LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1783-2017 proposto da:
RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ENZO MORRICO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente principale –
contro
R.U., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L. CARO 62, presso lo studio dell’avvocato SIMONE CICCOTTI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 1806/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 14/07/2016 R.G.N. 8108/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/11/2020 dal Consigliere Dott. PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI.
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. con sentenza 14 luglio 2016, la Corte d’appello di Roma condannava R.F.I. s.p.a. al pagamento, in favore di R.U. a titolo risarcitorio per il demansionamento subito, della somma di Euro 237.558,68 oltre rivalutazione ed interessi da ottobre 2005, nel resto rigettandone l’appello avverso la sentenza di primo grado, di reiezione delle sue domande risarcitorie dipendenti dalla privazione di mansioni e dalla condotta aziendale di mobbing per il periodo dal 19 febbraio 2000 al 24 ottobre 2005, data del suo licenziamento: così condannando la società alla rifusione, in favore del lavoratore, delle spese di entrambi i gradi di giudizio in misura due terzi e compensandole tra le parti per il terzo residuo;
2. in esito ad ampia ricostruzione dei fatti e chiariti i limiti dell’analogo trattamento subito dal dirigente dalla fine del 1998 al 19 febbraio 2000 (data di deposito del ricorso introduttivo del precedente giudizio) accertato con sentenza della stessa Corte capitolina n. 9140/2008 (integralmente confermata dalla sentenza n. 5579/2012 della Corte di Cassazione), che aveva condannato la società al risarcimento, in favore del lavoratore, del danno biologico (stimato in misura permanente pari al 35% fino all’attualità dell’esame condotto dal C.t.u. nel giugno 2007 e comprensivo anche della sofferenza psichica derivante dal demansionamento), equitativamente liquidato in Euro 120.000,00, ma non anche del danno alla professionalità nella ravvisata carenza di puntuale allegazione degli effetti della perdita di ulteriori incarichi sulle sue possibilità lavorative, la Corte territoriale ne riconosceva invece la risarcibilità nell’odierno giudizio;
3. in virtù di una calibrata ripartizione tra le parti del rispettivo onere probatorio, essa riteneva dimostrato il demansionamento denunciato dal dirigente per l’ulteriore periodo, in aggiunta al precedente e, con articolato ed argomentato ragionamento probatorio, un danno non patrimoniale alla professionalità e all’immagine, che liquidava in via equitativa nell’importo di Euro 237.558,68 (pari al 60% dell’ultima retribuzione mensile moltiplicata per i sessantotto mesi del demansionamento accertato), oltre i suindicati accessori;
4. essa negava invece, in difetto di puntuali allegazioni, il danno patrimoniale da perdita di chance e così pure, in assenza dei requisiti di configurabilità del mobbing pure denunciato, il relativo danno rivendicato;
5. con atto notificato il 12 gennaio 2017, la società ricorreva per cassazione con unico motivo, cui il lavoratore resisteva con controricorso contenente ricorso incidentale articolato su due motivi, cui la società replicava con controricorso;
6. entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1;
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
1. la ricorrente deduce violazione degli artt. 2697 e 2103 c.c., per l’inosservanza della corretta ripartizione dell’onere della prova, spettando al lavoratore, che denunci di essere stato demansionato, la dimostrazione della mancata adibizione a mansioni confacenti alla qualifica posseduta e non al datore di lavoro, che essa contesti (come nel caso di specie), di avere invece provveduto ad una utilizzazione consona (unico motivo);
2. esso è infondato;
2.1. la Corte territoriale ha accertato in fatto, in esito alla prova orale esperita, il mancato svolgimento da parte del lavoratore di mansioni proprie della qualifica dirigenziale di appartenenza (così al terz’ultimo capoverso di pag. 5 della sentenza). Ciò in difetto di prova dell’effettivo svolgimento di concreti compiti e di quanto indicato” nell’ordine di servizio n. 138/AD del 15 settembre 2004, di assegnazione al predetto della posizione di Project manager alle dirette dipendenze del Responsabile del Patrimonio Immobiliare presso la Direzione Amministrazione, Finanza, Controllo e Patrimonio, meramente dedotta dalla società datrice (così all’ultimo capoverso di pag. 5 della sentenza), a fronte dell’allegazione del lavoratore di essere stato privato di ogni mansione a decorrere dal 30 dicembre 1998, di avere continuato a segnalare negli anni (ed anche nelle more del primo giudizio introdotto per denunciare tale propria condizione) lo stato di inattività in cui era stato lasciato, essedo stato reinserito nell’organigramma aziendale in virtù del citato ordine di servizio, senza tuttavia che gli fossero assegnati né risorse né compiti reali (così al penultimo capoverso di pc9 2 della sentenza);
2.2. non sussiste pertanto l’inversione dell’onere della prova denunciata, non avendolo il giudice attribuito ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni: posto che la violazione denunciata non ricorre laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia operato delle prove proposte dalle parti (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395);
2.3. la Corte capitolina ha anzi correttamente applicato (ai primi tre capoversi di pg. 6 della sentenza) il principio di diritto, assolutamente consolidato, secondo cui, quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., incombe su quest’ultimo l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento ovvero che esso fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., per impossibilità della prestazione derivante da una causa a sé non imputabile (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26477). E ciò per il diritto del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per le quali sia stato assunto, senza una loro riduzione (se non per le ragioni suindicate) né tanto meno eliminazione, avendo egli l’onere di allegare gli elementi di fatto significativi circa l’inesatto adempimento dell’obbligo di adibizione a mansioni corrispondenti alla categoria e qualifica di appartenenza o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte (Cass. 22 dicembre 2015, n. 25780, con ampio richiamo di precedenti conformi in motivazione): in applicazione del principio generale, secondo cui in tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere di provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (Cass. s.u. 30 ottobre 2001, n. 13533);
3. il lavoratore controricorrente a propria volta deduce, in via di ricorso incidentale, violazione degli artt. 1223,1225 e 1226 c.c., per il mancato risarcimento del danno da perdita di chance, in conseguenza della decurtazione della retribuzione e della mancata percezione di bonus o di altra forma di incentivo comprovate e del non essere stato valutato ai fini di un incremento professionale; neppure il danno risarcibile dovendo necessariamente dipendere da una condotta di inadempimento doloso motivato da un fine illecito o persecutorio, quale il mobbing (primo motivo);
4. esso è infondato;
4.1. anche qui la Corte territoriale ha compiuto un accertamento, congruamente argomentato (per le ragioni esposte al p.to 6b, dal quart’ultimo al penultimo capoverso di pg. 10 della sentenza), in ordine alla deduzione del risarcimento da perdita di chance in connessione “non all’accertato demansionamento, bensì ad un denunciato mobbing, che però nella specie non può ritenersi sussistente”: così esercitando il compito, specificamente proprio del giudice del merito cui spetta in via esclusiva, di interpretare e qualificare la domanda (nel caso di specie, sotto il profilo della natura della pretesa risarcitoria agita), senza restare condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte. Egli deve, infatti, accertare e valutare il contenuto sostanziale della domanda, ricavabile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa a quella proposta. Sicché, il relativo giudizio, manifestandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità unicamente se siano travalicati i detti limiti o per vizio della motivazione (Cass. 29 aprile 2004, n. 8225; Cass. 21 maggio 2019, n. 13602): ipotesi qui non ricorrenti;
4.2. è bene poi ribadire che la perdita di chance, pur potendo essere costituita dalla perdita di una mera possibilità presente nella sfera giuridica del danneggiato (peraltro integrante una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene: Cass. 28 gennaio 2005, n. 1752; Cass. 14 marzo 2017, n. 6488), non consiste in una mera aspettativa di fatto ma in un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, che deve tuttavia essere concreta ed effettiva, non meramente teorica ed ipotetica; e la sua compromissione, ove dedotta, deve essere provata dall’attore, identificandosi con la prova stessa del danno (Cass. 14 novembre 2017, n. 26822).
La perdita di chance è infatti un danno futuro, costituito dalla perdita non già di un vantaggio economico, ma dalla mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondurre diacronicamente al momento in cui il comportamento illecito abbia inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale; sicché, l’accertamento e la sua liquidazione, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati (Cass. 17 aprile 2008, n. 10111; Cass. 12 febbraio 2015, n. 2737);
4.3. la Corte territoriale ha esattamente applicato i suenunciati principi, che ha pure correttamente richiamato (ai primi periodo e capoverso di pg. 11 della sentenza), accertando in fatto, con argomentazione congrua (al secondo capoverso di pg. 11 della sentenza), l’assenza di puntuali allegazioni in ordine al vantaggio economico perduto ed alla possibilità, anche in termini probabilistici, di raggiungimento del risultato sperato, che ne costituiscono le condizioni di risarcibilità;
5. il ricorrente incidentale deduce quindi la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, per la liquidazione delle spese di giudizio (parzialmente compensate per la reciproca soccombenza) senza osservare i corretti parametri tariffari, dovendosi applicare, in riferimento al valore della causa, lo scaglione superiore a Euro 252.000,00, anziché quello fino a Euro 26.000,00 (secondo motivo);
6. esso è fondato;
6.1. ribadito il principio secondo cui, in sede di ricorso per cassazione, la determinazione del giudice di merito, relativa alla liquidazione delle spese processuali può essere censurata solo attraverso la specificazione delle voci in ordine alle quali lo stesso giudice sarebbe incorso in errore, sicché è generico il mero riferimento a prestazioni, che sarebbero state riconosciute in violazione della tariffa massima, senza la puntuale esposizione delle voci in concreto liquidate dal giudice, con inammissibilità dell’inerente motivo (Cass. 20 maggio 2016, n. 10409; Cass. 25 febbraio 2020, n. 4990), nel caso di specie il ricorrente ha denunciato l’applicazione del non corretto parametro tariffario, vigente al momento della decisione, in relazione al valore della controversia;
6.2. in tema di spese processuali, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle precedenti tariffe professionali, sono applicabili ogni volta che la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo all’entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, benché questa abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando vigevano le tariffe abrogate; posto che l’accezione omnicomprensiva di “compenso” evoca la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata, da riferire anche all’attività compiuta nei gradi di giudizio conclusi con sentenza prima dell’entrata in vigore del decreto e anche nel successivo giudizio di rinvio (Cass. 19 dicembre 2017, n. 30529, in specifico riferimento al D.M. n. 140 del 2012, art. 41 di attuazione del D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 2, conv. con modif. dalla L. n. 27 del 2012);
6.3. fermo quindi il regime di ripartizione dell’onere delle spese operato dalla Corte territoriale (in misura dei due terzi a carico della società e di compensazione del terzo residuo tra le parti), non attinto dalla censura di applicazione del corretto parametro tariffario, individuato nel D.M. n. 55 del 2014, occorre che esso, applicabile ratione temporis, sia adottato nella liquidazione delle spese secondo il valore della controversia;
6.3. ed esso rientra nello scaglione da Euro 260.000,00 a Euro 520.000,00, essendo stata liquidata, in favore del lavoratore, una somma di Euro 237.558,68, oltre rivalutazione monetaria (secondo un indice di variazione da ottobre 2005 a luglio 2016, data di pubblicazione della sentenza, pari a 16,6% e quindi a Euro 39.434,74) ed interessi legali sulle somme annualmente rivalutate da ottobre 2005 al saldo, ovviamente da computare ai fini di determinazione del valore della causa, ai sensi dell’art. 10 c.p.c., comma 2;
7. per le suesposte ragioni il secondo motivo di ricorso incidentale deve essere accolto, con rigetto del primo e del ricorso principale, con la cassazione della sentenza, in relazione al motivo accolto e, con decisione nel merito; ne consegue la statuizione sulle spese dei gradi di giudizio secondo il regime di soccombenza, come determinato dalla Corte d’appello (sul punto non censurata) e per l’odierno giudizio di legittimità con pari compensazione in misura di un terzo delle spese tra le parti e dei due terzi a carico della società, attesa la parziale reciproca soccombenza tra le parti, tuttavia prevalente a carico di R.F.I. s.p.a.;
7.1. tenuto conto della natura e delle difficoltà della controversia, avuto anche riguardo al suo valore prossimo alla soglia più bassa dello scaglione tariffario applicato, pare congrua la liquidazione, secondo l’espressa previsione del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 1, (che contempla una diminuzione dei valori medi indicati nelle tabelle allegate fino alla misura del 50%), dei compensi professionali dei due gradi di giudizio di merito, oggetto del motivo accolto, come in dispositivo (per il primo grado, per cui lo scaglione stabilisce un valore complessivo medio, calcolato sull’intero, di Euro 18.015,00, in misura di Euro 13.200,00; per il secondo, per cui lo scaglione stabilisce un valore complessivo medio, calcolato sull’intero, di Euro 19.160,00, in misura di Euro 13.500,00);
7.2. per l’odierno giudizio di legittimità, appare congrua, in relazione al valore medio complessivo, calcolato sull’intero, di Euro 10.260,00, una più contenuta diminuzione in misura di Euro 9.000,00;
8. infine, per il ricorso principale rigettato deve essere dato atto del raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso incidentale, rigettato il primo; rigetta il ricorso principale; cassa la sentenza e, decidendo nel merito, liquida le spese, a carico della società in favore del lavoratore, in misura dei due terzi (compensato il terzo residuo tra le parti), per il giudizio di primo grado, in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 8.800,00 per compensi professionali (Euro 150,00 e pari Euro 13.200,00 per l’intero) e di secondo grado, in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 9.000,00 per compensi professionali (Euro 150,00 e Euro 13.500,00 per l’intero), oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.
Condanna la società alla rifusione, in favore del lavoratore, delle spese del giudizio di legittimità, in misura dei due terzi, che liquida in Euro 140,00 (Euro 210,00 per l’intero) per esborsi ed Euro 6.000,00 per compensi professionali (Euro 9.000,00 per l’intero), oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge; compensa il terzo residuo tra le parti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 18 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021
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