LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1173/2019 R.G. proposto da:
G.N., G.L., G.G., G.V., G.A., e G. Costruzioni S.r.l., rappresentati e difesi dall’Avv. Fabio Verile, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Liberiana, n. 17;
– ricorrenti –
contro
R.I.F., R.M., R.D.R., e A.G., rappresentati e difesi dagli Avv.ti Mauro F.
Finiguerra, e Giuseppe Corbo, con domicilio eletto in Roma, via Domenico De Dominicis, n. 26, presso lo studio dell’Avv. Maria Michela de Matteis;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari, n. 1873/2017 depositata il 20 novembre 2017;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 maggio 2021 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Bari, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha condannato G.N. al pagamento, in favore di R.I.F., A.G. e A.G. (questi ultimi quali coeredi dei genitori A.A. e M.A.), in solido, della somma di Euro 238.100, oltre interessi al tasso e secondo la decorrenza ivi indicati, a titolo di risarcimento del danno da inadempimento di contratto preliminare di vendita, stipulato in data 16 luglio 1991, con il quale il R. e i genitori degli A. si erano resi promissari acquirenti, rispettivamente, della nuda proprietà (il R.) e dell’usufrutto (i coniugi A.- M.) di un appartamento e relativo box allora in corso di costruzione.
Ha conseguentemente accolto anche la domanda revocatoria proposta in primo grado dal solo R.I.F. e, per l’effetto, dichiarato l’inefficacia, nei confronti dello stesso, ex art. 2901 c.c., di n. 7 (sette) contratti di vendita (ivi specificati) con i quali G.N. aveva disposto del proprio patrimonio in favore dei figli – V., L., A. e G.G. – e della società G. Costruzioni S.r.l..
I giudici baresi hanno anzitutto confermato la sentenza appellata nella parte in cui aveva affermato il carattere simulato del preliminare di vendita relativamente al prezzo, avendo ritenuto che – in forza del collegamento negoziale con precedente preliminare di permuta di bene presente (suolo edificatorio) con beni futuri (porzioni dell’ivi erigendo fabbricato), concluso tra A.A., proprietario del suolo, e G.N. – la successiva stipula del contratto di vendita del suolo e del preliminare di vendita delle unità immobiliari costituisse in realtà mero strumento attuativo del programmato reciproco trasferimento, donde il carattere fittizio della clausola attestante l’avvenuto pagamento del prezzo.
Diversamente dal primo giudice hanno però ritenuto che, se l’accertata simulazione giustificava il rigetto della domanda di restituzione del prezzo avanzata dai promissari acquirenti, non altrettanto poteva dirsi quanto al rigetto della pure proposta domanda risarcitoria, dal momento che detti promissari avevano in realtà effettivamente subito un danno in conseguenza della risoluzione del preliminare di vendita, “consistito nel mancato acquisto delle suddette unità immobiliari, a cui avevano diritto in forza del preliminare stesso e del summenzionato programma negoziale”: danno da commisurarsi, “in mancanza di prova più specifica”, in importo pari “alla differenza tra il prezzo virtuale stabilito nel preliminare di vendita” (Euro 43.900 in valuta attuale) e “il valore di mercato dei due immobili stimato nell’ambito della procedura esecutiva e desumibile dall’ordinanza di vendita, pari ad Euro 282.000”.
2. Avverso tale sentenza N., L., G., V. e G.A. e la G. Costruzioni S.r.l. propongono ricorso per cassazione affidato a tre motivi e illustrato da memoria.
Vi resistono gli intimati, depositando controricorso.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 1453 c.c.”, per avere la corte d’appello ritenuto, difformemente dal primo giudice, che – nonostante l’acclarato carattere simulato del preliminare di vendita limitatamente al prezzo, in realtà mai pagato – l’inadempimento del promittente venditore e la dichiarata risoluzione del preliminare di vendita, avessero comportato un danno per i promissari acquirenti.
Sostengono di contro che, secondo la regola generale sull’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., i danni del promissario acquirente possono essere liquidati esclusivamente se lo stesso fornisca la prova della loro effettiva esistenza, non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’inadempimento contrattuale del promittente venditore.
In particolare tale prova avrebbe dovuto essere offerta dal R. e dalla M. (e quindi dai di lei eredi) non essendo gli stessi parti dell’operazione di permuta, svoltasi tra il G. ed il solo A. Antonio, e non avendo subito alcun esborso di danaro in sede di stipula del preliminare del 16/07/1991.
Ma anche nei confronti di A.A. – affermano – non avrebbe potuto riconoscersi alcun danno conseguente all’inadempimento, dal momento che, come accertato dal primo giudice, l’intera operazione negoziale risultava garantita dal rilascio, da parte del G., di un assegno di due miliardi di vecchie lire da depositarsi presso notaio di fiducia e da ridursi nel corso della costruzione secondo valori proporzionali allo stato di avanzamento dei lavori.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c., in relazione all’art. 1453 c.c., e dell’art. 2697c.c. nonché dell’art. 115 c.p.c.”.
Lamentano che erroneamente la corte d’appello ha posto a base della determinazione del danno subito dai promissari acquirenti il “prezzo virtuale stabilito nel preliminare di vendita”, che essa stessa ha riconosciuto simulato e quindi inefficace, non essendovi nemmeno prova che la medesima determinazione potesse corrispondere all’effettivo prezzo degli immobili o al loro valore di mercato o, comunque, alla effettiva volontà delle parti che solo simbolicamente avevano determinato quel prezzo.
Rilevano che peraltro nemmeno risultava provato il valore commerciale degli immobili oggetto del preliminare al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto e che tale prova non poteva desumersi dalla ordinanza di vendita emessa nell’ambito di procedura di espropriazione immobiliare, dal momento che questa, in realtà, non conteneva alcun riferimento al suddetto importo.
Deducono che, in violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., i giudici d’appello hanno provveduto alla liquidazione del danno pur avendo riconosciuto, con l’inciso “in mancanza di prova più specifica”, che gli appellanti non avevano assolto l’onere della prova su di essi gravante.
3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano, infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione e falsa applicazione dell’art. 1294 c.c. e dell’art. 1314 c.c.” per avere affermato il carattere solidale, dal lato attivo, dell’obbligazione risarcitoria posta a carico del G..
Rilevano che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la solidarietà attiva fra più creditori non si presume nemmeno in caso di identità della prestazione dovuta, ma può derivare solo da un’espressa disposizione di legge o da uno specifico titolo negoziale preesistente alla richiesta di adempimento, non essendo sufficiente all’esistenza del vincolo l’identità qualitativa delle prestazioni (eadem res debita) e delle obbligazioni (eadem causa debendi).
Osservano che, nel caso di specie, l’inadempimento del promittente venditore ha dato origine a due distinte obbligazioni di risarcimento del danno, l’una nei confronti del R., promissario acquirente della nuda proprietà, l’altra nei confronti dei coniugi A. e M., promissari acquirenti dell’usufrutto, obbligazioni differenti anche con riferimento all’entità del danno.
4. Il primo motivo è manifestamente infondato.
4.1. Esso pone una indebita correlazione tra prezzo (simulato) della promessa vendita e oggetto della corrispettiva obbligazione assunta dal promittente venditore: obbligazione, questa, della quale è stato accertato, ormai con efficacia di giudicato, l’inadempimento.
Ai fini del vaglio delle conseguenze pregiudizievoli di tale inadempimento occorre invero aver riguardo solo al contenuto di tale obbligazione, ovvero alla prestazione che ne costituiva oggetto e che, in conseguenza dell’inadempimento, il creditore, che ne aveva diritto, non ha ottenuto.
Il contenuto di tale obbligazione era rappresentato da un Tacere: il trasferimento (rispettivamente, della nuda proprietà e dell’usufrutto in comunione) di due unità immobiliari, da ottenere attraverso successivo contratto definitivo.
Che a fronte di tale obbligazione fosse previsto un prezzo in realtà non pagato (essendo la relativa pattuizione simulata) è circostanza ininfluente ai fini di tale vaglio, che è del tutto interno all’obbligazione inadempiuta e non va esteso a quella che ne costituiva l’apparente corrispettivo sinallagmatico.
Qui basti considerare che la validità ed efficacia della operazione negoziale nel suo complesso e nella sua reale e dissimulata consistenza (di permuta di cosa presente contro cosa futura) è stata ormai irretrattabilmente accertata e che tale qualificazione, se da un lato ha consentito di accertare il carattere simulato dell’accordo sul prezzo palesato nel preliminare di vendita, dall’altro non ha tolto, evidentemente, validità ed efficacia all’obbligazione assunta dal permutante/promittente venditore di trasferire agli odierni resistenti o loro danti causa i menzionati diritti reali.
Ed e’, dunque, a questa obbligazione ed al suo inadempimento che la corte d’appello doveva guardare ed ha in effetti correttamente guardato ai fini della valutazione delle relative conseguenze.
In tale quadro sostanziale e processuale rimane pertanto anche irrilevante l’assunto dei ricorrenti secondo cui il R. e la M. (e quindi i di lei eredi) non fossero stati parte dell’operazione di permuta, svoltasi tra il G. ed il solo A.A., ciò non escludendo che comunque: a) l’obbligo di trasferire le unità in questione (sebbene quali oggetto di distinti diritti reali) era stato assunto, com’e’ pacifico, anche nei loro confronti; b) anche tale obbligazione è rimasta inadempiuta come definitivamente accertato; c) anch’essi avevano pertanto diritto a tale trasferimento e tale atteso incremento patrimoniale hanno perduto in conseguenza dell’inadempimento.
E’ appena il caso di notare, dunque, che l’assunto dei ricorrenti non è nemmeno fondato, dal momento che risulta espressamente accertato (v. sentenza pagg. 8-9) che nel preliminare di permuta il trasferimento delle costruende unità immobiliare era stato promesso a favore dell’ A. e “per persona da nominare”: nomina da intendersi evidentemente fatta, con il successivo preliminare di vendita attuativo di quel programma, in favore del R. e della moglie dell’ A., M.A..
4.2. Ciò precisato rimangono confutate le doglianze tutte svolte dai ricorrenti in punto di sussistenza e prova del danno.
Correttamente infatti questo è stato correlato, in sentenza, non all’esborso (in realtà mancato) del prezzo che era stato concordato (ove fosse stato pagato la risoluzione del contratto avrebbe infatti dato diritto alla sua restituzione), ma all’oggetto stesso della prestazione rimasta inadempiuta.
Varrà rammentare al riguardo che, secondo i più recenti approdi della giurisprudenza di questa Corte, cui va data continuità, nei rapporti che rispondono allo schema classico dell’obbligazione di dare o di facere (non professionale) contenuto nel codice civile (e tale è certamente l’obbligazione derivante dal contratto preliminare di vendita), la “causalità materiale”, ovvero il nesso che consente l’imputazione, sul piano oggettivo, del danno alla condotta (inadempiente) del debitore, “non è praticamente separabile dall’inadempimento, perché quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto e dunque al danno evento. La causalità acquista qui autonomia di valutazione solo quale causalità giuridica, e dunque quale delimitazione del danno risarcibile attraverso l’identificazione del nesso eziologico fra evento di danno e danno conseguenza (art. 1223 c.c.).
“L’assorbimento pratico della causalità materiale nell’inadempimento fa sì che tema di prova del creditore resti solo quello della causalità giuridica (oltre che della fonte del diritto di credito), perché, come affermato da Cass. S.U. n. 13533 del 2001, è onere del debitore provare l’adempimento o la causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione (art. 1218 c.c.), mentre l’inadempimento, nel quale è assorbita la causalità materiale, deve essere solo allegato dal creditore. Non c’e’ quindi un onere di specifica allegazione (e tanto meno di prova) della causalità materiale perché allegare l’inadempimento significa allegare anche nesso di causalità e danno evento” (così, in motivazione, Cass. 11/11/2019, nn. 2899128992, p. 1.1.1).
Ne discende che, nella misura in cui il danno-evento “assorbito” nell’inadempimento o nell’inesatto adempimento corrisponda al mancato conseguimento di una utilità prevista in contratto, e suscettibile di apprezzamento sul piano risarcitorio, sarebbe per ciò stesso dimostrata anche l’esistenza di un danno risarcibile, pari al valore della utilità attesa e non conseguita (cfr. Cass. 09/04/2021, n. 9474, in motivazione, p. 6, pag. 9).
L’inadempimento di tale obbligazione comporta di per sé un danno rappresentato proprio dalla perdita della prestazione che ne era ad oggetto e commisurato al valore commerciale ad essa attribuibile.
4.3. L’ulteriore rilievo – secondo cui nei confronti di A.A. non avrebbe potuto riconoscersi alcun danno per essere l’intera operazione negoziale garantita dal rilascio, da parte del G., di un assegno di due miliardi di vecchie lire – prospetta questione nuova, che non risulta in alcun modo trattata nel giudizio di appello e che pertanto deve in questa sede considerarsi inammissibile.
Deve al riguardo farsi applicazione del principio secondo cui, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (v. ex multis Cass. 24/01/2019, n. 2038).
Peraltro l’allegazione risulta del tutto generica e inconferente, non essendo nemmeno precisato se e in che misura l’assegno che si dice essere stato depositato in garanzia presso notaio di fiducia sia stato effettivamente portato all’incasso dall’ A. o dai suoi aventi causa.
5. Il secondo motivo è inammissibile.
5.1. La denuncia di violazione dell’art. 2697 c.c. è inammissibile, giacché, incongruente rispetto al parametro normativo invocato.
I ricorrenti si dolgono infatti della quantificazione del danno sull’assunto che gli elementi al riguardo utilizzati dalla corte d’appello non fossero a tal fine idonei perché non contenenti l’informazione probatoria affermata in sentenza, ma non già che il giudice abbia risolto l’eventuale incertezza probatoria (in realtà insussistente) sul danno a scapito della parte che non era gravata del relativo onere.
5.2. La contestuale denuncia di violazione dell’art. 115 c.p.c. si appalesa inammissibile sotto altro profilo.
La censura sembra prospettare un vizio di travisamento di prova.
Tale ipotesi e’, in astratto, ben presente nella giurisprudenza di questa Corte e consiste nell’errore di “percezione” della “informazione probatoria” (ricadente sul contenuto oggettivo della prova: demonstratum; denunciabile quale error in procedendo, per violazione dell’art. 115 c.p.c.: v., ex aliis Cass. 12/04/2017, n. 9356).
In tal senso bisogna dunque tener fermo che “travisamento delle prove” è nozione distinta da quella di “valutazione delle prove”.
Per la sua definizione può farsi riferimento alla giurisprudenza sull’art. 606 c.p.p., lett. e), la quale ha chiarito che il travisamento della prova non tocca il livello della valutazione, ma si arresta alla fase antecedente dell’errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio.
E’ errore sul significante, che si traduce nell’utilizzo di un elemento di prova inesistente (o incontestabilmente diverso da quella reale), e non sul significato della prova. Manifestandosi anche le prove in enunciati linguistici, il travisamento concerne il misconoscimento dei dati linguistici, e dunque il livello percettivo che precede la valutazione. Quest’ultima interviene in una fase successiva, quando, delimitato il campo semantico, si aprono le diverse opzioni valutative.
Proprio nella consapevolezza di tale distinzione questa Corte ascrive a travisamento di prove (error in procedendo per violazione dell’art. 115 c.p.c.) solo la postulazione in sentenza di informazioni probatorie che possano considerarsi obiettivamente e inequivocabilmente contraddette dal dato formale-percettivo delle fonti o dei mezzi di prova considerati o che, addirittura, risultino inesistenti e dunque sostanzialmente “inventate” dal giudice (v. Cass. 25/05/1995, n. 10749; cui adde Cass. n. 9356 del 2017, cit.; 21/01/2020, n. 1163; 07/01/2021, n. 49; v. anche Cass. 05/11/2018, n. 28174).
Il criterio da utilizzare per l’individuazione di un siffatto errore è quello stesso dettato dall’art. 395 c.p.c., n. 4 per la definizione di errore di fatto percettivo (deve cioè trattarsi di una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile ex actis o, come è stato detto, del travisamento di un “dato probatorio non equivoco e insuscettibile di essere interpretato in modi diversi ed alternativi” ed inoltre “decisivo”: v. Cass. n. 10749 del 1995, cit.), distinguendosi da questo solo perché inerente, come nella specie, ad un fatto controverso e dibattuto in giudizio (v. in tal senso Cass. n. 9356 del 2017).
5.3. Perché una siffatta censura possa però trovare ingresso in sede di legittimità costituisce prerequisito necessario l’osservanza dell’onere di specificità imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
E’ noto infatti che, come più volte chiarito da questa Corte, anche a Sezioni Unite, se è vero che, ove sia dedotto un error in procedendo, il giudice di legittimità è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, resta pur sempre fermo che a tale esame può procedersi in quanto la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) (cfr. Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077; Cass. 13/06/2014, n. 13546).
Tale onere nella specie non risulta rispettato essendosi i ricorrenti limitati a richiamare genericamente l’ordinanza di vendita del cui contenuto si deduce l’erronea percezione da parte dei giudici a quibus, bensì localizzandola nel fascicolo di causa, senza però riportarne il contenuto.
Ne’ può sopperire la memoria a colmare le lacune originarie del ricorso (ciò per costante insegnamento: da ultimo, v. Cass. Sez. U. ord. 09/03/2020, n. 6691) 5.4. Inammissibile, per difetto di interesse, si appalesa poi l’ulteriore argomento di critica riferito all’utilizzo, in sentenza, ai fini della quantificazione del danno, anche del dato rappresentato dal prezzo pattuito nel preliminare di vendita.
Tale dato è infatti utilizzato a favore del debitore quale elemento da portare in sottrazione (sottraendo) rispetto all’elemento di calcolo rappresentato dal valore commerciale delle unità immobiliare (minuendo).
L’interesse dei ricorrenti a criticare l’impiego di tale dato potrebbe dunque ravvisarsi ove si fosse dedotto che l’importo da portare in sottrazione avrebbe dovuto essere maggiore.
Ma la doglianza non è prospettata in questi termini e, se lo fosse stata, si paleserebbe del tutto priva di consistenza ove si consideri che, trattandosi di prezzo simulato (come rimarcano, anche a tal fine, gli stessi ricorrenti) ed essendo stata per tale motivo rigettata la domanda di restituzione del prezzo (il vero corrispettivo essendo stato rappresentato dal terreno edificabile ceduto dall’ A. in permuta), in realtà nessuna riduzione (tanto meno maggiore di quella operata in sentenza) avrebbe dovuto essere apportata, nella determinazione del danno derivante dall’inadempimento, rispetto al valore commerciale delle unità immobiliari oggetto dell’inadempiuto obbligo di trasferimento.
6. Il terzo motivo è fondato e merita accoglimento.
Secondo costante insegnamento la solidarietà attiva fra più creditori sussiste solo se espressamente prevista in un titolo negoziale preesistente alla richiesta di adempimento, non essendo sufficiente all’esistenza del vincolo l’identità qualitativa delle prestazioni (eadem res debita) e delle obbligazioni (eadem causa debendi).
E’ stato anche precisato che l’interesse a negare detta solidarietà non è attribuibile esclusivamente a ciascuno dei creditori, ma appartiene anche al debitore ai fini di un corretto e non pregiudizievole assetto dei rapporti obbligatori (come si evince dall’art. 1297 c.c., comma 2, limitativo della proponibilità delle eccezioni personali), giacché nelle ipotesi di solidarietà attiva il comune debitore non potrebbe opporre al creditore che gli abbia chiesto l’intera prestazione le eccezioni personali ad altro creditore e che a questo il debitore medesimo avrebbe potuto, invece, opporre, nel caso di obbligazione parziale, il cui adempimento egli per la sua parte avrebbe richiesto (v. ex multis Cass. n. 2267 del 28/01/2019; n. 2822 del 07/02/2014; n. 15484 del 11/06/2008; n. 20761 del 03/10/2007; n. 5316 del 29/05/1998).
Come fondatamente rilevato in ricorso, nella specie non è nemmeno ravvisabile identità della prestazione dovuta, quanto alla posizione di R.I. F..
Come distinta, nell’oggetto e nel valore, era la prestazione cui aveva diritto il R. (trasferimento della nuda proprietà) rispetto a quella dovuta ai coniugi A. e M. (trasferimento dell’usufrutto in comunione tra gli stessi), altrettanto distinta, anche nell’entità, deve rimanere la succedanea prestazione risarcitoria.
Erronea deve pertanto ritenersi la sentenza impugnata nella parte in cui – ferma la liquidazione del risarcimento complessivamente dovuto dal debitore inadempiente in relazione al valore commerciale della piena proprietà dei beni, così come operata in sentenza – ha attribuito la titolarità del relativo importo in via unitaria e solidale, dal lato attivo, agli appellanti, anziché distinguere, da un lato, la posizione di R.I. F. e, dall’altro, quella dei coniugi A. M. (e, per essi, dei loro eredi) e liquidare conseguentemente il danno all’uno ed agli altri spettanti nella diversa misura corrispondente al valore dei diversi diritti reali il cui trasferimento era oggetto dell’obbligo rimasto inadempiuto nei confronti dell’uno e degli altri.
7. In accoglimento, dunque, del terzo motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio al giudice a quo anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione; rigetta il primo; dichiara inammissibile il secondo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Bari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2021
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