Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.32127 del 10/12/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, V. OSLAVIA 30, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO GIORDANO, rappresentato e difeso dagli avvocati MAURIZIO PIRAS, GIAN MARIO SECHI, NICOLA LITTARRU;

– ricorrente –

contro

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, V. OSLAVIA 30, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO GIORDANO, rappresentato e difeso dagli avvocati MAURIZIO PIRAS, GIAN MARIO SECHI, NICOLA LITTARRU;

– controricorrente –

e contro

F.F.;

– intimati –

nonchè da:

F.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUNIO BAZZONI 1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO ASCIANO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIOVANNI MARIA LAURO, GABRIELE RACUGNO, CRISTIANO CINCOTTI;

– ricorrente incidentale –

contro

P.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 670/2017 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 14/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/09/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale di P.G. e il rigetto del ricorso incidentale di F.F..

RILEVATO

che:

1. Con ricorso notificato il 13 febbraio 2018 P.G. impugna la sentenza numero 670-2017 dell’8 giugno 2017, pubblicata il 14 luglio 2017, resa dalla Corte d’appello di Cagliari nei confronti del medesimo e di F.F., con la quale la Corte distrettuale, pronunciando in via definitiva sul rinvio della Corte di cassazione ex art. 622 c.p.p., aveva accertato la responsabilità di quest’ultimo in ordine ai fatti ascritti e lo aveva condannato al pagamento in favore del ricorrente P.G. (P. G.) della somma di Euro 200.000 a titolo di risarcimento danni, nonchè alla rifusione delle spese processuali del giudizio di cassazione e del grado di appello. Al ricorso, affidato a due motivi, ha resistito F.F. (F. F.) con atto contenente controricorso e ricorso incidentale, notificato in data 10 aprile 2018, e affidato a 4 motivi. Il ricorrente ha notificato controricorso per resistere al ricorso incidentale e dedurne la tardività della notifica. Le parti hanno prodotto memorie.

2. La vicenda trae origine da un procedimento penale avviato da P. G. nei confronti di F. F. in relazione al reato di cui all’art. 2622 c.c., perchè quest’ultimo, in qualità di amministratore della società a r.l. di cui il ricorrente P. G. era socio di minoranza, con l’intento di ingannare il socio al fine di conseguire per sè un ingiusto profitto, nel bilancio infrannuale aveva omesso di riferire sulla situazione economica e patrimoniale reale della società, in particolare non riportando i ricavi effettivi pari a Euro 477.079,37 (relativi alle prestazioni effettuate dal 1 gennaio al 30 settembre 2008 dallo studio medico gestito dalla società alla ASL di Oristano), sì da indurre il socio a ritenere che la società versasse in stato di scioglimento ex art. 2484 c.c., n. 4, per riduzione del capitale al di sotto del minimo legale per perdite. L’imputato aveva chiesto di essere giudicato allo stato degli atti con rito abbreviato ex art. 438 c.p.c.; il ricorrente, in qualità di parte civile, aveva chiesto il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, compreso il danno all’immagine, nella misura che sarebbe stata quantificata con separato giudizio civile, a fronte del quale veniva pronunciata una provvisionale immediatamente esecutiva, per l’importo richiesto di Euro 200.000, dal GUP di Oristano. Avverso la sentenza veniva proposto appello dall’imputato e la Corte d’appello di Cagliari, in riforma del provvedimento impugnato, assolveva l’imputato perchè il fatto non sussiste. La parte civile, odierno ricorrente, impugnava la sentenza con ricorso per cassazione del 21 febbraio 2015, e la Corte di cassazione con sentenza numero 37570 dell’8 luglio 2015 annullava la sentenza per vizio motivazionale, rinviando per nuovo esame al giudice civile competente per valore. Con atto di citazione del 11 dicembre 2015 P. G. riassumeva il giudizio civile innanzi alla Corte d’appello di Cagliari, sezione civile, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni formulate sin dalla costituzione di parte civile nel 10 grado di giudizio, con richiesta di condanna generica e assegnazione della provvisionale pari a Euro 200.000,00, come quantificata dal GUP in sede penale. La Corte d’appello riteneva sussistere l’illecito sul piano civile e condannava il resistente F. F. al risarcimento del danno subito dal socio, quantificato definitivamente nella misura di Euro 200.000,00, respingendo le ulteriori voci di danno ritenute non provate o non inerenti alla lesione subita dal socio, come il danno all’immagine, riferibile invece alla società, non parte in causa.

CONSIDERATO

che:

1. QUESTIONE PRELIMINARE. Il ricorrente deduce preliminarmente la tardività della notifica del controricorso e del ricorso incidentale ex art. 370 c.p.c., osservando che il ricorso principale è stato notificato il 14 febbraio 2018 e che il controricorso recante ricorso incidentale sarebbe dovuto essere notificato entro il successivo 26 marzo 2018, mentre risulta essere stato notificato solo il 10 aprile 2018 via pec. La deduzione è infondata in quanto ai termini dell’art. 369 c.p.c. e dell’art. 370 c.p.c., il controricorso deve essere notificato entro 20 giorni dalla scadenza del termine di 20 giorni per il deposito del ricorso notificato. Sicchè, posto che il ricorso risulta essere stato notificato il 14 febbraio 2018 e il termine a quo decorreva dal 6 marzo 2018, con termine ad quem 26 marzo, sia il controricorso che il ricorso incidentale risultano ammissibili in quanto avviati per la notifica via posta nel termine di legge, dato il noto principio di scissione degli effetti della notifica.

2. RICORSO PRINCIPALE. Con il 1 motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorrente principale denuncia un vizio di extrapetizione o di ultrapetizione, ovvero di omessa motivazione o pronuncia sui danni, laddove la Corte d’appello ha pronunciato definitivamente una condanna al risarcimento integrale del danno sebbene il ricorrente avesse chiesto, in tutti i gradi del giudizio penale, la condanna generica del convenuto al risarcimento del danno, con la liquidazione di una provvisionale immediatamente esecutiva; si deduce che la Corte non abbia dato alcuna motivazione sull’interpretazione della domanda e comunque avrebbe violato l’art. 111 Cost., art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, artt. 163,277 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 118 disp. att. c.p.c. e all’art. 597 c.p.p.; il 2^ motivo di impugnazione attiene alla denuncia di nullità della sentenza per violazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, artt. 163 e 277 c.p.c., in quanto la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda di liquidazione delle spese processuali sostenute dalla parte civile nel precedente grado d’appello, celebrato davanti alla sezione penale.

2.1. Il primo motivo si dimostra infondato. La Corte d’appello civile, quale giudice del rinvio ex art. 622 c.p.p., ha ritenuto di dovere pronunciare definitivamente sulla domanda risarcitoria, “così dovendosi interpretare la domanda volta ad ottenere, accertata la responsabilità del F. in ordine ai fatti ascrittigli, la conferma di una provvisionale immediatamente esecutiva di importo non inferiore a Euro 200.000,00, liquidata dal Tribunale di Oristano”. Nel merito ha ritenuto non provati i danni maggiori vantati.

2.2. L’art. 622 c.p.p., consente alla parte civile che ottiene l’annullamento della sentenza penale, quanto ai suoi effetti civili, una piena translatio del procedimento avviato in sede penale sulla pretesa civile, qualora essa risulti pretermessa o non accolta nel giudizio penale, posto che in tali casi “fermi gli effetti penali della sentenza” il giudice di legittimità “annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato”, e quindi anche laddove, come nel caso in esame, ha statuito l’assoluzione dell’imputato perchè il fatto non sussiste.

Nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., si determina, difatti, una piena “translatio” del giudizio civile, sicchè la Corte di appello competente per valore, cui la Cassazione in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile, senza alcuna limitazione o preclusione riferibile al giudizio penale. Tutto quello che occorre decidere in ordine all’azione civile esercitata nell’ambito del processo penale costituisce, quindi, l’oggetto del giudizio di rinvio (cfr. da ultimo, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16916 del 25/06/2019).

2.3. Al di fuori dei casi in cui il giudicato penale di piena assoluzione abbia una forte valenza e predominanza, di converso, il giudizio civile che segue ad un annullamento disposto dal giudice di legittimità in sede penale per accoglimento del ricorso della parte civile contro una sentenza di proscioglimento o di assoluzione non patisce alcun tipo di condizionamento, e pertanto si estende all’intera pretesa risarcitoria, sia per l’aspetto inerente al fondamento della stessa che per quello dell’eventuale determinazione dell’ammontare risarcitorio (cfr. cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15859 del 12/06/2019; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5460 del 2014; Cass. pen. 30.1.2013, n. 11994; Cass. pen. 11.7.2012, n. 35922). Difatti, solo nella ristretta ipotesi di impugnazione del proscioglimento o dell’assoluzione, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., la parte civile ha piena legittimazione ad impugnare la decisione al fine di ottenere la rimozione dell’effetto preclusivo all’accertamento del suo diritto. In tale ipotesi può chiedere anche una diversa valutazione in ordine alla sussistenza dei fatti ed alla responsabilità dell’imputato al fine dell’esercizio dell’azione risarcitoria, con assoluto rispetto dell’intangibilità del giudicato penale, sul presupposto che le due responsabilità (civile e penali) corrono su piani differenti (cfr. Cass. pen. 3/6/96 n2491).

2.4. Il suddetto principio opera in maniera equivalente su fronti diversi, a seconda dei casi.

2.5. Ove la parte civile abbia chiesto in sede penale il pieno accertamento dei danni, il giudice remittente non potrebbe comprimere la domanda civile, poichè l’art. 622 c.p.c., non gli attribuisce il potere di imporre una scissione della decisione sull’an da quella sul quantum, costringendo la parte civile ad un processo ulteriore, e quindi a un incremento del tempo necessario per far valere compiutamente il proprio diritto al risarcimento o alle restituzioni, anche ove il giudice penale si sia limitato a pronunciare una condanna generica. Nè, peraltro, è sostenibile che in tale situazione il danneggiato assuma una posizione differente da quella già assunta in sede penale. Neppure, in tale eventualità, può sostenersi l’esistenza di una lesione del diritto di difesa della controparte, essendo stata anch’essa parte del giudizio penale in cui il danneggiato ha esercitato l’azione civile ed è stato posto nelle condizioni di difendersi dalla domanda della parte civile (Cass. 20 giugno 2017, n. 15182; in senso conforme, Cass. 25 settembre 2018, n. 22570 e 20 dicembre 2018, n. 32930). Pertanto, nel caso in cui il giudice penale si sia avvalso del potere di cui all’art. 539 c.p.p., riflettente l’ipotesi di pronuncia non definitiva di cui all’art. 278 c.p.c., con riserva al prosieguo per la liquidazione dei danni, il giudice penale può limitare ex art. 539 c.p.p., il giudizio sul quantum debeatur, già pienamente dedotto, a una sentenza non definitiva di condanna che riserva l’accertamento del definitivo importo di quantum debeatur a un successivo giudizio. Ciò tuttavia non comporta che, in sede di rimessione dell’azione civile al giudice civile previo annullamento della sentenza penale quanto agli effetti civili che ne derivano, la domanda di risarcimento possa essere in tali termini frazionata, essendo questo un potere riservato esclusivamente al giudice penale.

2.6. Qualora, dunque, il danneggiato abbia chiesto in sede penale l’accertamento della responsabilità civile, accompagnata da una condanna generica dell’imputato al risarcimento dei danni, da liquidarsi con separato giudizio civile, ed assegnazione di eventuale provvisionale, non è parimenti sostenibile che, una volta che il giudizio civile sia traslato in sede civile, la parte civile possa nuovamente scomporre la propria richiesta di danni senza riferirsi all’intera pretesa, essendo l’azione civile tornata nella sua naturale sede processuale, ove la pretesa non può configurarsi come “ipotetica o astratta”, dovendosi riferire a un danno in concreto subito. Ed invero, la richiesta di condanna al risarcimento dei danni, avendo come contenuto una declaratoria di riconoscimento del relativo diritto collegato a un illecito penale avente rilievo civile, una volta “affrancatasi” dal giudizio penale, postula – quale presupposto per il suo accoglimento – l’accertamento di un fatto da ritenersi, alla stregua di un giudizio di adeguatezza causale, produttivo di precise e determinate conseguenze dannose rilevanti sul piano della responsabilità civile collegata a un illecito. In sede di giudizio civile, una volta che questo sia ritornato nella sua naturale sede per effetto del rinvio operato dalla Corte di cassazione ex art. 622 c.p.p., sulla parte interessata incombe pertanto l’onere di indicare specificatamente i mezzi di prova dei quali intende avvalersi per la determinazione del “quantum”, dovendosi pervenire, in difetto di tale deduzione, in ipotesi, anche al rigetto della domanda di condanna generica (cfr. sul punto Sez. 2, Sentenza n. 23328 del 30/10/2006; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15686 del 27/07/2005).

2.7. Con riguardo all’estensione e ambito del giudizio civile riassunto dopo l’annullamento con rinvio operato dalla Corte di cassazione penale ex art. 622 c.p.p., si veda, per tutte, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15859 del 12/06/2019, ove si statuisce che il giudice del rinvio applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, adotta il criterio causale del “più probabile che non” e non quello penalistico dell’alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio. Più in generale, giova sottolineare che le recenti statuizioni della Corte di cassazione civile hanno inteso eliminare ogni ambiguità in ordine alla funzione del giudizio di rinvio nella particolare ipotesi in cui il giudice civile riceve, in restituzione, l’azione civile trattata in sede penale affinchè sia valutato l’illecito sotto il profilo civile, sia come fatto in sè costitutivo di un danno ingiusto ex art. 2043 c.c., sia per le conseguenze restitutorie e risarcitorie che esso comporta (cfr. anche Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 16916 del 25/06/2019).

2.8. Sicchè, la Corte d’appello de qua, investita ex art. 622 c.p.c, del giudizio civile di rinvio in merito all’illecito civile contestato in sede di giudizio penale – quest’ultimo definito con sentenza penale di assoluzione annullata dalla Corte di Cassazione penale solo in riferimento agli effetti civili che altrimenti ne conseguirebbero – nel caso concreto, ha qualificato la domanda di risarcimento dei danni in riferimento al fatto materiale rilevante ai fini civilistici (omessa appostazione di ricavi sociali nella situazione patrimoniale della società) e alla richiesta di correlati danni in concreto prospettati dalla parte civile nelle conclusioni dell’atto di riassunzione del giudizio civile, reputando che la quantificazione svolta dal giudice penale ai fini della concessione della provvisionale fosse condivisibile, e ciò in riferimento ai danni causalmente collegati all’illecito – civile – commesso dall’amministratore in danno del socio minoritario. Pertanto, ha rigettato la domanda relativa agli ulteriori danni, in quanto non provati, o comunque non direttamente riferiti alla persona del socio (come il danno all’immagine o il danno equivalente ai ricavi sociali occultati), ma alla società, che il socio nel giudizio civile de quo non aveva evidentemente inteso rappresentare. Trattasi, dunque, di una valutazione del campo di estensione della domanda di risarcimento civile per come è stata in concreto proposta in sede di giudizio di rinvio dalla parte civile, che non si traduce in vizio di extrapetizione, bensì – eventualmente – di motivazione, sotto il circoscritto profilo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio peraltro non dedotto dal ricorrente. Il giudice civile, difatti, ha il potere – dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio anche un “nomen juris” diverso da quello indicato dalle parti, incorrendo nel vizio di extrapetizione solo qualora sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio tra le parti (Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 5153 del 21/02/2019; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13945 del 03/08/2012; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15925 del 17/07/2007).

2.9. Ed invero, nel caso specifico, in questa sede non è neanche stata oggetto di censura la statuizione della Corte di appello civile circa la “non inerenza” dei danni, ulteriormente prospettati, “alla lesione effettivamente subita dal socio”, che la Corte di merito ha correttamente ritenuto essere nozione del tutto distinta dal danno “riflessosi” sulla quota sociale del socio che, come tale, è riconducibile al danno patrimoniale direttamente subito dalla società per effetto delle false dichiarazioni sociali in ordine alla composizione del patrimonio sociale, non rivendicabile dal socio in proprio e singolarmente se non per gli effetti che si riflettono sulla sua personale situazione patrimoniale. In altri termini, la Corte ha correttamente inteso considerare la pretesa civile del socio in riferimento al danno patrimoniale che il socio aveva legittimazione a pretendere in proprio, riferito dunque alla lesione ricevuta nella sua sfera individuale e patrimoniale, non riconoscendo i danni subìti dalla società, parte non in causa, come statuito espressamente nell’art. 2395 c.c., con riguardo all’azione civile del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitale (pacificamente applicabile anche all’azione sociale esperita dal socio di s.r.l. ex art. 2476 c.c., comma 5, qui in esame), eventualmente rilevanti per il socio in sede di ripartizione dell’attivo della società messa in liquidazione, una volta riconsiderati i bilanci sociali dal liquidatore nominato dall’assemblea ed effettuati i pagamenti dei debiti sociali, ex art. 2486 c.c., comma 2.

2.10. Il discrimen operato dalla Corte di merito nel considerare la pretesa risarcitoria del socio, per come è stata allegata, nei limiti in cui il socio si dimostrava legittimato a pretenderla, è in ogni caso corretto, posto che, nell’ambito dell’azione di cui all’art. 2395 c.c., il socio non avrebbe potuto chiedere il risarcimento di danni che costituiscono il mero riflesso del pregiudizio che ha colpito l’ente di cui era socio (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8458 del 10/04/2014; Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 21517 del 25/10/2016). Nè, nel ricorso si deduce un vizio relativo alla mancata considerazione della pretesa risarcitoria in relazione a pregiudizi, allegati ma non considerati dalla Corte di merito, che il socio avrebbe, in ipotesi, un interesse concreto a pretendere in proprio, ex art. 100 c.p.c.. Sotto questo profilo, dunque, la Corte di merito ha operato una valutazione complessiva della pretesa civile, portata alla sua cognizione dal socio minoritario, alla luce delle deduzioni e allegazioni offerte in ordine al danno complessivamente ricevuto dal socio di una società a responsabilità limitata che si è definitivamente sciolta, per come dedotte in sede di riassunzione del giudizio civile innanzi alla Corte d’appello civile ex art. 622 c.p.p., che, in ogni caso, non avrebbe dovuto indurre il socio a supporre che, una volta trasferita l’azione civile dalla sede penale alla sua propria sede naturale, la deduzione degli elementi costitutivi del danno complessivamente subito potesse riservarsi a un ulteriore separato giudizio, valendo essi quali necessari elementi costitutivi della pretesa risarcitoria contenuta nell’azione civile, valutata dalla Corte di merito nel suo complesso secondo gli usuali criteri di valutazione, non potendo essa presentarsi in termini generici e astratti.

3. Con riguardo alle spese del giudizio di appello, la cui valutazione è oggetto della seconda censura contenuta nel ricorso principale, il principio applicato dalla Corte distrettuale è corretto, nel senso che la Corte d’appello non avrebbe dovuto motivare il provvedimento sulle spese riferendosi distintamente ai due giudizi celebrati nel secondo grado, in sede penale e civile, stante l’annullamento della sentenza penale disposto dalla Corte di Cassazione, dovendo la Corte decidere in ragione dell’esito globale del giudizio di merito.

3.1. In linea generale ” il giudice del rinvio, al quale la causa sia rimessa dalla Corte di Cassazione anche perchè decida sulle spese del giudizio di legittimità, è tenuto a provvedere sulle spese delle fasi di impugnazione, se rigetta l’appello, e su quelle dell’intero giudizio, se riforma la sentenza di primo grado, secondo il principio della soccombenza applicato all’esito globale del giudizio, piuttosto che ai diversi gradi dello stesso ed al loro risultato” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 15506 del 13/06/2018; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7243 del 29/03/2006. In riferimento alla fattispecie in esame, poi, costituisce principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità (da ultimo: Cass., n. 11842/2003; Cass., n. 1737/2002; Cass., n. 6712/2001; Cass., n. 14892/2000) che il giudizio di rinvio instauratosi a seguito di annullamento, da parte della Corte di cassazione, della sentenza d’appello non si pone in parallelo con alcun precedente grado del processo, ma ne costituisce, per converso, fase del tutto nuova ed autonoma, ulteriore e successivo momento del giudizio (cosiddetto “iudicium rescissorium”) funzionale all’emanazione di una sentenza, che non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia (nè di primo, nè di secondo grado), riformandola o modificandola, ma statuisce, direttamente e per la prima volta, sulle domande proposte dalle parti (come – implicitamente confermato dal disposto dell’art. 393 c.p.c., a mente del quale all’ipotesi di mancata, tempestiva riassunzione del giudizio, non – consegue il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, bensì la sua inefficacia).

3.2. Difatti, nel sistema delle impugnazioni, soltanto all’appello va legittimamente riconosciuto carattere “sostitutivo” rispetto alla precedente pronuncia, nel senso che la sentenza di secondo grado è destinata a prendere il posto di quella di primo grado che, pertanto, non rivive per effetto della cassazione con rinvio della pronuncia d’appello (tanto che spetta al giudice del rinvio il compito di provvedere, in ogni caso, sulle spese di tutti i precedenti gradi di giudizio, incluso il primo). Si consideri che, in ipotesi, anche la mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina di conseguenza, ai sensi dell’art. 393 c.p.c., l’estinzione non solo di quel giudizio, ma dell’intero processo, con la derivata caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello stesso, eccettuate quelle già coperte dal giudicato (in quanto non impugnate), restando inapplicabile al giudizio di rinvio l’art. 338 c.p.c., che regola gli effetti dell’estinzione del procedimento di impugnazione. Conseguentemente, tornando al caso specifico, il giudice del rinvio ha il compito di provvedere globalmente sulle spese proprio perchè la sua sentenza non ha carattere sostitutivo di alcuna precedente pronuncia, ma definisce l’azione civile nel suo complesso (Cass. 22/05/2006, n. 11936; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15859 del 12/06/2019). Nè la parte ha fornito sufficienti indicazioni per far assumere che la valutazione complessivamente operata dalla Corte di merito abbia in qualche modo violato i minimi tariffari.

4. RICORSO INCIDENTALE. Il resistente, nel ricorso incidentale, denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, là dove la Corte d’appello non avrebbe considerato la circostanza, pur dedotta, che la società era stata messa in liquidazione volontaria dai soci ai sensi dell’art. 2484 c.p.c., n. 6, nonchè era stata sciolta per impossibilità di funzionamento dell’assemblea ai sensi dell’art. 2434 c.c., n. 3, avendo motivato la propria decisione unicamente sulla base della valutazione della Delib. di messa in liquidazione della società per perdita del capitale, ex art. 2484 c.c., n. 4; con il 2^ motivo denuncia violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento agli artt. 41,2043 e 2395 c.c. e artt. 40 e 41 c.p., laddove la Corte d’appello ha ritenuto che la predisposizione del bilancio straordinario della società da parte del socio di maggioranza e amministratore della società abbia determinato la messa in liquidazione della società, pur in presenza di una Delib. di liquidazione volontaria o comunque di scioglimento per impossibilità di funzionamento dell’assemblea, approvata e non oggetto di contestazione, ormai definitiva in quanto il relativo giudizio d’impugnazione è stato estinto. Con il 3^ motivo deduce violazione dell’art. 2622 c.c., per avere la Corte giudicato solo con riferimento all’elemento materiale del reato senza considerare il doppio requisito di dolo specifico costituito da: i) un inganno del socio e ii) finalizzato a conseguire per sè o altri un ingiusto profitto, entrambi necessari per integrare l’elemento soggettivo dalla fattispecie criminosa, mentre l’elemento materiale avrebbe dovuto essere integrato dall’idoneità delle false comunicazioni a determinare la volontà assembleare a sciogliere la società, non considerata dalla Corte di merito; con il 4^ motivo d’impugnazione deduce violazione e falsa applicazione della legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento agli artt. 1223,2043,26972909 c.c., art. 40 c.p.c. e la nullità della sentenza per violazione di artt. 115 e 278 c.p.c. e degli artt. 539 e 652 c.p.p., laddove la Corte d’appello ha ritenuto raggiunta la prova circa l’ammontare dei danni patiti, in assenza di prove, confondendo il danno – evento con il danno – conseguenza, richiamando a supporto della propria decisione la motivazione della sentenza numero 149/2012 resa dal GUP del Tribunale di Oristano che, al più, sarebbe valida per una provvisionale, pur essendo una pronuncia già definitivamente caducata a seguito dell’annullamento della sentenza penale disposto dalla Corte d’appello penale.

4.1. I motivi vanno trattati congiuntamente in quanto contengono tutti un vizio di fondo che ne determina due prevalenti profili di inammissibilità e infondatezza, non risultando le censure orientate a rappresentare un’ effettiva – violazione di norme sostanziali o a intaccare la ratio decidendi rinvenibile nella sentenza, del tutto corretta sul piano della ricostruzione fattuale e giuridica – della vicenda, sotto il profilo argomentativo qui in analisi.

4.2. In sintesi, gli argomenti utilizzati per censurare la sentenza, da un lato, vorrebbero indurre la Corte di merito a operare ex novo valutazioni di merito già compiutamente effettuate dalla Corte distrettuale circa la sussistenza di elementi idonei ad affermare la responsabilità civile del socio amministratore per la commissione del fatto illecito in danno del socio di minoranza e la sussistenza di conseguenze lesive per il socio minoritario, non tanto perchè derivanti dallo scioglimento anticipato della società, comunque sotto più profili approvato dall’assemblea, quanto piuttosto perchè collegati alle false dichiarazioni sociali rilasciate dal socio amministratore nel corso dell’assemblea con riguardo alla sussistenza di una situazione di integrale perdita del capitale sociale per perdite, a fronte di ricavi non contabilizzati. Il tema della responsabilità dell’amministratore nei confronti del socio, pertanto, è stato correttamente valutato con riferimento alla responsabilità dell’amministratore nei confronti del socio, per come risulta espressamente regolata nell’art. 2395 c.c., pacificamente applicabile alla s.r.l..

4.3. Dall’altro, si osserva che le censure si dimostrano infondate nella parte in cui intendono mettere in discussione le ragioni poste a fondamento della decisione di affermazione della responsabilità civile dell’amministratore della società a r.l. nei confronti del socio minoritario, per i danni da esso direttamente subiti e correlati alla condotta di malagestio societaria tenuta dall’amministratore nell’occultare i ricavi sociali, non appostati nella situazione patrimoniale sottoposta all’assemblea, convocata ai fini dello scioglimento anticipato della società.

4.4. L’elemento di rilievo considerato dalla Corte di merito per valutare la condotta dell’amministratore come determinante un danno ingiusto per il socio, il quale assume di essere stato danneggiato dalla condotta illecita dell’amministratore perchè, nei fatti, tenuto all’oscuro dei ricavi sociali di una società che si è sciolta in stato di apparente perdita del capitale sociale, con relative perdite da ripianare, è stato non tanto il formale motivo di scioglimento della società, approvato dall’assemblea per plurimi motivi (alla cui prosecuzione evidentemente non aveva più interesse lo stesso socio minoritario), quanto piuttosto l’effetto concreto, incidente direttamente sulla posizione del socio, prodottosi in relazione alle inveritiere attestazioni sociali rilasciate dal socio amministratore nel corso dell’assemblea, in termini di mancata rappresentazione di una situazione patrimoniale che, in tesi, avrebbe consentito al socio di partecipare a una distribuzione di utili o a una ripartizione dell’attivo, ovvero a prendere in considerazione una situazione patrimoniale diversa da quella di perdite di gestione e di capitale rappresentata dal socio amministratore.

4.5. Ed invero, con riferimento al caso de quo, inerente a un giudizio di responsabilità sociale dell’amministratore nei riguardi del socio minoritario, rientrante nel novero delle azioni sociali regolate dall’art. 2395 c.c., in combinato disposto con l’art. 2476 c.c., comma 5, la valutazione da farsi riguarda non tanto il danno subito dalla società a livello patrimoniale, corrispondente al maltolto (come ben sottolineato dalla Corte di merito anche in relazione al preteso danno all’immagine chiesto dal socio), bensì il margine di danno che è conseguito al socio minoritario per il fatto che l’amministratore ha tenuto il socio all’oscuro di una quota parte dei ricavi sociali, incassati in proprio dal socio amministratore, in termini di mancata distribuzione di utili o dell’attivo (nella misura in cui egli non è stato messo nella condizione di parteciparvi dopo lo scioglimento della società), in proporzione alla quota sociale detenuta: ripartizione che, in caso di dichiarazioni veritiere, vi sarebbe probabilmente stata in proporzione alla quota sociale detenuta, secondo un giudizio di causalità effettuato dalla Corte di merito con gli usuali parametri civilistici di valutazione utilizzati nel determinare la sussistenza di un danno civile quale conseguenza di una determinata condotta illecita (in termini di causalità adeguata), rilevante anche in sede di giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.c., come sopra visto (cfr. da ultimo, per tutte, Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 16916 del 25/06/2019). Il socio, pertanto, non avrebbe dovuto sopportare oneri o perdite patrimoniali, valutati nella misura complessiva di Euro 200.000, che invece si è trovato a dover sostenere per effetto della condotta illecita dell’amministratore.

4.6. Sotto questo profilo, pertanto, non assume rilievo la mancata considerazione, da parte della Corte distrettuale, dell’abbandono del parallelo giudizio di impugnazione della Delib. sociale di scioglimento, instaurato dal socio minoritario nei confronti della società, trattandosi di un’ azione demolitoria che attiene al piano della valutazione della sussistenza di vizi formali, nella Delib. sociale, in grado di invalidarne gli effetti riportando la società allo status quo ante; difatti, costituisce principio consolidato che la rinuncia all’impugnazione di una Delib. sociale da parte di un socio, anche se fondata su false attestazioni sociali, non comporta, quale diretta e automatica conseguenza, una contestuale rinuncia al diritto del socio di rivalersi dei danni provocati dagli amministratori, certamente capaci di rendersi responsabili nei confronti dei soci, ex art. 2395 c.c., a prescindere dall’acquiescenza dei soci alle delibere in ipotesi nulle, rilevanti, invece, sul piano dell’organizzazione interna societaria (cfr. per tutte, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6300 del 03/12/1984). Lo stesso principio risulta oggi riflesso nel disposto di cui all’art. 2434 c.c., in tema di effetti della Delib. di approvazione del bilancio di una società di capitale, in cui si prevede che l’approvazione del bilancio non importa la liberazione degli amministratori dalle responsabilità incorse nella gestione.

4.7. In ogni caso, come sopra osservato, la misura di risarcimento del danno attribuito al socio non è stata valutata in relazione al ricavo occultato dall’amministratore, spettante invece alla società, ma in proporzione alla quota di prevedibili utili o benefici spettanti al socio in base a un giudizio di adeguatezza causale svolto con criteri civilistici (del più probabile che non), posto che, come ben argomentato dalla Corte di merito, il danno doveva considerarsi limitatamente al vantaggio che il socio avrebbe prevedibilmente ottenuto, in proporzione alla propria quota, per effetto della rappresentazione di quel ricavo (occultato) nella situazione patrimoniale sottoposta dall’amministratore alla valutazione dell’assemblea ai fini della deliberazione di scioglimento, corrispondente a una posta attiva di rilievo (oltre Euro 400.000,00).

4.8. Come sopra detto al par. 2, difatti, la valutazione dell’illecito civile è stata correttamente effettuata, sul piano della responsabilità civile, nel naturale terreno in cui l’azione civile è tornata dopo il giudizio penale conclusosi con l’assoluzione dell’imputato, prendendo in analisi la condotta illecita contestata dalla parte civile all’amministratore nel gestire la società, e integratasi nell’avere omesso di riferire all’assemblea gli effettivi ricavi sociali, che avrebbero pertanto permesso al socio minoritario di orientare diversamente le sue scelte, anche in relazione al suo diritto di ricevere utili o di pronunciarsi in merito alla necessità di ripianare le perdite registrate, non avendo rilievo in tale sede di giudizio civile la nozione penalistica di responsabilità, da valutarsi entro i ristretti contorni del fatto di reato contestato in sede penale, relativo all’ipotesi di false dichiarazioni sociali di cui all’art. 2622 c.c., rilevante in termini di dolo specifico. L’illecito civile si riferisce, in tal caso, alla lesione causata direttamente al socio dalla condotta illecita tenuta dall’amministratore nell’avere omesso, anche solo colposamente, di appostare il ricavo sociale (incassato in proprio) nella situazione patrimoniale sottoposta all’esame dell’assemblea, assunta in violazione delle funzioni di “buon governo” societario, e fonte di responsabilità civile per l’amministratore già solo considerando i parametri di diligenza descritti nell’art. 2476 c.c., comma 1, riferiti alla società a r.l..

4.9. In definitiva, la condotta illecita concretamente ascritta all’amministratore ai fini risarcitori, come tale, sul piano civile assume un raggio di azione lesiva e di rilevanza molto più ampio della condotta illecita di false dichiarazioni sociali contestata e valutata in sede penale ai sensi dell’art. 2622 c.c., non avendo rilievo che il giudizio penale cui ha preso parte il socio quale parte civile sia stato definito con assoluzione perchè il fatto non sussiste sul piano penale, posto che la sentenza di annullamento della Cassazione, resa in sede di impugnazione della parte civile, ha tolto ogni effetto alla sentenza penale sul piano civile, ivi compreso quello relativo alla valutazione della condotta illecita assunta in danno della parte civile (cfr. per tutte, Cass. Sez. 3-, Sentenza n. 16916 del 25/06/2019, in motivazione).

4.10. Pertanto, alla luce di quanto sopra osservato, le censure relative ai criteri con cui è stato effettuato il giudizio di responsabilità civile dalla Corte di merito, in sede di giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p., si dimostrano infondate.

5. Conclusivamente la Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale, con compensazione integrale delle spese di giudizio tra le parti, reciprocamente soccombenti.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale;

per l’effetto, compensa le spese tra le parti;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi principale e incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2019

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