Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.33601 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11925/2017 proposto da:

B.N.M., e B.J.M., in proprio e quali procuratori di B.A., domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato Astorri Raffaello, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Corso Vittorio Emanuele II n. 326, presso lo studio dell’avvocato Scognamiglio Claudio, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1913/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, pubblicata il 21/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/09/2021 dal cons. NAZZICONE LOREDANA.

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Firenze con sentenza del 21 settembre 2012 ha pronunciato la risoluzione per inadempimento dei contratti relativi all’acquisto di titoli argentini, condannando la banca al pagamento della somma di Euro 1.405.101,63, oltre interessi, in favore degli investitori.

Sull’appello della soccombente, con sentenza del 21 novembre 2016 la Corte d’appello di Firenze, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto le domande proposte.

Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli investitori, sulla base di sei motivi.

Resiste con controricorso la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a..

Le parti hanno depositato le memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi del ricorso espongono avverso la sentenza impugnata censure che possono essere come di seguito riassunte:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 153 e 345 c.p.c., D.Lgs. 5 del 2003, artt. 10 e 13, 23 t.u.f., 30 reg. Consob n. 11522 del 1998, perché l’intermediario ha prodotto in giudizio il contratto-quadro solo dopo la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza, ma ciò è inammissibile, non trattandosi di documenti di cui non fosse apprezzabile l’utilità nel corso del giudizio di primo grado; né spettava una rimessione in termini, che pure la corte d’appello sembra reputare dovuta, perché ne mancano le condizioni, difettando un fatto estraneo alla volontà della parte e restando irrilevante la presunta difficoltà di reperire il documento;

2) violazione e falsa applicazione degli artt. 1339 e 1419 c.c., D.Lgs. n. 5 del 2003, artt. 10 e 13, 23 t.u.f., 30 reg. Consob n. 11522 del 1998, perché il contratto-quadro fu concluso il 19 aprile 1993, senza il rispetto della disciplina sopravvenuta cui avrebbe dovuto essere adeguato, né vi era possibilità di operatività degli artt. 1339 e 1419 c.c.;

3) violazione e falsa applicazione degli artt. 1453,1455 e 1458 c.c., perché la risoluzione ben può riguardare anche i singoli ordini, contrariamente a quanto opinato dalla corte d’appello;

4) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1223,1224 e 1227 c.c., 21 t.u.f., 28, 29 e 31 reg. Consob n. 11522 del 1998, perché, sebbene sia “emerso” il mancato assolvimento degli obblighi informativi da parte dell’intermediario, la corte territoriale ha ritenuto insussistente l’inadempimento, per essere stati gli investitori autonomamente in grado di operare acquisti consapevoli, attesa la loro esperienza e competenza sugli strumenti finanziari; mentre la banca avrebbe dovuto informare gli investitori dell’andamento del titolo, anche dopo l’acquisto;

5) violazione e falsa applicazione dell’art. 29 reg. Consob n. 11522 del 1998, per avere la sentenza impugnata ritenuto adeguate le operazioni compiute, pur senza avere prima operato la c.d. profilatura dei clienti ed informato gli investitori sulla natura dei titoli;

6) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 ss., 2727,2697 e 2729 c.c., artt. 112 e 342 c.p.c., per vizio di ultrapetizione e violazione del giudicato interno, dato che la questione sulla mancanza di nesso causale, ravvisata dalla corte d’appello, non era stata oggetto di impugnazione da parte dell’intermediario; e, comunque, il ragionamento presuntivo al riguardo svolto dalla corte del merito è erroneo, non potendo fondarsi sui precedenti acquisti speculativi dei ricorrenti.

2. – La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che:

a) la produzione del contratto-quadro ad opera della banca, pur tardiva, è ammissibile, in quanto documento indispensabile alla decisione, e dovendo altresì ritenersi comprovata la difficoltà della medesima di reperirlo, posto che a fronte di un contratto concluso nel 1993 l’atto di citazione è sopraggiunto solo nel 2006;

b) non rileva il mancato aggiornamento del contratto-quadro alla sopravvenuta normativa, potendo applicarsi le norme imperative in materia ex artt. 1339 e 1419 c.c., e del resto proprio questo è avvenuto, avendole gli investitori invocate;

c) la domanda di nullità degli ordini per difetto di forma scritta non è stata riproposta; in ogni modo, la forma scritta non è richiesta per i singoli ordini di investimento, ma solo per il contratto-quadro;

d) la domanda di risoluzione del contratto non è ammessa per i singoli ordini, ma solo per il contratto-quadro; in ogni caso, non vi è inadempimento, posto che gli investitori hanno dato gli ordini per le operazioni, che furono eseguite in modo del tutto coerente, tanto che fu pienamente accettato l’acquisto dei titoli seguito all’ordine stesso e furono incassate le cedole;

e) la banca è stata adempiente ai propri obblighi informativi, tenuto conto che gli investitori sono notai o avvocati, con investimenti sul mercato dei titoli dal 1993 per ingenti importi, pari a circa Euro 12.000.000,00; essi erano, quindi, in grado di conoscere perfettamente gli strumenti di investimento a loro disposizione e le caratteristiche dei titoli acquistati, per la specifica competenza anteriore; inoltre, la banca aveva notizie sulla Repubblica Argentina analoghe a quelle a disposizione dei clienti, fino al dicembre 2000 avendo i titoli ricevuto un rating positivo, con una percentuale di insolvenza minima oscillante tra lo 0,93% e l’1,57%, che iniziò a salire solo nei primi mesi del 2001, sino alla percentuale del 100% all’inizio del 2002, dopo un non prevedibile annuncio da parte dello Stato argentino in data 23 dicembre 2001;

f) gli investimenti erano adeguati, trattandosi di titoli obbligazionari di Stato estero e di buon rendimento, da quello garantito;

g) difetta, inoltre, il nesso causale tra il dedotto inadempimento e il danno lamentato, posto che non è stato provato dagli investitori che, se informati adeguatamente, essi non avrebbero effettuato l’acquisto dei titoli, esistendo invece indizi in contrario.

3. – Il primo motivo è infondato.

La corte territoriale ha ritenuto legittimamente acquisito al giudizio il contratto-quadro, pur prodotto tardivamente dalla banca con la comparsa conclusionale in primo grado, ed ha applicato l’art. 345 c.p.c., reputando il documento indispensabile ai fini del giudizio e comunque sussistendo una causa non imputabile per la tardiva produzione.

In tal modo, essa ha fatto corretta applicazione delle regole che ratione temporis disciplinano la produzione documentale nel processo civile.

3.1. – La produzione di nuovi documenti è ammissibile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nella formulazione successiva alla novella attuata mediante la L. n. 69 del 2009, ove la parte dimostri di non avere potuto produrli prima per causa a sé non imputabile, o che essi, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado, siano indispensabili per la decisione (Cass. 10 maggio 2019, n. 12574; sez. un. 4 maggio 2017, n. 10790); mentre la nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, quale risulta dalla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma rilevanza l'”indispensabilità” degli stessi, e ferma per la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile: e tale disciplina è applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della L. n. 134 del 2012, di conversione del D.L. n. 83 cit. e, quindi, dopo l’11 settembre 2012 (Cass. 9 novembre 2017, n. 26522; 14 marzo 2017, n. 6590).

E’, dunque, venuta meno l’ipotesi della indispensabilità della prova.

Tale ultima versione si applica al giudizio, in ragione della pubblicazione della sentenza di primo grado in data 21 settembre 2012.

3.2. – Occorre, altresì, rilevare come, nella specie, il documento fu prodotto, come riferisce la sentenza impugnata, con la comparsa conclusionale in primo grado; precisano i ricorrenti che ciò avvenne dopo la notifica dell’istanza di fissazione dell’udienza ex D.Lgs. n. 5 del 2003, quindi a preclusioni consumate; il tribunale lo reputò ammissibile e lo prese in esame ai fini della decisione.

Quale sia il regime dei nova, introdotti oltre le preclusioni maturate in primo grado, e reiterati in appello, è stato già considerato da questa Corte, la quale ha affermato il condivisibile principio secondo cui – una volta che l’elemento nuovo sia stato introdotto oltre le preclusioni vigenti in primo grado – la disciplina sull’ammissibilità dei nova in appello regola, ex post, anche detta situazione, in una c.d. portata estensiva di essa.

Invero, la Corte ha affermato che la parte vittoriosa, la quale proponga novità in appello, deve essere considerata aver proposto le medesime ai sensi dell’art. 345 c.p.c., qualora, costituendosi in giudizio, chieda che la sentenza ad essa favorevole sia confermata in base alle stesse ragioni poste a suo fondamento dal giudice di primo grado, il quale aveva ritenuto di esaminare quella medesima eccezione ed accoglierla, benché fosse stata formulata per la prima volta nella comparsa conclusionale, e ciò secondo una “ricostruzione non formalistica del sistema processuale” (Cass. 4 settembre 2004, n. 17906).

3.3. – Le preclusioni alla produzione documentale nel processo perseguono il fine della ragionevole durata dello stesso, ma ciò in bilanciamento con l’esigenza, del pari sentita, di evitare si determini un’intollerabile scollatura fra la verità materiale e quella processuale: la naturale propensione del processo all’accertamento della verità dei fatti va coniugata con il regime delle preclusioni.

Per quanto riguarda il regime delle prove in appello, la soppressione dell’ipotesi della “prova indispensabile”, quale eccezione al divieto dei nova, si traduce quindi nell’accentuazione dell’onere di tempestiva attivazione del convenuto, in attuazione di un principio di lealtà processuale che impone di dedurre immediatamente tutte le possibili difese.

Ma, appunto per l’esigenza di bilanciamento con il predetto principio di verità – atteso il fine della restrizione del nova in appello, volta a indurre il convenuto ad una condotta corretta, nel contempo dovendosi però scongiurare l’avverso abuso del processo ad opera della controparte che abbia allegato circostanze inveritiere – il legislatore ha reso generale l’istituto della rimessione in termini, di cui all’art. 153 c.p.c., comma 2.

Tale norma prevede che “La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”.

Giova ricordare come, per l’art. 37 c.p.a., il giudice “può disporre, anche d’ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto”.

Si tratta di una risposta del legislatore alle medesime esigenze, in sostanza concernenti la decadenza processuale, cui la parte sia incorsa; e tali esigenze debbono essere riguardate in modo coerente nell’ordinamento giuridico.

In tali casi, l’ordinamento reputa dunque non imputabile la preclusione stessa, alla stregua dei principi costituzionali del giusto processo.

La rimessione in termini ex art. 184-bis c.p.c., e, ora art. 153 c.p.c., comma 2, è dunque il mezzo per ovviare all'”errore scusabile” oggettivamente (su tale nozione, cfr. Cass. 7 gennaio 2020, n. 104; Cass. 8 luglio 2020, n. 14411; Cass. 11 marzo 2019, n. 6918; Cass. 21 dicembre 2012, n. 23836; Cass. 26 luglio 2011, n. 16365).

Ai fini del processo civile deve, dunque, a tal fine essere considerata la rilevanza di tutti quegli elementi o situazioni esterne, che incidano in modo non superabile sul tempestivo adempimento della parte, incorsa in decadenza.

Affinché operi l’istituto, occorrerà che il giudice valuti, oggettivamente e ragionevolmente, come scusabile il ritardo e, perciò, non indefettibilmente esigibile l’adempimento tempestivo cui la parte sia onerata, in presenza di determinate circostanze del caso concreto, onde sia allora possibile che essa sia “rimessa in termini” per assolvere l’onere stesso.

3.4. – La corte d’appello, si è detto, espone una duplice motivazione: da un lato, reputando il documento indispensabile, ma in tal modo applicando una norma che non era più attuale; dall’altro lato, ritenendo anche scusabile il ritardo, atteso l’onere di reperimento di un documento così remoto, e non esigibile nella specie una condotta diversa.

Premesso che l’esistenza di tale documento e quindi il positivo riscontro del requisito formale ex art. 23 t.u.f. valgono a confutare la contraria allegazione inveritiera ed a smentire la reiterata deduzione di una nullità per difetto di forma scritta, rileva il Collegio che tale seconda motivazione è idonea a sorreggere la decisione assunta al riguardo dalla corte territoriale, con conseguente rigetto del primo motivo.

4. – Il secondo motivo è inammissibile.

Nel dolersi della mancata verifica, ad opera del giudice di appello, delle condizioni cui la regolamentazione negoziale era soggetta, secondo la disciplina del testo unico della finanza, i ricorrenti non indicano specificamente quale disposizione sarebbe stata violata dal contratto-quadro concluso inter partes il 19 aprile 1993: tanto da rendere inammissibile la censura di mancato rispetto della disciplina sopravvenuta.

5. – Il terzo motivo, che verte sulla risolubilità o no, oltre che del contratto-quadro, anche dei singoli ordini di acquisto, invece negata dalla corte territoriale, resta assorbito dal rigetto del quarto.

6. – Il quarto motivo è inammissibile.

I ricorrenti affermano che, nel corso del giudizio di merito, sarebbe “emerso” il mancato assolvimento degli obblighi informativi da parte dell’intermediario, ma che il giudice di appello avrebbe escluso l’inadempimento della banca, in violazione di legge.

La corte territoriale, nell’ambito dell’accertamento dei fatti ad essa riservato, ha ritenuto che la banca fu adempiente ai propri obblighi informativi.

Per giungere a tale conclusione, essa ha valorizzato il fatto della competenza soggettiva degli investitori, sia generica, sia quanto alla specifica materia dei prodotti finanziari, sulla base di una serie di valutazioni in fatto.

Tutto ciò rende l’accertamento insindacabile in questa sede, né palesandosi un errore di diritto per violazione delle norme invocate, neppure quanto alla pretesa di continua informazione sull’andamento del titolo anche dopo l’acquisto, non dovuta in mancanza di uno specifico patto o accordo di consulenza.

7. – Il quinto motivo è del pari inammissibile, laddove censura la conclusione di adeguatezza delle operazioni concluse, ai sensi dell’art. 29 reg. Consob n. 11522 del 1998, raggiunta dalla sentenza impugnata: si tratta di accertamento di merito, invero, non riproponibile in sede di legittimità.

8. – Il sesto motivo è inammissibile, vertendo sulla mancata prova del nesso causale circa il danno cagionato dall’investimento de quo.

La corte territoriale ha ritenuto indimostrato già il primo elemento oggettivo della fattispecie illecita costituito dall’inadempimento della banca, aggiungendo come manchi anche l’altro elemento oggettivo del nesso eziologico tra condotta e danno.

Si tratta di un secondo argomento che, pur perfettamente ammissibile in ragione del porsi sullo stesso piano degli elementi costitutivi della fattispecie sostanziale, è tuttavia ad abundantiam, noto essendo che è sufficiente l’assenza dell’un elemento costitutivo per rendere superflua l’indagine sugli altri. Onde, poi, diviene inammissibile il motivo che attacchi uno solo di essi, quando la decisione resti sorretta dai rimanenti accertamenti.

9. – Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 11.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie del 15% sui compensi ed agli accessori, come per legge.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, a carico dei ricorrenti incidentali in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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