LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 19452-2017 proposto da:
M.V., M.I., M.D., in qualità di eredi legittimi di MA.IS. e R.D., R.R.A. e A.S., eredi legittimi di AL.SE., domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ALESSANDRA GIURGOLA;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO PER I BENI CULTURALI E LE ATTIVITA’ CULTURALI E DEL TURIMO, MINISTERO ECONOMIA FINANZE, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 148/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata in data 8/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza in data 3/04/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato ALESSANDRA GIURGOLA;
udito l’Avvocato ATTILIO BARBIERI per l’Avvocatura dello Stato.
FATTI DI CAUSA
Nel 1972 Ma.Is., Al.Sa., M.R. ed E.E. convennero in giudizio il Ministero della Pubblica Istruzione, chiedendone la condanna al pagamento del premio, previsto dalla L. 1 giugno 1939, n. 1089, a cui ritenevano di avere diritto per aver scoperto la grotta poi denominata “*****”. Tale domanda venne accolta, limitatamente all’an, con sentenza non definitiva n. 717/1980 del Tribunale di Lecce.
Il Ministero per i Beni Culturali, succeduto al Ministero della Pubblica Istruzione, propose gravame avverso tale decisione, che venne poi riformata dalla Corte di appello di Lecce, con sentenza n. 214/1982, confermata dalle Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza 17 marzo 1989, n. 1346, sulla base di undici dichiarazioni, prodotte in giudizio in grado di appello dalla difesa erariale, sottoscritte dai proprietari di terreni soprastanti la grotta, i quali avevano negato di aver consentito le ricerche, con conseguente insussistenza del diritto al premio, secondo quanto previsto dall’art. 50, nel testo ratione temporis applicabile, della L. n. 1089 del 1939.
Si estinse, quindi, il giudizio N. R.G. 4857/1972 del Tribunale di Lecce, dinanzi al quale era stata proposta la domanda volta ad ottenere la condanna della P.A. al pagamento del premio e dinanzi al quale era ancora pendente il relativo giudizio per la determinazione dell’ammontare del premio stesso.
Con autonomo giudizio nel 1998 venne proposta querela di falso avverso le già richiamate undici dichiarazioni rese dai proprietari e il Tribunale di Lecce, con sentenza n. 1879/2006, depositata in data 24 ottobre 2006, accertò la falsità di una di tali dichiarazioni e, in particolare, di quella recante l’apparente sottoscrizione di Mo.An., risultando la firma apocrifa “come confermato dalla circostanza che il *****, data apposta sulla dichiarazione stessa, la predetta era ricoverata in ospedale”.
Con atto di citazione notificato il 21 giugno 2011, R.D., M.I. e M.V. e M.D., quali eredi di Ma.Is., nonchè R.R.A. e A.S., quali eredi di Al.Se., instaurarono il presente giudizio, formulando, nei confronti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, le seguenti domande: a) accertare nuovamente, ove occorresse, la falsità dell’apparente sottoscrizione della Mo.; b) dichiarare che la falsità della dichiarazione recante detta sottoscrizione aveva impedito il conseguimento del premio al quale gli scopritori della grotta avevano diritto; c) dichiarare che, ai fini del riconoscimento di detto premio, era all’epoca sufficiente “il solo consenso tacito ad accedere nel terreno (…) e non anche quello ad effettuare le ricerche e che il consenso all’accesso non era mai stato negato agli scopritori”; d) condannare il Ministero per i Beni e le Attività Culturali al pagamento, in loro favore, della somma di Euro 50.000.000,00, o di quella maggiore o minore da accertarsi in corso di causa, a titolo di premio per aver scoperto la grotta; e) in subordine, condannare la predetta amministrazione al pagamento della medesima somma “a titolo di risarcimento per equivalente”; f) in ogni caso, condannare entrambi gli enti convenuti “al pagamento della medesima somma a titolo di risarcimento di tutti i danni subiti, ex art. 48 c.p. e art. 476 c.p.c. (recte, 476 c.p.) e seg e artt. 221 c.p.c. e ss. artt. 2042 c.c. e segg. artt. 2059 e 2049 c.c.”.
I Ministeri convenuti si costituirono eccependo il difetto di giurisdizione, l’intervenuto giudicato, l’infondatezza della domanda dei danni e la prescrizione in relazione agli stessi.
Il Tribunale di Lecce, con sentenza del 5 settembre 2014, ritenne inammissibili le prime quattro domande per precedente giudicato, costituito dalle sentenze già sopra richiamate.
In particolare, quel Tribunale, in ordine alla domanda sub a), affermò che l’accertamento era già stato compiuto con efficacia di giudicato tra le parti dalla sentenza n. 1879/2006 del Tribunale di Lecce, non impugnata.
Quanto alle domande sub b), c) e d), il Tribunale rilevò che la non spettanza del premio, ai sensi della L. n. 1039 del 1989, art. 50 per avere gli undici proprietari dei terreni soprastanti “negato di aver consentito le ricerche” (v. sentenza n. 214/1989 della Corte d’Appello), era stata dichiarata con sentenza avente efficacia di cosa giudicata tra le parti e che gli effetti preclusivi di un nuovo accertamento della medesima questione derivanti dall’exceptio iudicati “perman(evano) benchè in detto giudizio si (fosse) giudicato in base a prova dichiarata falsa dopo la sentenza e l’unico modo per rimuoverli sarebbe stato l’esperimento dell’azione di revocazione, ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 2”, da promuovere, anche ai sensi della normativa allora vigente, nei confronti della sentenza emessa dalla Corte di appello.
Il Tribunale escluse, inoltre, che potesse compiersi, come richiesto dagli attori, “un nuovo accertamento in merito alla spettanza del premio sulla scorta del rilievo che i profili alla luce dei quali il riconoscimento del diritto al suo conseguimento (era stato in quella sede) richiesto avrebbero (avuto) carattere di novità, in quanto le questioni relative alla sufficienza, ai predetti fini, secondo il testo della L. n. 1039 del 1989, art. 50 allora vigente, del solo consenso tacito all’accesso e della sussistenza del medesimo nella vicenda per cui è causa non avrebbero formato oggetto di esame da parte del Tribunale e della Corte, nei giudizi definiti con la citale sentenze”, osservando, a tale riguardo, che: “posto che tali questioni non (erano) state esaminate nei suddetti giudizi perchè non dedotte, (anda)va rilevato che, come noto, il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, ragione per cui esse, potendo e dovendo essere dedotte nelle suddette sedi, non po(tevano) formare oggetto di esame nel presente giudizio”.
Il Tribunale rigettò le domande risarcitorie sub e) ed f) in base ai seguenti rilievi:
– la prima (qualificata come domanda di risarcimento danni da responsabilità extracontrattuale per aver fatto colposamente uso di atto falso) perchè prescritta per decorso del termine quinquennale (in quanto la dichiarazione poi dichiarata falsa era stata rilasciata il 10 dicembre 1980 e lo stesso giudizio per farne dichiarare la falsità era stato promosso nel 1998), e, in ogni caso, infondata (per varie ragioni specificate in quella sentenza);
– la seconda (qualificata come domanda di risarcimento dei danni derivanti dal reato di falso che gli attori presumevano essere stato commesso dal personale della Guardia di Finanza) perchè prescritta e comunque infondata in mancanza di prova del dolo.
Avverso la sentenza di primo grado R.D., M.I. e, M.V. e M.D., quali eredi di Ma.Is., nonchè R.R.A. e A.S., quali eredi di Al.Se., proposero gravame del quale il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Ministero dell’Economia e delle Finanze chiesero il rigetto.
La Corte di appello di Lecce, con sentenza n. 148/17, depositata in data 8 febbraio 2017, rigettò l’appello e condannò gli appellanti, in solido tra loro, al pagamento, in favore degli appellati, delle spese di quel grado del giudizio e diede atto della sussistenza dei presupposti di cui al t.u. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, essendo stato l’appello interamente rigettato.
Avverso la sentenza della Corte territoriale M.I., M.V. e M.D., quali eredi di Ma.Is. e di R.D., nonchè R.R.A. e A.S., quali eredi di Al.Se., hanno proposto ricorso per cassazione basato su sei motivi e illustrato da memoria.
Il Ministero di Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e il Ministero dell’Economia e Finanze hanno resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si deduce “Vizio della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c.”.
I ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la richiesta del premio per intervenuto giudicato, ritenendo che la rilevanza del solo consenso tacito all’accesso, stante la compatibilità con quello alle ricerche, ben avrebbe potuto essere già dedotta nel 1972, data di introduzione del giudizio, ovvero al momento della produzione delle dichiarazioni in fase di appello dalle quali risultava che era stato negato il solo consenso delle ricerche.
Ad avviso dei ricorrenti, tale statuizione sarebbe illegittima perchè non sarebbero deducibili in giudizio obbligatoriamente tutte le ragioni proponibili e non fatte valere in via di azione o eccezione – come sostenuto dalla Corte di merito – ma solo quelle che si presentino come un antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia, nel senso che deve ritenersi precluso alle parti la proposizione, in altro giudizio, di qualsivoglia domanda fondata su elementi fattuali e di diritto incompatibili con il diritto accertato.
Pertanto, secondo i ricorrenti, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe contraddittoria, avendo quel giudice, da una parte, dichiarato che nessuna incompatibilità logica vi fosse tra la domanda del premio in base al consenso tacito all’accesso e la statuizione negativa del riconoscimento a causa del diniego alle ricerche e, dall’altra, dichiarato la preclusione della prima domanda, perchè deducibile nel primo giudizio.
I ricorrenti assumono che l’insussistenza del consenso costituiva una causa di esclusione che il Ministero convenuto aveva interesse ad eccepire e non gli attori e che, peraltro, era stato già riconosciuto il premio per i beni mobili “il che escludeva la rilevanza di alcun diniego”; sostengono che, prodotte le dichiarazioni, si era discusso del solo diniego scritto alle ricerche non essendo in contestazione l’esistenza di un consenso tacito all’accesso, sicchè non vi sarebbe stata mancanza di diligenza, da parte degli stessi ricorrenti, a non dedurre su un fatto pacifico e non contestato (consenso tacito all’acceso) ma ingiustizia nell’operato dei giudici del gravame; avevano essi, quindi, impugnato la sentenza della Corte di appello per aver omesso quel Giudice di valutare la sussistenza del consenso tacito all’accesso ma questa Corte, con sentenza n. 1346 del 1989, aveva rigettato il ricorso per estraneità e novità della questione e non perchè deducibile nel precedente giudizio.
Secondo i ricorrenti, sarebbe contraddittorio sostenere contestualmente che la sentenza di legittimità appena richiamata ha dichiarato nuova la questione e che quest’ultima è non è proponibile perchè preclusa dal giudicato.
I ricorrenti deducono, altresì, l’illegittimità della statuizione con cui la Corte di merito, dopo aver ribadito che la questione del consenso tacito poteva essere dedotta sin dal primo grado del giudizio, sicchè non poteva essere rimessa in discussione, ha sostenuto l’identità tra le domande proposte nel presente giudizio e di cui al punto c) e d) di cui in narrativa e quella di cui al giudizio conclusosi con la sentenza di questa Corte n. 1346 del 1989, in quanto con entrambi si è chiesto il premio per la scoperta operata dagli attori; i ricorrenti lamentano che, a tale riguardo, la Corte di merito avrebbe omesso di fornire una motivazione adeguata e immune da vizi logici.
Conclusivamente i ricorrenti hanno chiesto a questa Corte di statuire che “il diritto al premio può essere concesso in quanto risulta provato, anche alla luce della declaratoria di falso della dichiarazione Mo., il consenso tacito all’accesso, fatto nuovo successivo e non coperto dal giudicato nè dedotto o deducibile che implica un accertamento compatibile con le precedenti pronunce, fondandosi su di un thema decidendum diverso”.
1.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
1.2. Il motivo è infondato in relazione ai vizi veicolati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Ed invero, la Corte di merito, condividendo pienamente la valutazione del primo giudice, ha ritenuto che era ormai precluso, in questo giudizio, dal precedente giudicato, l’accertamento volto alla declaratoria che, ai fini del riconoscimento del premio in parola, era all’epoca sufficiente il cd. consenso tacito ad accedere nel terreno e che il consenso all’accesso non era mai stato negato agli scopritori. A tale riguardo, quella Corte ha fatto corretta applicazione, nella specie, dei principi consolidati della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’autorità del giudicato copre il dedotto e il deducibile, e cioè non solo le ragioni giuridiche fatte valere in giudizio ma anche tutte le altre proponibili sia in via di azione che di eccezione – le quali, sebbene non dedotte specificamente/ si caratterizzano per la loro comune inerenza ai fatti costitutivi delle pretese anteriormente svolte, con la conseguenza che è precluso proporre in un successivo giudizio una domanda fondata su ragioni giuridiche che, seppure non prospettate nè espressamente enunciate in quello precedente, costituiscano tuttavia una premessa ed un precedente logico della relativa pronuncia (Cass. 4/11/2005, n. 21352; Cass., 30/06/2009, n. 15343; v. anche Cass., ord., 30/10/2017, n. 25745).
Come precisato da questa Corte con la sentenza 1/12/1994, n. 10279, pure richiamata dalla Corte di merito, il principio per cui il giudicato copre sia il dedotto che il deducibile comporta che, con riguardo all’accertamento in concreto della relazione giuridica tra le parti circa un determinato interesse, con un determinato petitum e una determinata causa petendi, non rileva se al giudicato si sia pervenuti in base all’accoglimento di determinate ragioni o argomentazioni o mediante la reiezione di altre, essendo sufficiente l’individuazione dell’interesse e del bene della vita tutelato dalla pronuncia del giudice, il quale non può essere rimesso in discussione in un successivo giudizio, al di fuori dei mezzi di impugnazione riconosciuti nei confronti della sentenza passata in giudicato, e salva la sopravvenienza di fatti e situazioni nuove, verificatesi successivamente al formarsi del giudicato o quanto meno non deducibili dalle parti nel primo giudizio; in particolare, in tema di rapporti obbligatori, l’individuazione del diritto coperto da giudicato, e, quindi, del bene della vita cui inerisce la pronuncia giudiziale, va correlata allo specifico fatto costitutivo allegato, nell’ambito del quale, però, esso copre tutte le possibili ragioni della sua affermazione o contestazione, anche indipendentemente dalla conoscenza che ne abbia avuto l’interessato, tranne quelle che dipendano da fatti verificatisi successivamente o comunque non deducibili entro il limite temporale rappresentato dal giudizio di merito, ed in conformità con il regime processuale dei mutamenti di domande e delle nuove deduzioni di fatto. Pertanto, correttamente la Corte di merito ha ritenuto che, nel caso all’esame, l’argomentazione secondo cui, ai fini del riconoscimento del premio ai sensi della L. n. 1089 del 1939, era sufficiente il solo consenso tacito dei proprietari ad accedere ai loro terreni, asseritamente ravvisabile nel comportamento degli stessi proprietari, e che non era, quindi, necessario anche il consenso ad effettuare le ricerche, ben avrebbe potuto essere dedotta dagli attuali ricorrenti già nel giudizio del 1972 e a tanto gli stessi non hanno provveduto; nè peraltro trattasi di questione che dipenda da fatti successivi al verificarsi delle preclusioni processuali e, comunque, tale deduzione ben avrebbe potuto essere prospettata anche all’esito della produzione, da parte della difesa del Ministero, nel secondo grado del primo giudizio, delle dichiarazioni, datate dicembre 1980 dei proprietari dei terreni in cui la scoperta è avvenuta e con le quali ciascuno di essi aveva negato di aver consentito le ricerche, proprio perchè tale diniego non escludeva un consenso tacito all’accesso dei terreni stessi.
In conclusione, la sufficienza del consenso tacito ben avrebbe potuto essere prospettata nel primo giudizio per ottenere il riconoscimento del diritto al premio in favore degli originari attori, sicchè, una volta negato tale diritto con efficacia di giudicato, tale statuizione non può essere rimessa in discussione in base ad una questione già deducibile nel primo giudizio sulla base non di un nuovo fatto costitutivo ma solo di una diversa modalità del presupposto del diritto (consenso tacito o presunto e non palese) fatto valere, pur se trattasi di diritto eterodeterminato.
Va, inoltre, evidenziato che questa Corte, con la sentenza n. 1346 del 1989, nel ritenere inammissibile il secondo motivo di ricorso, relativo al tacito o presunto consenso all’introduzione o alla ricerca nel fondo da parte dei proprietari, per non essere stata la questione mai sollevata nel giudizio di merito, aveva espressamente precisato che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, “il controllo di legittimità può investire soltanto la regolarità formale del processo e le questioni di diritto già sollevate nel corso della lite, rimanendo preclusa la proponibilità di nuove questioni di diritto o di temi di contestazione diversi da quelli proposti nel giudizio di merito, benchè in quest(o) proponibili, a meno che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio, o nell’ambito dei temi di contestazione trattati, di nuovi profili di diritto fondati sugli elementi di fatto già accertati”.
1.3. Il motivo è, inoltre, inammissibile ex art. 348 ter u.c. c.p.c. in relazione alle censure motivazionali pure proposte nell’illustrazione dello stesso, anche se non specificamente indicate nella rubrica del mezzo in parola.
Nell’ipotesi di cd. “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012 (si evidenzia che, nella specie, l’atto di citazione in appello è stato notificato il 4 novembre 2014, come risulta dalla sentenza impugnata, v. p. 1 e 4 e come si evince dallo stesso ricorso, v. p. 2), il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012), deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 22/12/2016, n. 26774; Cass. 10/03/2014, n. 5528).
Nella specie tale onere non risulta essere stato assolto dai ricorrenti.
2. Con il secondo motivo, deducendo “Vizio della sentenza ex art. 360, nn. 3 e 4 per violazione e falsa applicazione della L. n. 1089 del 1939, art. 50, art. 384 c.p.c., art. 391 ter, L. n. 40 del 2006, art. 27, art. 15 preleggi. Omessa statuizione sul diritto al riconoscimento del premio in base al consenso tacito”, si censura la sentenza della Corte territoriale nella parte in cui la stessa ha affermato che l’unico modo per rimuovere gli effetti del giudicato, stante il fatto sopravvenuto dell’accertamento del falso, sarebbe stato l’esperimento dell’azione di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 2, nei confronti della sentenza di appello n. 214/1982, le cui conclusioni si fondavano (come si legge nella sentenza impugnata in questa sede) anche sulla dichiarazione della sig.ra Mo., poi dichiarata falsa, e non nei confronti della decisione di questa Corte n. 1346/1989, che non poteva considerarsi sentenza di merito, sicchè non sussistevano limitazioni a proporre la revocazione anche prima dell’introduzione dell’art. 391-ter c.p.c..
Ad avviso dei ricorrenti, la già ricordata decisione di legittimità sarebbe una sentenza di merito non revocabile ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 2, in quanto l’art. 391-ter c.p.c., che ha ammesso tale revocazione avverso le sentenze di merito di questa Corte, è entrato in vigore dal 2006; pertanto, stante la non invocabilità dell’art. 391-ter c.p.c., “la fattispecie dei diversi giudicati” avrebbe dovuto essere risolta, ex art. 15 preleggi, dando prevalenza a quello che aveva dichiarato il venir meno dell’efficacia probatoria dell’atto scritto contenente la dichiarazione della Mo. rispetto a quello che aveva dichiarato sussistente la prova del diniego.
Conclusivamente i ricorrenti hanno chiesto che questa Corte “dichiari la inapplicabilità al caso di specie del rimedio di cui all’art. 395 c.p.c., n. 2) e art. 391 ter c.p.c. ex L. n. 40 del 2006 e la prevalenza del secondo giudicato ex art. 15 preleggi, che ha dichiarato il venir meno della efficacia probatoria dell’atto scritto contenente la dichiarazione della Mo.”.
2.1. Il motivo è infondato.
Come già evidenziato, in relazione al primo motivo, questa Corte, nella già più volte richiamata sentenza del 19891 non ha deciso nel merito la questione del consenso tacito, limitandosi a rilevarne la novità e inammissibilità in quella sede, sicchè i ricorrenti avrebbero dovuto esercitare, con le modalità e i tempi previsti, l’azione revocatoria nei confronti della sentenza di appello che aveva rigettato la domanda in relazione al premio richiesto e tanto assorbe ogni ulteriore questione proposta al riguardo.
3. Con il terzo motivo, deducendo “Vizio della sentenza, ex art. 360, n. 3, n. 4 per violazione dell’art. 2935 c.c., art. 221 c.p.c. e segg art. 2043 c.c. Vizio della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione e falsa applicazione dell’art. 2941 c.c., n. 8 art. 2049 e 2935 c.c.”, si censura la sentenza impugnata nella parte in cui – nel rigettare il secondo motivo di appello con cui era stata sindacata la decisione di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva ritenuto prescritto il diritto al risarcimento del danno fatto valere dagli attuali ricorrenti con le domande di cui ai punti e) ed f) riportati nei “Fatti di causa” – la Corte di appello ha ritenuto che, ai fini della domanda risarcitoria, non era necessario il preventivo esperimento della querela di falso, in quanto il carattere apocrifo della sottoscrizione della Mo. ben avrebbe potuto essere oggetto di accertamento incidentale, nell’ambito del giudizio promosso per il risarcimento del danno.
Sostengono i ricorrenti che la Corte territoriale avrebbe al riguardo richiamato precedenti giurisprudenziali riferiti a casi in cui in un giudizio risarcitorio era il pubblico ufficiale che richiedeva che un proprio atto, già accertato come falso, dovesse invece considerarsi valido laddove, nel caso all’esame, il risarcimento del danno è stato richiesto dagli eredi degli scopritori e non dai responsabili, ed assumono che per i danneggiati debba valere il principio per cui l’atto pubblico ha valenza probatoria erga omnes sino a querela di falso, la quale sarebbe, quindi, necessaria per rimuovere il valore legale di prova all’atto pubblico per poter avanzare la richiesta risarcitoria.
Pertanto, la Corte di appello avrebbe – ad avviso dei ricorrenti errato “per non aver fatto decorrere la prescrizione dall’accertamento giudiziale e dal conseguente passaggio in giudicato della declaratoria di falsità (del 12.12.2007), nelle forme di cui all’art. 221 e segg. (c.p.c.) quale presupposto imprescindibile ex art. 2935 c.c. per la successiva proposizione della domanda risarcitoria”.
I ricorrenti censurano, altresì, la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di merito ha affermato che, nella fattispecie, non trova applicazione l’art. 2941 c.c., n. 8, in quanto non vi è prova che i Ministeri appellati abbiano occultato il debito o fossero consapevoli dell’accaduto, in difetto di specifiche e pertinenti contestazioni degli appellanti. Deducono i ricorrenti di aver sostenuto che i Ministeri rispondono in via oggettiva per i fatti dolosi dei dipendenti, che ad occultare il debito sarebbero stati i marescialli della Guardia di Finanza, che avrebbero agito con dolo, sicchè del loro operato dovrebbe rispondere oggettivamente il Ministero, che in caso di danni risponde anche chi si sia avvalso soltanto del documento falso e che anche in tal caso troverebbe applicazione il più lungo termine di cui all’art. 2935 e 2947 c.c. e ciò senza alcuna indagine sull’elemento soggettivo di colui che ha fatto uso il documento.
Sostengono i ricorrenti che, in ogni caso, la PA debba rispondere a titolo di responsabilità indiretta per fatto altrui ex art. 2049 c.c. e a titolo di responsabilità diretta ex art. 2043 c.c., sussistendo nella specie, a loro avviso, la cd. occasionalità necessaria, essendo stato l’illecito commesso dai dipendenti nell’esercizio delle proprie funzioni e la condotta dolosa realizzata in adempimento di compiti d’ufficio.
I ricorrenti censurano altresì la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto ormai intervenuta la prescrizione, il che ha reso superfluo l’esame della fondatezza della pretesa risarcitoria, facendo decorrere tale prescrizione o dal 1982, data in cui era stata prodotta in giudizio la dichiarazione falsa della Mo., oppure dal 7 marzo 1989, data di deposito della sentenza di questa Corte n. 1346/1989, anno in cui si è consolidato il pregiudizio, essendo, invece, l’atto di citazione stato notificato nel 2011.
Sostengono i ricorrenti che tale statuizione contrasterebbe con i principi giurisprudenziali secondo cui la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e, pertanto, la data di decorrenza della prescrizione dovrebbe essere individuata nella data dell’accertamento del falso. Deducono, infine, di aver fatto valere il loro diritto risarcitorio con vari atti interruttivi fra i quali la raccomandata AR del 2010 e la notifica dell’atto di citazione nel 2011.
I ricorrenti hanno, quindi, chiesto che questa Corte “dichiari che fino all’accertamento del falso, tramite querela, la insussistenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno nei confronti dei Ministeri, responsabili dei fatti commessi dai dipendenti, anche perchè sospesa ex art. 2941 c.c., n. 8 e art. 2935 c.c. o comunque che vi era impedimento giuridico all’esercizio del diritto prima del giudicato sul falso” (così indicato a p. 22 del ricorso e riportato del tutto testualmente).
3.1. Il motivo è infondato.
Ed invero, ai fini della domanda risarcitoria in esame, non era affatto necessaria la preventiva proposizione della querela di falso, rilevando la sola percepibilità del falso per i pretesi danneggiati. Questa Corte ha, infatti, già avuto modo di affermare, con precedenti richiamati in modo pertinente anche dalla Corte di merito, che non è necessaria la querela di falso quando l’oggetto del giudizio è la responsabilità risarcitoria del soggetto cui si addebiti di aver confezionato un atto contraffatto, perchè in tal caso non si tende a rimuovere l’efficacia probatoria del documento, ma si controverte esclusivamente sulla responsabilità risarcitoria dell’autore della falsità (Cass. 22/06/2002, n. 9147; Cass. 7/04/1975, n. 1252).
Peraltro1 la querela di falso, ove la si fosse voluta comunque proporre, ben avrebbe potuto essere proposta, in via incidentale (v. Cass. 24/05/2007, n. 12086, cui fanno riferimento gli stessi ricorrenti) anche nell’ambito del giudizio volto ad ottenere il risarcimento del danno.
Dovendosi, quindi, ritenere che la mancanza di un accertamento con sentenza della falsità non integri gli estremi di un impedimento all’esercizio del diritto, rilevante agli effetti dell’art. 2935 c.c., la stessa non opera come causa di sospensione della prescrizione, sicchè non risulta pertinente il richiamo, da parte dei ricorrenti, a Cass. 27/08/2012, n. 14656, come pure evidenziato dalla Corte territoriale.
Quanto poi all’invocata causa di sospensione ex art. 2941 c.c., n. 8, la Corte di appello ha escluso, per difetto di prova, con valutazione in fatto incensurabile in questa sede, la sussistenza di un occultamento doloso del credito rilevante ai fini di tale norma, sicchè al riguardo non rileva la natura della responsabilità della PA per il fatto dei propri dipendenti, come pure rimarcato dalla Corte di merito che, ai fini che qui rilevano, ha evidenziato il difetto di specifiche e pertinenti contestazioni degli appellanti.
Pertanto, pur a voler ritenere, quale ipotesi più favorevole ai ricorrenti, che il termine per la prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorresse almeno dal momento in cui, con il passaggio in giudicato della sentenza che ha negato agli istanti il premio ai sensi della L. n. 1089 del 1939, si è consolidato il pregiudizio attribuito dagli attuali ricorrenti ai Ministeri convenuti e, quindi, dal 17 marzo 1989, data di deposito della sentenza di questa Corte n. 1346/1989, si osserva che, alla data della notifica dell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio (21 giugno 2011, v. sentenza impugnata p. 2 e ricorso p. 21), il diritto di cui si discute era ormai abbondantemente prescritto, in assenza, come accertato dalla Corte di merito (v. sentenza n. 9), di atti interruttivi stragiudiziali, senza che al riguardo sia stato proposto specifico motivo di ricorso, essendosi peraltro i ricorrenti limitati a richiamare, nell’illustrazione del motivo all’esame “la raccomandata a r del 2010 in atti” senza ulteriori precisazioni e senza riportarne testualmente il contenuto, con assoluto difetto di specificità sul punto.
4. Con il quarto motivo si deduce “Vizio della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per aver statuito ultrapetita riguardo alla prescrizione ed ex art. 360, n. 3 per violazione e falsa applicazione dell’art. 479 c.p.c., art. 2947 c.c.art. 2935 c.c.” e “si chiede che la Ecc. ma Corte che la prescrizione per i danni da reato di falso e di uso di atto di falso in atto pubblico con decorrenza dal termine quindicennale giudiziale; che la prescrizione quindicennale non è stata mai eccepita e non è decorsa ex artt. 2947 e 2935 c.c. e art. 2941 c.c., n. 8; che detto termine non è stato impugnato da controparte o eccepito; che il danno in virtù dei reati su citati deve ritenersi sussistere, atteso che la prova del dolo caratterizzante la condotta della Guardia di Finanza della quale rispondono i Ministeri deve ritenersi raggiunta anche ex art. 2727 e 2729 c.c.” (così si riporta del tutto testualmente quanto indicato a p. 28 del ricorso).
5. Con il quinto motivo, lamentando “Vizio della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa sul reato di inganno al giudice ex art. 48 c.p.c.” (così testualmente in ricorso, v. p. 4 e 28 del ricorso), si deduce che la Corte di merito, “pur affermando che le conclusioni della sentenza di rigetto del premio furono fondate sulla dichiarazione falsa della Mo.”, non avrebbe esaminato l'”ipotesi contestata di inganno al Giudice ex art. 48 c.p.c.” (così testualmente, v. ricorso p. 4, 28 e 29 del ricorso; v. anche p. 9 della memoria) e si chiede la riforma della sentenza per aver omesso di riconoscere i danni derivanti agli attori conseguenti alla fattispecie di reato appena richiamata.
6. I motivi quarto e quinto, che essendo strettamente connessi, ben possono essere esaminati congiuntamente, vanno disattesi.
Anzitutto si osserva che non rileva che i Ministeri convenuti non abbiano eccepito specificamente la prescrizione quindicennale del danno da reato, atteso che, in tema di prescrizione estintiva, l’elemento costitutivo della relativa eccezione è l’inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio e la manifestazione della volontà di profittare dell’effetto ad essa ricollegato dall’ordinamento, mentre la specificazione del tipo legale e la determinazione della durata di questa configura una quaestio iuris sulla identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale applicabile, che, previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione, compete al giudice (Cass. 20/01/2014, n. 1064; Cass. 25/07/2016, n. 15337; Cass. 5/07/2017, n. 16486).
Va, comunque, evidenziato che i motivi in scrutinio difettano pure, in parte, di specificità, non essendo stato riportato il tenore letterale del motivo di appello cui si fa riferimento nel quarto mezzo, in particolare per quanto attiene alla contestazione della decorrenza della prescrizione per il reato di falso (v. ricorso p. 23 e 24) nè si deduce quando e in quali termini sia stata prospettata, nei gradi di merito, la questione di cui al quinto mezzo, evidenziandosi che dalla stringata frase estrapolata dalla sentenza n. 1869/2006 riportata nel motivo da ultimo indicato non si evince certo un giudicato sulla sussistenza del reato cui – sia pure con un richiamo improprio a norma del codice di procedura civile – fanno riferimento i ricorrenti nel quinto mezzo.
Va rimarcato, inoltre, che manca l’accertamento, da parte dei Giudici del merito, del reato di falso ipotizzato dagli originari attori, anzi va evidenziato che il Tribunale aveva ritenuto non sussistente comunque la prova che l’atto falso fosse stato dolosamente formato dai verbalizzanti, nè, se non ad abundantiam, i giudici del merito hanno fatto riferimento alla prescrizione quindicennale.
L’esame di ogni altra questione pure proposta resta assorbita dalla, in ogni caso (quindi, pur a voler far decorrere la stessa dal 1998, data della notifica della querela di falso, v. p. 24 del ricorso), intervenuta prescrizione.
7. Con il sesto motivo, deducendo “Vizio della sentenza ex art. 360 c.p.c., nn. 4 e 3 per omessa pronuncia sul falso e violazione e falsa applicazione dell’art. 91 e 92 c.p.c. nonchè L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17”, si impugna la sentenza della Corte di merito “per non aver valutato la necessità o meno di effettuare un nuovo giudizio di falso per il caso che la sentenza n. 1879/2006 del Trib Lecce non abbia valenza erga omnes” e si chiede la riforma della statuizione sulle spese anche in caso di soccombenza, con conseguente compensazione, come pure richiesto, in via subordinata, dagli appellanti senza che sul punto la Corte di merito abbia statuito, disponendo ingiustamente anche in ordine alle sanzioni.
7.1. Anche il sesto motivo va disatteso.
7.2. La Corte di merito, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, non è incorsa nella lamentata omissione, avendo, al p. 4 di p. 11 della sentenza impugnata, espressamente affermato che “del tutto superfluo è l’esame del quarto motivo di appello, con cui si precisa che la domanda di ulteriore accertamento della falsità della dichiarazione era proposta solo per l’ipotesi che il precedente giudicato non avesse efficacia erga omnes” e tanto non risulta specificamente censurato dai ricorrenti.
7.3. Le doglianze relative alla non operata – dalla Corte di merito – compensazione delle spese di secondo grado, pur richiesta dagli appellanti, sono inammissibili in base al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altre gravi ed eccezionali ragioni (o di altri giusti motivi nel secondo il previgente testo della norma in questione) (Cass., ord., 31/03/2017, n. 8421; Cass., ord., 17/10/2017, n. 24502).
Pertanto, il giudice non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass., sez. un., 15/07/2005, n. 14989).
7.4. In relazione, infine, alla generica doglianza circa l’ingiusta disposizione delle sanzioni, si osserva che la stessa è inammissibile per difetto di specificità. Comunque, al riguardo si rimarca che il presupposto processuale dell’insorgenza dell’obbligo di versamento, da parte dell’impugnante, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per l’impugnazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis è collegato al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).
8. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
9. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
10. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, alle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida, in Euro 8.200,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2019
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