LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26251/2018 proposto da:
D.V., D.L., D.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PILO ALBERTELLI 1 (FAX 0698933754 – TEL 0644233842), presso lo studio dell’avvocato LUCIA CAMPOREALE, rappresentati e difesi dall’avvocato SALVATORE STARA;
– ricorrenti –
contro
GENERALI ITALIA SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CILIBERTI, che la rappresenta e difense;
e contro
L.G., PUBLIGEST SRL IN LIQUIDAZIONE, UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, WICENTINA PREZIOSI, C.R., C.D.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 474/2018 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 23/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.
FATTI DI CAUSA
Venendo a decidere sulla pretesa risarcitoria formulata dal coniuge D.L. e dai figli D.A. e V., avente ad oggetto i danni patrimoniali e non subiti a causa del decesso della – rispettiva – moglie e madre U.L., in conseguenza del sinistro stradale per il quale era stata accertata la concorrente responsabilità di L.G. e di PUBLIGEST s.r.l. (rispettivamente conducente e proprietaria del veicolo assicurato per la RCA con Generali Italia s.p.a., già Assitalia s.p.a.) e di C.V. – anch’esso deceduto nel sinistro – e di “Wicentina Preziosi di B. e R.T. s.n.c.” (rispettivamente conducente e proprietaria del veicolo assicurato per la RCA con UNIPOL-SAI Assicurazioni s.p.a., già Milano Ass.ni s.p.a.), la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza 19.4.2018 n. 474, rigettava l’appello principale degli eredi D. e gli appelli incidentali proposti da L., Publigest s.r.l. e Generali Italia s.p.a..
Il Giudice di seconde cure:
confermava la inammissibilità della domanda risarcitoria estesa dagli attori D. tardivamente, oltre la preclusione formatasi nella fase di trattazione, nei confronti degli eredi di C. e della società di persone (“Wicentina Preziosi di B. e R.T. s.n.c.”), che erano stati chiamati in causa, con domande condizionate di regresso e manleva, dai convenuti L., PUBLIGEST s.r.l. e Generali Italia s.r.l..
rigettava la domanda dei D. intesa ad ottenere il risarcimento del danno patrimoniale futuro, determinato dal mancato apporto economico che la U. avrebbe continuato ad erogare a vantaggio dei membri della propria famiglia, rilevando che tale voce di danno patrimoniale non era stata oggetto delle allegazioni dei fatti svolti nell’originario atto di citazione, avendo peraltro specificato il procuratore degli appellanti principali, alla udienza 6.10.2011, che la pretesa riguardava soltanto il ristoro dei danni “materiali” riportati dal veicolo e dei danni “non patrimoniali” conseguenti al decesso dell’ U., non potendo essere surrogato l’onere di allegazione del “nuovo” danno patrimoniale futuro dalla produzione documentale, della quale non era stata specificata la utilità e la rilevanza probatoria
– rigettava la domanda dei D. volta a riliquidare un maggiore importo per il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, avendo il primo Giudice valutato tutti i criteri indicativi utili a formulare in via equitativa la definizione quantitativa dell’importo risarcitorio, essendo stati considerati in particolare quali elementi rilevanti 1- la sopravvivenza di altri congiunti, 2- la continuità del sistema affettivo e relazionale ed il reciproco conforto, 3- la possibilità di sviluppo della vita, avuto riguardo alla età dei soggetti coinvolti.
Avverso la sentenza di appello, notificata in data 28.5.2018, hanno proposto ricorso per cassazione D.L., A. e V. deducendo quattro motivi, illustrati da memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
Resiste con controricorso Generali Italia s.p.a..
Non hanno svolto difese gli altri intimati ai quali il ricorso è stato notificato: a) in data 28.7.2018, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., a “Wicentina Preziosi di B. e R.T. s.r.l.”; b) in data 1.8.2016, ex art. 149 c.p.c., a C.R., ed in data 31.7.2018, a C.D., n.q. di eredi di C.V.; c) in data 27.7.2018, presso i rispettivi difensori domiciliatari, ad ASSITALIA Le Assicurazioni d’Italia s.p.a., a L.G. ed a PUBLIGEST s.r.l. in liquid., nonchè ad UNIPOL-SAI Assicurazioni s.p.a..
RAGIONI DELLA DECISIONE
La eccezione pregiudiziale, proposta da Generali Italia s.p.a., di passaggio in giudicato della sentenza impugnata nei confronti di D.A. per difetto di procura speciale ex art. 365 c.p.c., da questi rilasciata per la proposizione del ricorso per cassazione è infondata.
La carenza della procura ad litem, essendosi limitato D.A. a “delegare” il padre D.L. a sottoscrivere, anche in suo nome, la procura speciale, attraverso un messaggio di posta elettronica non certificata, trasmesso in data 20 luglio 2018 con allegato copia del documento identificativo (carta di identità), da ritenere insanabile diversamente da quanto ipotizzato dal difensore dei ricorrenti nella memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c. (essendo inapplicabile al giudizio di legittimità, come alle altre ipotesi disciplinate dall’art. 125 c.p.c., la sanatoria di cui all’art. 182 c.p.c.: Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 13431 del 13/06/2014; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 1255 del 19/01/2018), deve ritenersi superata alla stregua della verifica dell’originale del ricorso per cassazione che reca in calce all’atto di procura ad litem, congiunto materialmente al ricorso, anche la sottoscrizione autografa di D.A., oltre a quelle di D.L. e di V..
La eccezione pregiudiziale, proposta dai ricorrenti, di nullità della sentenza di appello per vizio di costituzione del Giudice, in quanto la sostituzione del Giudice relatore (il Dott. C.P.L. è stato sostituito dalla Dott.ssa S.M.) non è stata comunicata al difensore, è inammissibile per difetto del requisito ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non avendo assolto la parte ricorrente all’obbligo di indicare compiutamente il fatto processuale (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 8077 del 22/05/2012). E’ stata, infatti, del tutto omessa la allegazione del fatto integrativo della violazione dei criteri stabiliti dall’ordinamento giudiziario in ipotesi commessa nella adozione del provvedimento di supplenza, neppure essendo dato apprezzare se, in ipotesi, il magistrato designato per primo giudice relatore, fosse ancora in servizio presso la Corte d’appello di Cagliari ovvero fosse stato destinato ad altra sede (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 189 del 10/01/1997 sull’onere, gravante sul ricorrente, della specifica allegazione della violazione commessa determinante il vizio di costituzione del Giudice).
Tanto più considerando che la composizione del Collegio giudicante è immodificabile, ex art. 276 c.p.c., solo dopo l’inizio della discussione: prima di tale momento, la sostituzione del giudice relatore può essere liberamente disposta e risultare anche da semplice annotazione nel verbale di udienza, senza comunicazione; nè tale ultima evenienza pregiudica il diritto di difesa, potendo la parte, cui non sia noto il nome dei giudici chiamati a trattare o decidere la causa, proporre istanza di ricusazione prima dell’inizio della trattazione o della decisione, ex art. 52 c.p.c., comma 2 (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 4589 del 26/04/1991; id. Sez. 3, Sentenza n. 13393 del 09/10/2000; id. Sez. 1, Sentenza n. 12948 del 13/07/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 22658 del 29/10/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 8066 del 31/03/2007; id. Sez. 2 -, Sentenza n. 7285 del 23/03/2018).
Può dunque accedersi all’esame dei motivi di ricorso.
Primo motivo:
– violazione artt. 1394 e 2055 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nonchè – violazione art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 277 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).
I ricorrenti impugnano la statuizione della sentenza di appello che ha dichiarato inestendibile la domanda ai terzi chiamati eredi C. e Milano Assicurazioni s.p.a.. Riproducendo gli stessi argomenti già svolti nell’analogo motivo di gravame dedotto con l’atto di appello, sostengono che la non estensione della domanda al terzo, successivamente intervenuto nel giudizio, va limitata ai soli casi in cui “il convenuto danneggiante chiami in garanzia il proprio assicuratore”.
Il motivo è in parte infondato, ed in parte inammissibile per difetto del requisito prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3).
Nella specie non è discusso il principio di diritto – richiamato sia dal Giudice di appello che dagli stessi ricorrenti – enunciato nel precedente di questa Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8411 del 27/04/2016 (peraltro meramente confermativo dell’indirizzo già affermatosi nella giurisprudenza di legittimità: cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20610 del 07/10/2011; id. Sez. L, Sentenza n. 12317 del 07/06/2011; id. Sez. 1 -, Ordinanza n. 5580 del 08/03/2018) secondo cui la presunzione di estensione “automatica” della domanda nei confronti del terzo, opera soltanto quando ricorra il presupposto della chiamata in causa del terzo con indicazione di esclusiva o concorrente responsabilità, ma non anche nel caso in cui la chiamata sia stata svolta solo a titolo di garanzia impropria o di regresso, ossia allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall’attore come “causa petendi”.
La Corte territoriale (sentenza appello in motivazione pag. 13) ha argomentato ampiamente il rigetto del motivo di gravame, ritenendo – in base all’esame delle comparse di risposta di Assitalia s.p.a. e del L. e di PUBLIGEST s.r.l., nelle quali si richiedeva la autorizzazione alla chiamata in causa dei terzi -, che i convenuti avessero inteso formulare soltanto domande di rivalsa o di regresso ex art. 2055 c.c., comma 2, senza contestare la propria responsabilità come affermata dagli attori D. (avendo essi chiamato i terzi in giudizio “in quanto responsabili solidali ai sensi dell’art. 2055 c.c., precisando….di agire a titolo di manleva o comunque in regresso”), e, quindi, ha applicato alla fattispecie la regola di giudizio desunta dai principi tratti dai precedenti di questa Corte secondo cui, in tale caso, non opera il principio di estensione automatica della domanda.
La statuizione che decide sul motivo di gravame risulta pertanto assistita dal prescritto svolgimento delle ragioni giustificative della pronuncia e dunque non sussiste la asserita nullità per omessa pronuncia, o per assoluta carenza di motivazione, dovendo ritenersi infondata la relativa censura.
La Corte territoriale si è conformata, peraltro, ai principi di diritto enunciati in materia da questa Corte (cfr. per una ricostruzione sistematica: Corte Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 30601 del 27/11/2018) secondo cui:
qualora il convenuto in un giudizio di risarcimento dei danni chiami in causa un terzo con il quale non sussiste alcun rapporto contrattuale, indicandolo come il vero legittimato passivo, non si versa in un’ipotesi di chiamata in garanzia impropria (o manleva), la quale presuppone la non contestazione della suddetta legittimazione, ma di chiamata del terzo responsabile, con conseguente estensione automatica della domanda al terzo che il giudice può e deve esaminare senza necessità che l’attore ne faccia esplicita richiesta (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20610 del 07/10/2011; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 24294 del 29/11/2016; id. Sez. 1 -, Ordinanza n. 5580 del 08/03/2018). L’estensione automatica della domanda dell’attore nei confronti del terzo chiamato in causa dal convenuto, opera, dunque, solo quando tale chiamata sia effettuata dal convenuto per ottenere la sua liberazione dalla pretesa attorea (cfr. ancora recentemente, Corte Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 5580 del 08/03/2018).
il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al chiamato in causa da parte del convenuto non trova applicazione allorquando il chiamante, senza postulare la esclusione della propria responsabilità (ed anzi presupponendola), faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall’attore come “causa petendi”, come avviene nell’ipotesi di chiamata di un terzo in garanzia, propria o impropria, o di azione condizionata di regresso nei confronti del terzo chiamato in coobbligazione. In tal caso è infatti rimessa in via esclusiva all’attore la scelta – ove consentita dalla situazione giuridica dedotta nell’atto di chiamata in causa – di proporre o meno autonoma domanda anche nei confronti del terzo chiamato (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25559 del 21/10/2008; id. Sez. L, Sentenza n. 12317 del 07/06/2011; id. Sez. 2, Sentenza n. 8411 del 27/04/2016);
in particolare, relativamente alla ipotesi in cui il convenuto chiami un terzo in giudizio indicandolo come soggetto (cor)responsabile della pretesa fatta valere dall’attore e chieda, senza rigettare la propria legittimazione passiva, soltanto di essere manlevato delle conseguenze della eventuale soccombenza nei confronti dell’attore, il quale a sua volta non estenda la domanda verso il terzo, è stato affermato che il cumulo di cause integra un litisconsorzio facoltativo ed ove la decisione di primo grado abbia rigettato la domanda di manleva in sede di impugnazione dà luogo ad una situazione di scindibilità delle cause (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5444 del 14/03/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 23308 del 08/11/2007): si è quindi affermato che, qualora il convenuto in un giudizio di risarcimento dei danni, chiami in causa un terzo indicandolo come soggetto (cor)responsabile della pretesa fatta valere dall’attore per chiedere di essere manlevato in caso di accoglimento della pretesa attorea, senza porre in dubbio la propria legittimazione passiva, si versa in una ipotesi di chiamata in garanzia, nella quale non opera la regola della automatica estensione della domanda al terzo chiamato, atteso che la posizione assunta dal terzo nel giudizio non contrasta, ma anzi coesiste, con quella del convenuto rispetto all’azione risarcitoria, salvo che l’attore danneggiato proponga ritualmente nei confronti del chiamato (quale coobbligato solidale) una nuova autonoma domanda di condanna, nell’osservanza delle preclusioni determinate dalla fasi processuali (cfr. Corte Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 30601 del 27/11/2018 Sez. 3 -, Ordinanza n. 30601 del 27/11/2018);
relativamente invece alla ipotesi in cui la chiamata del terzo, da parte del convenuto in giudizio di risarcimento danni, sia svolta esclusivamente ai fini dell’accertamento della sua corresponsabilità quale autore della condotta concorrente causalmente efficiente alla produzione dell'”eventus damni”, ossia la chiamata abbia come unico petitum la estensione al terzo chiamato dell’eventuale accertamento di corresponsabilità e della condanna al risarcimento dei danni in favore dell’attore danneggiato, senza che venga introdotto nel giudizio un distinto rapporto obbligatorio tra chiamante e chiamato, allora la richiesta risarcitoria deve intendersi estesa al medesimo terzo anche in mancanza di un’espressa dichiarazione in tal senso dell’attore – e sempre che quest’ultimo non rifiuti espressamente di agire anche verso il terzo chiamato -, poichè la diversità e pluralità delle condotte produttive dell’evento dannoso non dà luogo a distinte obbligazioni risarcitorie, non mutando l’oggetto del giudizio (cfr. Corte Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 31066 del 28/11/2019).
Orbene tali principi non vengono messi in discussione dai ricorrenti, venendo in questione, piuttosto, la esatta individuazione della “causa” della chiamata di terzo – ossia la esatta rilevazione dei fatti costitutivi allegati dal chiamante dai quali inferire se la chiamata sia finalizzata a far accertare che il chiamato è l’unico responsabile o è anch’egli corresponsabile nei confronti dell’attore o invece sia finalizzata ad ottenere la condanna del chiamato a tener indenne il convenuto, per altro titolo, di quanto questi debba pagare all’attore dovendosi a tal fine privilegiare, sulle formule adoperate, l’effettiva volontà del chiamante in relazione alla finalità, in concreto perseguita.
Ma se questo è il nucleo della censura, allora i ricorrenti avrebbero dovuto confutare esplicitamente l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte d’appello nella rilevazione ed interpretazione del contenuto degli atti di chiamata in causa, argomentando in modo critico l’errore in cui sarebbe caduto il Giudice di merito nell’affermare che i convenuti non avevano effettuato una mera chiamata a discarico o limitata alla sola estensione della responsabilità verso il danneggiato.
A tal fine occorreva “in primis” adempiere all’onere di specifica descrizione del fatto e quindi del contenuto degli atti di chiamata in causa, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3: orbene, tale onere è stato parzialmente osservato, quanto al solo atto di chiamata in causa notificato da ASSITALIA s.p.a. (ricorso pag. 4, lett. CC) – a)….), ma la domanda rivolta ai terzi chiamati evidenzia un contenuto che smentisce inequivocamente la tesi difensiva dei ricorrenti. ASSITALIA s.p.a., infatti, ha chiesto la condanna dei terzi chiamati “a rimborsare quelle somme…..che fosse tenuta a corrispondere agli attori oltre la quota parte di responsabilità attribuenda al sig, L.G. per capitale accessori e spese legali”, con ciò venendo in rilievo una pretesa meramente condizionata alla pronuncia relativa al rapporto principale, integrante tipicamente una azione di regresso tra coobbligati solidali, e dunque un rapporto che, se pure dipendente dalle sorti del rapporto principale, sorge “inter alios” ed è del tutto autonomo rispetto a quest’ultimo.
La laconica indicazione nel ricorso (pag. 4) che L. e PUBLIGEST s.r.l. avevano effettuato una chiamata “analoga”, oltre a non assolvere al prescritto requisito di ammissibilità, non prospetta, peraltro, alcun diverso contenuto della domanda idoneo a sostenere l’assunto difensivo.
Nè può assumere dirimente rilievo la circostanza, allegata dai ricorrenti, secondo cui i chiamati in causa, costituendosi in giudizio, si erano difesi contestando la propria responsabilità nella produzione dei danni lamentati dagli attori D.. E’ appena il caso di osservare, infatti, come il soggetto evocato in giudizio – anche soltanto ai fini della estensione soggettiva del giudicato “inter alios” -, bene può avere interesse al risultato dell’accertamento del rapporto principale (tra attore e convenuto originario), a tal fine potendo sia sostenere la tesi della esclusiva responsabilità del chiamante, così da elidere lo stesso presupposto della azione di regresso proposta dal chiamante nei suoi confronti, sia sostenere adesivamente la tesi difensiva svolta dal convenuto-chiamante nei confronti dell’attore, onde impedire l’accoglimento della domanda attorea che altrimenti potrebbe innescare la pretesa condizionata di regresso (in tal senso giustificandosi, per l’appunto, la eccezione di prescrizione formulata dai convenuti L. e PUBLIGEST s.r.l. e richiamata da T.B. n.q.: ricorso pag. 4 lett. CCI).
Secondo motivo:
– violazione art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.; dell’art. 2727 c.c. e dei principi giurisprudenziali in materia di valutazione della prova (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);
– violazione art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 277 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).
I ricorrenti si dolgono della statuizione con la quale la Corte d’appello ha rigettato il secondo motivo di gravame con il quale si chiedeva di estendere la liquidazione risarcitoria anche al danno futuro da perdita del contributo economico che il soggetto deceduto avrebbe continuato ad apportare alla famiglia.
Anche in questo non sussiste il vizio di omessa pronuncia o carenza assoluta di motivazione, avendo la Corte territoriale argomentato ampiamente il rigetto del motivo di gravame.
Venendo ad esaminare la censura per vizio di “error in judicando” si osserva quanto segue.
La Corte territoriale, confermando la decisione del Tribunale, ha ritenuto che la richiesta verteva su domanda nuova inammissibile, non essendo stata allegata, in nessuno degli atti del giudizio di primo grado, tale voce di danno patrimoniale, avendo i danneggiati soltanto richiesto il ristoro del danno patrimoniale per la distruzione della vettura e i danni non patrimoniali per la perdita del congiunto.
I ricorrenti affermano, invece, di avere richiesto anche il risarcimento di tale pregiudizio, sia in citazione (a pag. 8) che nelle conclusioni precisate alla udienza 4.10.2012, dovendo ascriversi a mero errore la esplicita limitazione delle voci di danno, soltanto al danno materiale all’autovettura ed al danno non patrimoniale, compiuta dal difensore alla udienza 6.10.2011: la estensione della domanda anche a tale voice di danno sarebbe stata in ogni caso supportata dalla prova documentale relativa ai redditi di entrambi i coniugi (doc 4 e 7 prodotti in primo grado).
Tanto premesso, la censura dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dichiarata inammissibile, in quanto attraverso il vizio di “error in judicando” si viene a veicolare un diverso vizio per “errore di fatto” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avente ad oggetto la rilevazione od interpretazione del contenuto degli atti processuali, se non addirittura un “errore percettivo” circa la esistenza di un fatto incontrovertibile, ipotesi quest’ultima sindacabile esclusivamente attraverso il rimedio della revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4.
Orbene la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda, è attività riservata al Giudice di merito ed è insindacabile se non nei ridotti limiti in cui:
a) l’errore ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del Giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
b) l’errore si traduca in un vizio del ragionamento logico decisorio, ma anche in tal caso, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere dedotto come vizio di nullità processuale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;
c) ove poi l’errore coinvolga la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, allora in tal caso, la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 o al vizio di “error facti”, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012.
Escluso che nella fattispecie si verta in tema di “qualificazione giuridica” della fattispecie, o che si deduca un vizio di “violazione del contraddittorio” (con la sostituzione d’ufficio di un’azione diversa rispetto a quella formalmente proposta) o risulti violato il “principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato” (con riferimento al motivo di gravame, concernente il “tantum devolutum quantum appellatum”), la questione che si pone nel caso in esame attiene al significato da attribuire alle espressioni lessicali utilizzate nel contenuto testuale della domanda introduttiva, come incontestatamente rilevate, venendo in rilievo pertanto l’interpretazione della domanda che è operazione riservata al giudice del merito, il cui risultato è censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 2148 del 05/02/2004), e dunque risulti “travisato” il contenuto della domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio con conseguente errato convincimento che il suo successivo sviluppo costituisca domanda nuova (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 11755 del 24/06/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 12909 del 13/07/2004).
Il Giudice in tal caso deve procedere, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, indipendentemente dalle espressioni adoperate dalla parte, ad accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte nonchè dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 27428 del 13/12/2005), soccorrendo a tal fine esclusivamente il criterio ermeneutico volto ad indagare il contenuto che emerge dal testo dell’atto, secondo il significato fatto palese dalle parole in base alla loro connessione logica, ed evincibile dalla complessiva lettura del contenuto dell’atto, avuto riguardo anche alla situazione dedotta in giudizio ed allo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 10840 del 10/07/2003; id. Sez. U, Sentenza n. 3041 del 13/02/2007), restando esclusi – evidentemente – i criteri ermeneutici soggettivi ed oggettivi- previsti per gli atti negoziali, che implicano la ricerca della comune intenzione delle parti (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4754 del 09/03/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 24847 del 24/11/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 25853 del 09/12/2014).
Tanto premesso anche a volere riqualificare correttamente la censura svolta come errore sulla espressione lessicale intesa come fatto-significante, risolventesi in una omessa pronuncia sulla intera domanda risarcitoria, il motivo si palesa privo di fondamento in quanto dall’esame dell’atto di citazione non emerge alcuna indicazione della specifica tipologia della voce di danno patrimoniale concernete il mancato futuro apporto ai bisogni della famiglia, essendosi limitati gli eredi D. a richiedere “il risarcimento dei danni patrimoniali…..ed extrapatrimoniali in conseguenza del decesso della rispettiva moglie e madre…. nella misura di Euro 619.748,28… o in quella maggiore o minore che sarà accertata nel corso del giudizio” (atto citazione proposto avanti al Tribunale di Cagliari). Tale espressione è del tutto generica e non assolve colui che propone la domanda di risarcimento del danno dall’onere di specifica allegazione non soltanto dei fatti integranti la condotta illecita, l’eventus damni e la connessine causale tra la prima ed il secondo, ma anche delle conseguenze pregiudizievoli che sostiene avere subito in quanto di diretta derivazione (secondo il criterio indicato nell’art. 1223 c.c.) dall’evento lesivo, conseguenze che debbono pertanto: 1- essere correttamente individuate nel loro aspetto ontologico (attività individuatoria che attiene all’esercizio del potere di allegazione, rimesso in via esclusiva alla parte, e che non può essere confusa con la successiva classificazione giuridica fondata sulla natura del danno e sulla distinzione – generalmente accolta – tra le categorie patrimoniale e non patrimoniale nell’ambito delle quali ricondurre i singoli danni); 2- ritualmente dimostrate in giudizio, attraverso la verifica processuale dei mezzi probatori, non avendo cittadinanza nell’ordinamento il cd, “danno in re ipsa”, soccorrendo il criterio equitativo di liquidazione del danno soltanto nei casi di oggettiva difficoltà nella determinazione dell’ammontare del quantum (art. 1226 c.c., cui rinvia l’art. 2056 c.c., comma 1), ma non anche nella prova dell'”an” e cioè della effettiva esistenza del pregiudizio risarcibile.
Richiedere il risarcimento di tutti i danni patrimoniali derivati dall'”eventus damni”, non assolve pertanto dall’onere di specificare in concreto quali individuati pregiudizi di natura patrimoniale siano effettivamente derivati e debbano essere valutati quali perdita attualmente subita o che certamente verrà a prodursi in futuro. Essendo appena il caso di osservare come l’attività di deduzione probatoria (avente ad oggetto i fatti allegati e contestati) non possa surrogare il mancato svolgimento della attività allegatoria dei fatti, venendo a collocarsi l’esercizio dei due poteri su un piano diacronico e non sincronico, come è dato evincere dalla sequenza dell’assegnazione dei rispettivi termini che le parti possono richiedere ed il Giudice assegnare nella fase di trattazione, per la definizione del “thema controversum” e del “thema probandum”: ne consegue che la mera produzione in giudizio della dichiarazione dei redditi dei coniugi non consente di recuperare retroattivamente all’oggetto del giudizio la omessa allegazione dello specifico pregiudizio patrimoniale relativo al mancato apporto economico della “de cuius” ai bisogni della famiglia.
La pronuncia della Corte d’appello va dunque esente da censura in quanto conforme al principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui “in virtù del principio “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, il giudice ha il potere-dovere di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in giudizio, nonchè all’azione esercitata in causa, potendo porre a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purchè i fatti necessari al perfezionamento della fattispecie ritenuta applicabile coincidano con quelli della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, essendo allo stesso vietato, in forza del principio di cui all’art. 112 c.p.c., porre a base della decisione fatti che, ancorchè rinvenibili all’esito di una ricerca condotta sui documenti prodotti, non siano stati oggetto di puntuale allegazione o contestazione negli scritti difensivi delle parti.” (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 30607 del 27/11/2018).
Terzo motivo:
– violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c. e dei principi giurisprudenziali in materia di liquidazione equitativa;
– violazione art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 277 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).
La censura intende contestare la inadeguatezza della misura dell’importo risarcitorio accordata, sostenendo che il Tribunale avrebbe applicato i valori minimi in uso presso le Tabelle di Milano anno 2013, mentre, in difetto di elementi significativi che giustificassero particolari scostamenti in aumento o diminuzione, si sarebbe dovuto applicare il valore medio.
Il motivo è inammissibile.
Consentito al Giudice di merito di operare nel “range” dei valori indicati tabellari nel minimo e nel massimo, la individuazione del “quantum” può essere sindacata soltanto nel caso in cui:
a) il Giudice non abbia tenuto in considerazione specifici elementi circostanziali allegati e dimostrati in giudizio che impongano di valutare in modo differente la rilevanza della perdita del familiare rispetto a quegli indicatori considerati nelle Tabelle in quanto comunemente riscontrabili in casi simili;
b) il Giudice abbia esplicitamente dichiarato di correlare la determinazione del “quantum” ad elementi circostanziali incongrui e manifestamente illogici, tali da non giustificare in alcun modo la diminuzione o l’aumento disposti;
c) il Giudice, pur avendo correttamente rilevato gli elementi circostanziali in base ai quali operare le valutazioni presuntive della entità del danno, abbia poi attribuito a tali elementi un valore manifestamente sproporzionato per difetto o per eccesso.
Nella specie il Giudice di merito, come rilevato dalla Corte d’appello, aveva indicato i criteri presuntivi sui quali aveva basato la valutazione equitativa del danno non patrimoniale.
Tale “modus procedendi” non è, dunque, trasmodato in una liquidazione “equitativa pura”, caratterizzata dalla applicazione di criteri meramente soggettivi, nè tanto meno è sconfinato nell’arbitrio, inteso come assenza di qualsiasi indicazione dei criteri che hanno orientato la “aestimatio”, atteso che – al contrario – vengono forniti dal Giudice di merito i criteri obiettivi idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto ed a consentire la verifica “ex post” del ragionamento seguito dal Giudice in ordine all’apprezzamento della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20895 del 15/10/2015).
Ne segue che, a fronte di una chiara esposizione nella motivazione della sentenza del criterio di liquidazione applicato dal Giudice di merito, spettava ai ricorrenti dedurre specificamente gli argomenti fattuali e giuridici intesi specificamente ad evidenziare quali aspetti di illegittimità inficiassero il criterio di liquidazione integrativa, per violazione di eventuali criteri legali o per assoluta contraddittorietà o ancora per conclamato contrasto oggettivo con i dati di comune esperienza (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1529 del 26/01/2010; id. Sez. L, Sentenza n. 12318 del 19/05/2010).
Con il quarto motivo i ricorrenti non deducono specifiche censure, limitandosi soltanto a richiedere una riliquidazione del danno non patrimoniale in dipendenza dell’accoglimento del motivo di ricorso che precede, dichiarato infondato.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2020
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