LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15435-2020 proposto da:
M.E., rappresentato e difeso dall’Avvocato VINCENZO CAPO, per procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
CEAT PNEUMATICI S.P.A., rappresentata e difesa dall’Avvocato GIULIANO LEUZZI, per procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la SENTENZA n. 997/2020 della CORTE D’APPELLO DI ROMA, depositata il 6/2/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 27/5/2021 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO.
FATTI DI CAUSA
La Ceat Pneumatici s.p.a., con ricorso a norma dell’art. 702 bis c.p.c., ha convenuto in giudizio M.E. chiedendone la condanna alla restituzione della somma di Euro 50.000,00.
La società attrice ha dedotto che il M. aveva ricevuto la predetta somma in acconto sul prezzo della cessione, che avrebbe dovuto realizzarsi in un ristretto lasso temporale, delle sue quote di partecipazione alla M. Immobiliare s.r.l. a G.M. (amministratore della stessa Ceat), tant’e’ che, nella causale del versamento, si trova scritto “anticipo acquisto quote Imm. M.”. Le parti, tuttavia, non avevano definito la vendita, poiché il M. aveva preteso un prezzo superiore a quello inizialmente concordato. Il convenuto, però, aveva indebitamente trattenuto le somme ricevute in acconto sul prezzo.
Il convenuto, dal suo canto, si è costituito in giudizio e, pur confermando che il versamento delle somme doveva essere ascritto ad un acconto sul prezzo di vendita delle quote della società Immobiliare, ha chiesto il rigetto della domanda deducendo che il versamento sarebbe stato eseguito dalla Ceat s.p.a. in forza di una delegazione di pagamento da parte del G..
Il tribunale, con ordinanza del 27/2/2019, ha rigettato la domanda.
La Ceat s.p.a. ha proposto appello al quale il M. ha resistito chiedendone il rigetto.
La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha accolto l’appello ed ha, quindi, condannato il convenuto alla restituzione, in favore della società attrice, della somma di Euro 50.000,00, oltre interessi e spese.
La corte, in particolare, dopo aver premesso che “la parte appellante, contrariamente a quanto affermato dal tribunale…, ha correttamente provato la causa del versamento eseguito il ***** allegando la copia, mai contestata dal M., di una contabile bancaria relativa al bonifico eseguito da CEAT pneumatici spa in favore del M. il ***** per la somma di 50.000,00 Euro ove è chiaramente leggibile la causale del versamento, indicata come “anticipo acquisto quote Imm. M.””, ha ritenuto che, al di là delle ammissioni del convenuto, che non ha mai negato l’esistenza di trattative per la cessione delle quote della società, la predetta emergenza confermasse la natura del versamento, eseguito dalla società appellante come “anticipo sul prezzo di cessione delle quote della società immobiliare”. E poiché è pacifico tra le parti che la vendita delle quote (in esecuzione dell’accordo stipulato tra il G., amministratore della Ceat, e lo stesso M.) non sia stata stipulata, deve ritenersi, ha aggiunto la corte, che sia stata dimostrata in giudizio tanto la causa del versamento da parte della Ceat, quanto l’assenza di un titolo valido che giustifichi la ritenzione delle somme ricevute dal beneficiario (rimanendo, quindi, irrilevante stabilire se le parti avessero, al momento del pagamento, in corso trattative in stato avanzato ovvero già definito un contratto preliminare di vendita poi risolto consensualmente, così come era del tutto irrilevante stabilire se il G. avesse agito per sé o, come appare più probabile, per conto della società). Ed una volta accertato che il denaro è stato versato dalla Ceat s.p.a., ha concluso la corte, il M., a fronte della “risoluzione consensuale di ogni accordo, pacifica tra le parti e confermata dal tempo trascorso dal pagamento”, ha l’obbligo di restituire alla stessa le somme ricevute in data 7/9/2009, oltre agli interessi legali dalla domanda.
La corte, infine, ha condannato il convenuto al pagamento delle spese di lite, che ha liquidato, avendo riguardo agli importi medi previsti dalla tariffa di cui al D.M. n. 55 del 2014, nella somma di Euro 7.254,00 per il giudizio di primo e nella somma di Euro 9.515,00 per il giudizio di secondo grado.
M.E. ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza.
La Ceat Pneumatici s.p.a. ha resistito con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e l’errata applicazione dell’art. 1321 c.c., dell’art. 1325c.c., n. 1, degli artt. 1401, 1403, 1406 e 2607 c.c., con rifermento all’art. 100 c.p.c., all’art. 115 c.p.c., comma 1, e all’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che l’accordo del 9/9/2008 era stato stipulato tra il M. ed il G. in qualità di amministratore della Ceat, come “ammesso dal M.” nella comparsa di risposta, senza, tuttavia, considerare che, come emerge dalla lettura della sua comparsa di costituzione, il convenuto si era limitato a riportare le parole indicate dall’appellante nel proprio atti ma non le aveva certo fatte proprie “nel contenuto e nel merito”. La corte d’appello, quindi, cadendo in un errore di percezione nell’esaminare il contenuto delle prove offerte dalle parti, ha erroneamente ritenuto che, per ammissione del M. e sulla scorta dei documenti dallo stesso prodotti, la controparte contrattuale fosse la società.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e l’errata applicazione degli artt. 1362,1363,1366 e 2697 c.c., con rifermento agli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, erroneamente percependo le domande e i documenti di causa, ha ritenuto che la risoluzione consensuale di ogni accordo fosse pacifica tra le parti e confermata dal tempo trascorso dal pagamento, omettendo, in tal modo, di decidere sull’esistenza e la validità del contratto. I documenti prodotti dal resistente dimostravano, in realtà, esattamente il contrario, e cioè che non vi era stata la risoluzione del contratto, per cui era indispensabile statuire, come richiesto da entrambe le parti, sull’esistenza del contratto stipulato tra le parti in data 9/9/2008, al quale la dazione era letteralmente collegata.
3. 1. I motivi, da trattare congiuntamente, sono infondati.
3.2. Il ricorrente, in effetti, pur deducendo vizi di violazione di norme di legge sostanziale o processuale, ha lamentato, in sostanza, l’erronea ricognizione dei fatti che, alla luce delle prove raccolte, hanno operato i giudici di merito, lì dove, in particolare, questi, ad onta delle asserite emergenze, hanno ritenuto: – per un verso, che la società appellante avesse dimostrato che il versamento di Euro 50.000,00 eseguito dalla stessa in favore del M. il *****, costituisse un “anticipo sul prezzo di cessione delle quote della società immobiliare” da parte del beneficiario in favore di G.M.; – per altro verso, che fosse rimasto pacifico tra le parti che tale vendita, in esecuzione dell’accordo stipulato tra il M. e il G., non fosse stata stipulata o comunque si fosse consensualmente risolta.
3.3. La valutazione delle prove raccolte, però, anche se si tratta delle risultanze conseguenti alle presunzioni tratte dal giudice ovvero all’ammissione o alla mancata contestazione dei fatti dedotti, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione se non per il vizio, previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, consistito nell’avere del tutto omesso, in sede di accertamento della fattispecie concreta, l’esame di uno o più fatti storici, principali o secondari, la cui emergenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbiano costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbiano carattere decisivo, vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato con certezza un esito diverso della controversia. Rimane, pertanto, estranea a tale vizio qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova.
3.4. La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), del resto, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. (Cass. n. 11176 del 2017). La valutazione delle risultanze delle prove, al pari della scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono, in effetti, apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (v. Cass. n. 42 del 2009; Cass. n. 20802 del 2011).
3.5. Il compito di questa Corte, del resto, non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto, com’e’ accaduto nel caso in esame, nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.).
3.6. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato le prove raccolte in giudizio, ha, come visto, ritenuto, innanzitutto, che l’attrice avesse dimostrato che il bonifico di Euro 50.000,00 dalla stessa eseguito il ***** in favore del convenuto costituisse un anticipo sul prezzo della cessione delle quote, possedute da quest’ultimo nella società Immobiliare M., ed, in secondo luogo, che tale cessione, com’era rimasto pacifico tra le parti, non era stata, poi, stipulata o, comunque, si era consensualmente risolta. Ed una volta stabilito, come la corte ha ritenuto senza che tale apprezzamento in fatto sia stato utilmente censurato (nell’unico modo possibile, e cioè, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5) per avere totalmente omesso l’esame di una o più circostanze decisive, che l’attore aveva dimostrato in giudizio il fatto di aver versato al convenuto la somma di Euro 50.000,00 quale acconto di una vendita di quote sociali che non era stata poi stipulata o che si era comunque consensualmente risolta, non si presta, evidentemente, a censure la decisione che la stessa corte ha conseguentemente assunto, e cioè l’accoglimento della domanda proposta dall’attrice, in quanto volta, appunto, alla restituzione della somma versata al convenuto e dallo stesso indebitamente trattenuta.
4. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 112 c.p.c., comma 1, e dell’art. 346 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha omesso di giudicare sulle domande, che il convenuto aveva proposto in via riconvenzionale nel giudizio di primo grado e riproposto nella comparsa di costituzione in appello, di risoluzione del contratto preliminare del *****, avente ad oggetto la cessione della sua quota nella Immobiliare M. s.r.l., e di condanna della società attrice, in solido con il G., al risarcimento dei danni cagionatigli per l’inadempimento all’impegno assunto.
5. Il motivo è infondato. Come si evince dalla comparsa di risposta nel giudizio d’appello, l’appellato si è limitato a reiterare “tutte le domande… formulate negli atti di primo grado…”. Questa Corte, tuttavia, ha affermato che, in materia di procedimento civile, in mancanza di una norma specifica sulla forma nella quale l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse: tuttavia, pur se libera da forme, la riproposizione deve essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice: Cass. n. 35840 del 2020; Cass. n. 10796 del 2009).
6. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 91,92 e 93 c.p.c., e del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, n. 5, lett. c) e d), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha condannato il convenuto al pagamento delle spese di lite, che ha liquidato, avendo riguardo agli importi medi previsti dalla tariffa di cui al D.M. n. 55 del 2014, nella somma di Euro 7.254,00 per il giudizio di primo e nella somma di Euro 9.515,00 per il giudizio di secondo grado, senza, tuttavia, considerare, per un verso, che il giudizio di primo grado si era svolto nelle forme del giudizio previsto dall’art. 702 bis c.p.c., primo di fase istruttoria e con una fase decisionale estremamente semplificata, e, per altro verso, che nel giudizio d’appello non è stata svolta alcuna attività istruttoria, attribuendole, peraltro, al difensore antistatario, pur in difetto di richiesta in tale senso.
7. Il motivo è infondato. Intanto, il giudizio sommario non comporta l’applicazione di criteri di liquidazione delle spese di lite diversi rispetto a quelli che valgono per il giudizio ordinario innanzi al tribunale (come del resto si evince dal D.M. n. 55 del 2014, allegata tabella 2, rubrica, che parla di giudizi ordinari e sommari innanzi al tribunale). Per ciò che riguarda, invece, il giudizio di secondo grado, la corte d’appello, come si evince dal testo della sentenza impugnata (p. 5), ha liquidato, tra l’altro, le spese relative alla fase della “trattazione” che, ai fini della determinazione delle spese processuale, esiste, accanto o in alternativa a quella istruttoria, anche nel giudizio d’appello (v. citato D.M. n. 55, allegata tabella 12). Infine, in tema di condanna al pagamento delle spese processuali, il debitore non ha interesse a criticare il relativo capo della sentenza per il solo fatto che tale condanna sia stata pronunciata a favore del difensore della sua controparte, anziché della stessa parte rappresentata dal difensore. L’art. 93 c.p.c., difatti, attiene ai rapporti tra la parte e il suo difensore, onde il rispetto, o meno, di detta disposizione normativa non incide in alcun modo sulla posizione giuridica dell’altra parte che, rimasta soccombente, venga condannata a pagare le spese del giudizio, atteso che la sua situazione processuale non può ritenersi aggravata perché il pagamento è stato disposto direttamente nei confronti del difensore e non della parte personalmente (Cass. n. 30945 del 2018).
8. Il ricorso, quindi, per l’infondatezza di tutti i suoi motivi, dev’essere rigettato.
9. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
10. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile – 2, il 27 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2021
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