04/2014, Rv. 630721 – 01, secondo cui “la liquidità del debito non è condizione necessaria della costituzione in mora, nel nostro ordinamento non valendo il principio “in illiquidis non fit mora”; nello stesso senso, Sez. 2, Sentenza n. 11736 del 20/11/1998, Rv. 520887-01 Sez. 2, Sentenza n. 4712 del 14/05/1994, Rv. 486606-01; Sez. 3, Sentenza n. 1813 del 20/05/1976, Rv. 380598-01).
Quanto alle conseguenze, l’orientamento che non ravvisa alcuna mora dell’assicuratore prima che il debito dell’assicurato sia divenuto liquido per convenzione o per sentenza produce il paradossale risultato che nelle more tra la commissione dell’illecito e la liquidazione del danno l’assicuratore del responsabile non avrebbe alcun obbligo di attivarsi per accertare le cause del sinistro, tacitare il danneggiato, cercare una transazione: e ciò sarebbe in palese contrasto coi doveri di uberrima bona fides di cui si è detto sopra.
10.5.6. Nemmeno appaiono condivisibili gli orientamenti secondo cui l’assicuratore della responsabilità civile andrebbe ritenuto in mora nel momento in cui venga commesso il fatto illecito, ovvero in quello in cui il terzo danneggiato manifesti la volontà di essere risarcito.
Perchè si producano gli effetti della mora debendi è necessario infatti che il debitore sia in colpa (sebbene la colpa sia presunta in via generale dall’art. 1218 c.c.). Il debitore di una obbligazione illiquida non può però essere ritenuto in colpa, se non gli sia stata offerta la possibilità di attivarsi, alla stregua dell’ordinaria diligenza, per procedere alla aestimatio del proprio debito (Sez. 2, Sentenza n. 4561 del 17/04/1993, Rv. 481902-01, in motivazione).
Dunque l’assicuratore non potrebbe essere ritenuto in mora dal momento del fatto illecito, nè da quello della richiesta formulata dal danneggiato, perchè di norma in tale momento l’assicuratore non potrebbe mai procedere alla liquidazione dell’indennizzo, non essendo nemmeno a conoscenza dell’accaduto.
10.5.6. Il problema qui in esame deve dunque essere risolto considerando, in primo luogo, che per essere ritenuti in mora occorre prima essere debitori, e l’assicuratore della responsabilità civile diviene debitore dell’assicurato solo quando questo a sua volta diviene debitore del terzo danneggiato.
L’insorgenza del debito dell’assicuratore, tuttavia, non ne comporta ipso facto la costituzione in mora, perchè le ipotesi di mora ex re sono tassativamente previste dall’art. 1219 c.c., ed al di fuori di esse è sempre necessario un atto formale di costituzione in mora.
Nemmeno, infine, sarebbe conforme a diritto la scelta di ritenere l’assicuratore in mora dal momento in cui l’assicurato gli segnali l’avvenuta causazione del danno o l’avvenuta ricezione della richiesta di risarcimento.
Per quanto detto, infatti, è contrario al generale dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) ritenere in mora chi nemmeno con l’uso della più exacta diligentia avrebbe mai potuto adempiere la propria obbligazione; e l’assicurazione della responsabilità civile non può certo accertare la responsabilità dell’assicurato e stimare il danno illico et immediate, non appena ricevuta la richiesta di indennizzo: tanto più nei casi, come quello di specie, in cui per la stima del danno abbia necessità della presenza persona stessa del terzo danneggiato.
Deve perciò concludersi che:
(a) l’obbligo dell’assicuratore di indennizzare l’assicurato sorge al momento stesso in cui quest’ultimo causi un danno a terzi;
(b) l’assicuratore può ritenersi in mora rispetto a tale obbligo solo una volta che:
(b1) sia decorso il tempo ordinariamente necessario, alla stregua della diligenza professionale cui l’assicuratore è tenuto, ex art. 1176 c.c., comma 2, per accertare la sussistenza della responsabilità dell’assicurato e liquidare il danno;
(b2) vi sia stata una efficace costituzione in mora da parte dell’assicurato.
Ove, poi, dovesse sorgere contrasto tra assicurato ed assicuratore circa l’individuazione di tale ragionevole termine, ad evitare lungaggini ed incertezze l’assicurato potrà comunque avvalersi degli strumenti sollecitatori previsti dall’ordinamento: la diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 c.c. e l’actio interrogatoria.
10.6. Detto dei casi in cui è consentita una condanna dell’assicuratore in misura eccedente il massimale (mala gestio e mora); e detto dei criteri con cui individuare il momento in cui l’assicuratore della responsabilità civile debba ritenersi in mora, resta da dire degli effetti di quest’ultima.
Tale questione, tuttavia, è ormai consolidata nella giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, Sez. 6-3, Ordinanza n. 9666 del 19/04/2018, Rv. 648408-01; Sez. 6-3, Ordinanza n. 10221 del 26/04/2017; Sez. 3, Sentenza n. 13537 del 13/06/2014), la quale al riguardo ha fissato un principio, e ne ha tratto tre corollari.
10.6.1. Il principio stabilito da questa Corte in tema di mora debendi dell’assicuratore della responsabilità civile è che l’obbligazione indennitaria di quest’ultimo è una obbligazione:
-) di valuta, quando il danno causato dall’assicurato al terzo superi il massimale;
-) di valuta, ma che “si comporta” come una obbligazione di valore, quando il danno causato dall’assicurato al terzo sia inferiore al massimale.
In quest’ultimo caso, infatti, l’assicuratore deve tenere indenne l’assicurato di tutti i danni causati al terzo: e quindi non solo del risarcimento dovuto dall’assicurato in conto capitale, ma anche degli interessi compensativi di mora che l’assicurato è comunque tenuto a pagare dal giorno del fatto, ex art. 1219 c.c.. Infatti anche gli interessi compensativi dovuti dall’assicurato al terzo danneggiato, da calcolarsi sull’importo del risarcimento, costituiscono un “danno” causato dall’assicurato al terzo, e come tale beneficia della copertura assicurativa nei limiti del massimale (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 1885 del 11/02/2002, Rv. 552161-01; Sez. 3, Sentenza n. 4186 del 23/04/1998, Rv. 514836-01; tali decisioni hanno superato il precedente e remoto orientamento secondo cui gli interessi dovuti dall’assicurato al terzo danneggiato “hanno carattere moratorio e restano a carico dell’assicurato”, senza che questi potesse pretenderne la rifusione da parte dell’assicuratore (Sez. 3, Sentenza n. 2817 del 22/10/1963, Rv. 264376-01).
10.6.2. Il primo corollario che si ritrae da questo principio è che se, nonostante la mora dell’assicuratore, il massimale resti capiente rispetto al debito dell’assicurato per capitale ed interessi, nulla quaestio: l’assicuratore sarà tenuto a versare all’assicurato capitale ed interessi compensativi, computati secondo i criteri stabiliti da Sez. U., Sentenza n. n. 1712 del 17/02/1995).
10.6.2. Può poi accadere che il massimale assicurativo, capiente all’epoca dell’illecito, sia divenuto incapiente al momento del pagamento dell’indennizzo: vuoi per effetto del deprezzamento del denaro, vuoi per effetto della variazione dei criteri di liquidazione del danno.
In tal caso l’assicurato (e siamo al secondo corollario), se l’assicuratore avesse tempestivamente adempiuto l’obbligo indennitario, avrebbe beneficiato d’una copertura integrale della propria responsabilità. Di conseguenza, nel caso di mora, l’assicurato potrà pretendere dall’assicuratore una copertura integrale, senza riguardo alcuno al limite del massimale, giacchè l’assicuratore dovrà in tale ipotesi risarcire non il fatto dell’assicurato (per il quale vige il limite del massimale), ma il fatto proprio, e cioè il pregiudizio al diritto di garanzia dell’assicurato, derivato dal colposo ritardo nell’adempimento.
10.6.2. Il terzo corollario riguarda l’ipotesi in cui il massimale assicurativo già all’epoca del sinistro fosse incapiente.
In tal caso, quand’anche l’assicuratore avesse tempestivamente pagato l’indennizzo, l’assicurato non avrebbe giammai potuto ottenere una copertura integrale della propria responsabilità. Di conseguenza, se l’assicuratore incorre in mora debendi, sarà tenuto a pagare gli interessi legali (od, in alternativa, eventualmente il maggior danno, ex art. 1224 c.c., comma 2), sul massimale.
In questi casi infatti, costituendo il debito dell’assicuratore una obbligazione di valuta, non è possibile cumulare la rivalutazione del massimale e gli interessi. Delle due, pertanto, l’una: o il danneggiato avrà dimostrato di avere patito un “maggior danno”, cioè un pregiudizio causato dal ritardo nell’adempimento non assorbito dagli interessi legali, ed allora gli spetterà al risarcimento di quest’ultimo; ovvero nulla avrà dimostrato a tal riguardo, ed allora gli spetteranno i soli interessi legali.
11. E’ alla luce dei principi sin qui esposti che devono esaminarsi le censure proposte dalla società Generali col secondo motivo dei suoi ricorsi incidentali.
Con la prima censura, come si vide (supra, p. 10.2) la Generali ha lamentato di essere stata condannata a pagare somme eccedenti il massimale, senza che fosse stata formulata alcuna domanda nè di condanna al risarcimento per mala gestio, nè di condanna al risarcimento del “maggior danno” ex art. 1224 c.c., comma 2.
11.1. La censura è infondata.
Dall’esame degli atti emerge che B.A., con l’atto introduttivo del giudizio nei confronti del suo assicuratore della responsabilità civile, ne chiese la condanna al pagamento dell’indennizzo contrattualmente dovuto, “nei limiti del massimale rivalutato, trattandosi di debito di valore”.
D.G., dal canto suo, nell’atto di chiamata in causa del suo assicuratore ne chiese la condanna al pagamento dell’indennizzo “sino ad integrale concorrenza del massimale rivalutato”.
Nessuno dei due assicurati, dunque, ha mai formulato una domanda di condanna dell’assicuratore al risarcimento del danno per mala gestio, della quale del resto mancherebbe l’indicazione sinanche dei fatti costitutivi di essa: e correttamente tale assenza di domanda è stata rilevata dalla Corte d’appello (p. 95, sesto rigo, della sentenza impugnata).
La Corte d’appello, invece, rilevato che ambedue gli assicuratori avevano domandato la condanna dell’assicuratore ai pagamento del massimale “rivalutato”, ha ritenuto che tanto bastasse per provvedere in tal senso (sul presupposto espressamente dichiarato che per condannare l’assicuratore ai pagamento dei massimale rivalutato basti la mora o di “ritardata liquidazione”).
Vizio di ultrapetizione, pertanto, non vi fu. Ovviamente non costituisce vizio di ultrapetizione nè l’eventuale errore commesso nell’individuazione degli effetti della mora (del quale si dirà più oltre), nè l’eventuale erroneità nell’interpretazione e qualificazione della domanda, vizio che deve essere censurato in sede di legittimità con una censura ad hoc, nel caso di specie mai formulata (Sez. 2, Ordinanza n. 5153 del 21/02/2019, Rv. 652704-01; Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 28/06/2010, Rv. 613802-01; Sez. 1, Sentenza n. 12471 del 12/10/2001, Rv. 549614-01).
A questo proposito sarà utile rilevare, per evitare ulteriori incertezze in sede di rinvio, che non è stata in questa sede censurata la valutazione con cui la Corte d’appello ha ritenuto che i due assicurati, richiedendo la condanna dell’assicuratore al pagamento del massimale rivalutato, avessero per ciò solo implicitamente chiesto il ristoro del danno da svalutazione monetaria, evidentemente ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2.
In sede di rinvio, pertanto, che tale ultima domanda sia stata formulata non potrà più essere revocato in dubbio.
12. Con una ulteriore censura (supra, p. 10.3, lett. (a)) la Generali lamenta di essere stata condannata al pagamento del massimale rivalutato, nonostante i due assicurati non avessero mai provato nè di avere patito il “maggior danno” di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, nè che questo coincidesse con gli effetti della svalutazione monetaria.
12.1. La censura è fondata.
La Corte d’appello ha condannato la società Generali al pagamento dei massimale rivalutato non già sul presupposto che gli assicurati avessero dimostrato l’esistenza del “maggior danno” di cui all’art. 1224 c.c., comma 2. Lo ha fatto, invece, sul presupposto che l’assicuratore sia tenuto al pagamento della rivalutazione monetaria sul massimale “in caso di mora o di ritardata liquidazione”.
Questa affermazione è erronea in punto di diritto.
L’obbligo dell’assicuratore della responsabilità civile di pagamento dell’indennizzo è, come già detto, una obbligazione di valuta. Il ritardato adempimento d’una obbligazione di valuta, in virtù del principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c., comma 1, espone il debitore al pagamento dei soli interessi moratori di cui all’art. 1224 c.c., comma 1.
Se il creditore intenda ottenere un risarcimento maggiore, ivi compreso quello del danno causato dalla svalutazione monetaria, ha l’onere di domandarlo e di provarlo (art. 1224 c.c., comma 2), ovviamente anche in via presuntiva (Sez. U, Sentenza n. 19499 del 16/07/2008, Rv. 604419-01).
Il semplice fatto che l’assicuratore sia in mora, pertanto, non lo obbliga a pagare la rivalutazione del massimale, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d’appello. Il massimale rivalutato dovrà essere pagato dall’assicuratore soltanto se l’assicurato deduca e dimostri, anche con presunzioni semplici, che un tempestivo adempimento lo avrebbe messo al riparo dagli effetti dell’inflazione: circostanza, però, che nel caso di specie la Corte d’appello non ha affatto accertato.
12.2. La Corte d’appello, per giustificare il punto di sentenza qui cassato, ha richiamato a sostegno delle proprie conclusioni le sentenze di questa Corte pronunciate da Sez. 3, Sentenza n. 6155 del 13/03/2009, Rv. 607650-01 e da Sez. 3, Sentenza n. 23423 del 04/11/2014 (non massimata sul punto richiamato dalla Corte d’appello).
Tuttavia tali precedenti non sono pertinenti.
Cass. 23423/14, cit., infatti, non ha affatto affermato il principio per cui se l’assicuratore è in mora, per ciò solo è tenuto al pagamento anche della rivalutazione sul massimale. Ha affermato, invece, il ben diverso principio secondo cui il limite del massimale non opera per il debito di interessi e per quello di rivalutazione: ma ciò sempre che, ovviamente, gli uni e l’altra siano effettivamente dovuti. E la rivalutazione monetaria, come già detto, non è dovuta per il solo fatto che il debitore sia in mora, ostandovi l’art. 1277 c.c.; ma può essere dovuta solo a condizione che il creditore dimostri con qualunque mezzo di avere subito, per effetto della mora, un pregiudizio non ristorato dal mero conteggio degli interessi al saggio legale, ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2.
Principio identico venne affermato dall’altra sentenza richiamata dalla Corte d’appello (6155/09, cit.), e cioè che la condanna dell’assicuratore al pagamento del massimale rivalutato può avvenire solo ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2: e dunque non per il solo fatto che l’assicuratore sia in mora (il risarcimento del “maggior danno” ex art. 1224 c.c., comma 2, non è infatti una conseguenza automatica della mora), ma solo se sia dedotto e dimostrato il relativo pregiudizio.
13. Infondata, infine, è l’ulteriore censura con cui la società Generali lamenta che erroneamente la Corte d’appello avrebbe individuato il dies a quo della mora debendi dal momento in cui l’assicuratore avrebbe potuto, con l’ordinaria diligenza, stimare il danno causato dall’assicurato, fissato dalla Corte d’appello nel 1.11.2002.
Il principio al diritto applicato dalla Corte d’appello u infatti corretto, alla luce di quanto detto supra, p. 10.5.6. Lo stabilire poi se davvero la società Generali alla data del 1.11.2002 fosse o non fosse in grado di stimare il danno causato dal proprio assicurato, ed adempiere di conseguenza la propria obbligazione indennitaria, è valutazione di puro fatto, riservata al giudice di merito ed insindacabile in questa sede.
14. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata nella parte in cui ha liquidato il danno da mora ascritto alla società Generali, e la causa rinviata alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, la quale tornerà ad esaminare l’appello proposto dalla Generali Italia, ed ai fini dell’accoglimento delle domande di condanna ultramassimale della suddetta società non si limiterà ad accertare se l’assicuratore fosse in mora, ma indagherà se gli assicurati abbiano dimostrato, anche in via presuntiva, l’esistenza del maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2.
15. Il terzo motivo del ricorso incidentale della Generali.
15.1. Col terzo motivo la Generali lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 1224 c.c..
Espone che la Corte d’appello, dopo averla condannata a pagare la rivalutazione del massimale dal 1.11.2002 alla data della sentenza di primo grado (17.12.2012), l’ha condannata anche a pagare gli interessi legali dalla domanda (13.9.2005) all’effettivo saldo.
In questo modo, per il periodo compreso tra la domanda (2005) e la sentenza di primo grado (2012) la Corte d’appello ha cumulato la rivalutazione e gli interessi.
Tuttavia, se la condanna l pagamento della rivalutazione monetaria costituì una forma di liquidazione del maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, essa doveva sostituirsi al, e non cumularsi col computo degli interessi legali.
15.2. Il motivo, attenendo ai criteri di computo del danno da mora, e non all’an dello stesso, non è assorbito dall’accoglimento del motivo precedente.
15.3. Nel merito, il motivo è manifestamente fondato.
Il debito dell’assicuratore della responsabilità civile di pagamento dell’intero massimale è una obbligazione di valuta.
Nel caso di ritardato adempimento d’una obbligazione pecuniaria la legge accorda al creditore due tipi di risarcimento, alternativi tra loro:
-) se il creditore non dimostra di avere subito alcun pregiudizio, gli spetteranno gli interessi legali o quelli convenzionali precedentemente pattuiti (art. 1224, comma 1, c.c.);
-) se il creditore dimostra di avere subito un danno eccedente il saggio degli interessi legali, gli spetterà il risarcimento di tale danno, nei miti di quanto dedotto e provato (art. 1224 c.c., comma 2).
– Le due ipotesi sono tra loro alternative, e dunque il “maggior danno” di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, si sostituisce, e non si cumula, con gli interessi legali in mora (Sez. 2, Sentenza n. 12828 del 03/06/2009, Rv. 608547-01; Sez. U. Sentenza n. 19499 del 16/07/2008, Rv. 604419-01; Sez. 3, Sentenza n. 24747 del 28/11/2004, Rv. 600850-01; Sez. 3, Sentenza n. 14975 del 28/06/2006, Rv. 593042-01; Sez. 1, Sentenza n. 4035 del 16/04/1991, Rv. 471682-01).
15.4. Nel caso di specie la Corte d’appello, condannando l’assicuratore al pagamento della rivalutazione monetaria, ha evidentemente ritenuto sussistente una ipotesi di “maggior danno” ex art. 1224 c.c., comma 2. Non poteva, di conseguenza, maggiorare la somma rivalutata degli interessi legali per il periodo compreso tra la domanda e la sentenza di primo grado, perchè così facendo ha accordato al creditore sia il danno presunto di cui dell’art. 1224 c.c., comma 1, sia il danno concreto di cui al comma 2 della medesima norma: ipotesi che, per quanto detto, sono invece tra loro alternative.
16. Le spese.
16.1. Nei rapporti tra i germani M. da un lato, la Gestione Liquidatoria e D.F. dall’altro, la complessità della vicenda, la controvertibilità delle questioni, le incertezze della giurisprudenza e i problemi posti dal jus superveniens, costituiscono gravi motivi per disporre la compensazione integrale delle spese di lite, ex art. 92 c.p.c..
16.2. Nei rapporti tra la Gestione Liquidatoria e Mo.Pi. le spese vanno ugualmente compensate, ma per la diversa ragione che, non essendo il ricorso principale vòlto a rimettere in discussione la posizione di Mo.Pi., questi non aveva interesse ex art. 100 c.p.c. a resistere con un controricorso.
16.3 Nei rapporti tra la Generali Italia s.p.a. da un lato, D.F. ed B.A. dall’altro, le spese del giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso proposto dalla Gestione Liquidatoria della ASL della Provincia di Como;
(-) rigetta il ricorso proposto da D.F.;
(-) compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità era la Gestione Liquidatoria, D.F., la Cattolica, Mo.Pi., M.L. e M.D.;
(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte della Gestione Liquidatoria e di D.F. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione;
(-) accoglie il secondo ed il terzo motivo dei due ricorsi incidentali proposti dalla Generali Italia, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di, provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità relative al rapporto tra la Generali da un lato, ed i suoi assicurati, o loro successori, dall’altro.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 2 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019
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