Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.1758 del 20/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12154-2020 proposto da:

GEDI GRUPPO EDITORIALE SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, M.E., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA SANTI APOSTOLI 81, presso lo studio dell’Avvocato VIRGINIA RIPA DI MEANA, che li rappresenta e difende unitamente all’Avvocato ALESSANDRA PIANA;

– ricorrenti –

contro

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO MARIA TORRIGIO 21, presso lo studio dell’Avvocato MARCELLO GROTTA, rappresentato e difeso dall’Avvocato SALVATORE FERRARA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 61/2019 della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositata il 30/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 12/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. STEFANO GRINTE GUIZZI.

RITENUTO IN FATTO

– che la società GEDI-Gruppo Editoriale S.p.a. (d’ora in poi, “GEDI”) ed M.E. ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 61/19, del 30 gennaio 2019, della Corte di Appello di Caltanissetta, che – decidendo quale giudice del rinvio, all’esito dell’annullamento disposto da questa Corte (con ordinanza n. 12012/17, del 16 maggio 2017) della sentenza n. 63/14, del 10 giugno 2014, resa dalla stessa Corte territoriale in accoglimento del gravame esperito dalla società GEDI, dal M. e da B.A., avverso la sentenza n. 607/07, del 17 ottobre 2007, del Tribunale di Caltanissetta – così ha provveduto;

– che essa ha accolto la domanda risarcitoria proposta da C.S. in relazione ad un articolo, intitolato “*****”, apparso il 6 novembre 2003, a firma del B., sul quotidiano “*****”, edito dalla società GEDI e diretto dal M., confermando, così, la condanna – già comminata dal Tribunale esclusivamente a carico degli ultimi due – a risarcire, in solido, il C. per il danno subito, quantificato in Euro 50.000,00, oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo;

– che, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti riferiscono che il C. ebbe a convenirli in giudizio (e con essi anche il B., autore dell’articolo), assumendo il carattere diffamatorio del contenuto dello scritto, ed inoltre lamentando che il titolo, il sottotitolo e la fotografia posti a corredo dello stesso, nel creare un collegamento tra la sua figura e quella del boss mafioso P.B., fossero lesivi della sua reputazione;

– che accolta la domanda dal Tribunale, ancorché solo nei confronti del direttore e dell’editore, su gravame di questi ultimi la pretesa risarcitoria veniva integralmente rigettata, sul presupposto che la titolazione e gli altri elementi tipografici (sottotitoli, fotografie, etc.) si fossero limitati a riassumere il contenuto dell’articolo del B., già ritenuto lecito dal primo giudice;

– che su ricorso del C., tuttavia, questa Corte cassava la sentenza della Corte nissena, sul rilievo che essa non avesse “risposto al quesito che le era stato posto con l’atto di appello, perché non ha spiegato se il titolo dell’articolo – affiancato dal sottotitolo e, più ancora, dalle due fotografie di P.B. e di C.S. accostate e collegate tramite la didascalia “*****” – avesse o meno una autonoma capacità diffamatoria, indipendente dal contenuto dell’articolo, la cui inidoneità a quei fini era stata già affermata con pronuncia irrevocabile”;

– che il giudice del rinvio, all’esito del giudizio ex art. 394 c.p.c., ha accolto la domanda risarcitoria nei confronti dell’editore e del direttore, rigettando il gravame dagli stessi esperito;

– che a tale conclusione esso è pervenuto evidenziando come “l’accostamento delle due effigi fotografiche, unite dalla didascalia, ripetuta, “*****”, effettuato dopo aver fatto riferimento all’esistenza di un nuovo volto della mafia e senza ulteriori spiegazioni sulle ragioni dell’accostamento, fosse effettivamente lesivo della reputazione e dell’immagine dell’attore, perché veniva effettuata un’indebita equiparazione delle figure, come se costoro rappresentassero la vecchia la nuova Guardia della consorteria criminale”;

– che, inoltre, la sentenza oggi impugnata sottolineava come, “tenuto conto del fatto che nell’articolo non vi è alcun riferimento specifico a fatti e responsabilità penali eventualmente contestati dall’autorità giudiziaria all’attore, nel titolo si è effettivamente voluto saltare alle conclusioni, creando, attraverso le immagini, un ingiustificato collegamento diretto tra le due figure, come se l’allora governatore della Sicilia potesse essere considerato il delfino del boss P., chiamato a perpetuare le gesta, quale affiliato alla consorteria mafiosa”;

– che avverso la sentenza della Corte nissena ricorrono per cassazione la società GEDI e il M., sulla base di tre motivi;

– che il primo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 21 Cost., art. 2043 c.c., artt. 51 e 595 c.p., e della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 11”, e ciò “con riferimento ai principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di diffamazione a mezzo stampa”, e in particolare, “per avere la Corte di Appello riconosciuto il carattere autonomamente illecito e diffamatorio della veste grafica di presentazione dell’articolo giornalistico”;

– che, secondo i ricorrenti, “diversamente da come rilevato dalla Ecc.ma Corte di Cassazione, il giudice di seconde cure non aveva affatto omesso di pronunciarsi in merito all’autonoma capacità lesiva della titolazione”, sicché di “tale circostanza” la Corte territoriale, quale giudice del rinvio, “avrebbe dovuto avvedersi pure nell’ambito del ristretto sindacato ad essa demandato”;

– che, per contro, la medesima “ha ravvisato una violazione del canone della continenza formale ed anche della verità dei fatti storici rappresentati, ciò a prescindere dal contenuto dell’articolo allegato”;

– che, in questo modo, però, la sentenza impugnata sarebbe incorsa in “una manifesta violazione di legge”, avendo “malamente interpretato la norma applicata”, e ciò, segnatamente, allorché “ha ritenuto che, nella fattispecie in esame, non fosse riscontrabile l’esimente del diritto di critica, ai sensi dell’art. 51 c.p., pure per le espressioni contenute nel titolo e per l’intero corredo grafico dell’articolo”, avendoli “autonomamente” esaminati;

– che, difatti, sebbene il C., all’epoca della pubblicazione dell’articolo, non fosse stato “ancora processato”, né avesse “riportato alcuna condanna per i fatti descritti nell’articolo e nella titolazione”, risultava, nondimeno, “indagato” per concorso esterno in associazione mafiosa, essendo, poi, rinviato a giudizio, nel 2005, per favoreggiamento aggravato nei confronti di “*****”, fattispecie per la quale veniva successivamente condannato, nel 2010, con sentenza passata in giudicato;

– che, pertanto, “titolo” e “sottotitolo” dell’articolo riflettevano “correttamente”, secondo i ricorrenti, “il contenuto delle indagini giudiziarie all’epoca in corso e nelle quali era già direttamente indagato il Dott. C.”;

– che, d’altra parte, neppure “le due immagini pubblicate a corredo dell’articolo” presentavano carattere diffamatorio, giacché esse “avevano solo lo scopo di richiamare visivamente la mafia ( P.) e la Sicilia (il Governatore C.), tanto che “nella didascalia posta tra le due fotografie” viene indicato solo “il ruolo” di entrambi gli effigiati, senza alcun riferimento “alle predette inchieste giudiziarie”, senza tacere del fatto – osservano i ricorrenti – che “lo stesso concetto di “invisibilità” del “nuovo volto della mafia””, pure indicato nella titolazione, “non collima con la figura pubblica del Dott. C.”;

– che non essendovi, dunque, nella titolazione “alcuna attribuzione di responsabilità o coinvolgimento diretto del Dott. C. nell’inchiesta sulla nuova mafia in Sicilia”, nella “valutazione atomistica della stessa”, la Corte nissena avrebbe dovuto applicare il principio di diritto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità”, ovvero che “nel caso di valutazione del titolo come di portata autonomamente diffamatoria, è necessario che esso sia formulato in termini tali da recare un’affermazione compiuta, chiara, univoca ed integralmente percepibile dal lettore senza la lettura dell’articolo e che lo stesso titolo abbia un significato autosufficiente rispetto all’articolo, poiché, in mancanza, la genericità del titolo va risolta mediante l’analisi del contenuto dell’articolo” (e’ citata Cass. Sez. 3, sent. 27 gennaio 2009, n. 1976);

– che alla stregua di tali principi la sentenza impugnata avrebbe dovuto concludere che nella “parte grafica (complessivamente considerata)” non si era “mai affermato che il Dott. C.S. rappresentasse il nuovo volto della mafia”, né che al medesimo si fosse “mai attribuita” una “contiguità o promiscuità con la mafia o con lo stesso P.B.”, né, “ancora”, che “nei titoli o nelle didascalie” si riferisse “di un coinvolgimento del Governatore nell’inchiesta giudiziaria sulla nuova mafia”;

– che, per concludere sul punto, si addebita alla Corte territoriale di aver fatto “violazione – rectius, omessa applicazione – dei principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di valutazione della portata diffamatoria del titolo di un articolo e degli elementi posti a corredo dello stesso, in virtù dei quali l’accertamento circa la diffamatorietà di un “pezzo” giornalistico impone al Giudice di compiere una valutazione “globale” del testo dell’articolo complessivamente considerato nel caso in cui manchi nel titolo un’affermazione compiuta, chiara ed univoca, non potendo in tal caso accertare la diffamatorietà dello scritto mediante l’estrapolazione di singole frasi o spezzoni di titoli o espressioni dal più ampio tenore del contesto narrativo”;

– che il secondo motivo denuncia – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223,2043 e 2059 c.c.”, censurando la sentenza impugnata “per aver ritenuto provata la sussistenza del danno non patrimoniale in assenza di specifiche deduzioni da parte dell’appellante in riassunzione ed evocando genericamente elementi indiziari”;

– che, in particolare, i ricorrenti lamentano che la Corte nissena, sebbene abbia respinto “l’accezione del danno in re ipsa accolta dal Tribunale”, ha confermato, comunque, la condanna al risarcimento “sul presupposto della sussistenza di presunti elementi indiziari gravi, precisi e concordanti”, finendo “per ricalcare precisamente la motivazione del primo giudice, applicando anch’essa l’automaticità risarcitoria”;

– che il terzo motivo denuncia – ancora una volta ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697,2059,2056 e 1226 c.c., e dei principi di giurisprudenza che regolano il ricorso alla valutazione equitativa nella liquidazione del danno non patrimoniale da diffamazione a mezzo stampa, in relazione all’avvenuto accertamento dell’esistenza del danno non patrimoniale ed alla quantificazione dello stesso operata dalla Corte nissena”;

– che i ricorrenti si dolgono del fatto che la sentenza impugnata nulla avrebbe detto “sul motivo che l’ha indotta a ritenere corretto l’importo liquidato dal Tribunale”, e ciò quantunque essi avessero “formulato adeguata impugnazione” in punto “di quantificazione del danno”, lamentando, infine, come “palesemente incongrui con riguardo alla fattispecie in esame” i “criteri (non) richiamati dalla Corte territoriale a sostegno della esorbitante liquidazione”, specie ove si consideri che le “tabelle” del Tribunale di Milano “prevedono una somma del genere solo per le diffamazioni di eccezionale gravità”;

– che il C. ha resistito, con controricorso, alla proposta impugnazione, chiedendo che essa sia dichiarata inammissibile o comunque rigettata;

– che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata ritualmente comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio per il 12 ottobre 2021;

– che entrambe le parti hanno depositato memoria, insistendo nelle rispettive argomentazioni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

– che il ricorso è inammissibile, in ognuno dei motivi in cui si articola, non risultando superate, dai rilievi espressi dai ricorrenti nella memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2, le considerazioni formulate nella proposta del consigliere relatore;

– che l’inammissibilità del primo motivo deriva dalle seguenti ragioni;

– che, al riguardo, deve preliminarmente notarsi come il motivo si risolva in una critica, più che del contenuto della sentenza impugnata, della pronuncia rescindente adottata da questa Corte, e ciò non solo nella parte in cui il ricorso afferma (pag. 15) che, “diversamente da come rilevato dalla Ecc.ma Corte di Cassazione, il giudice di seconde cure non aveva affatto omesso di pronunciarsi in merito all’autonoma capacità lesiva della titolazione”, ma soprattutto quando addebita a questo giudice di legittimità (pag. 24) di non aver fatto “applicazione dei noti principi in tema di autonoma lesività degli elementi redazionali afferenti ad un brano”, bensì di stare “solamente giustificando e quindi accettando quella frettolosità e quella trascuratezza verso cui la vita di tutti i giorni ci sta ormai spingendo”, in particolare contestando quel passaggio motivazionale in cui questa Corte ha affermato che “la lettura congiunta del titolo e dell’articolo riveste un’importanza minore rispetto al passato, proprio perché la fruizione dell’informazione è divenuta più veloce”;

– che il motivo, dunque, non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, visto che la contestazione della stessa, lungi dal sostanziarsi nella critica di avere disatteso (o meglio, malamente applicato) il principio di diritto con cui questa Corte aveva imposto al giudice del rinvio la valutazione dell’autonoma lesività della titolazione dell’articolo, e delle fotografie che lo accompagnavano, si risolve in una censura del tutto “eccentrica” rispetto al compito che la pronuncia cassatoria aveva demandato al giudice “ad quem”;

– che, difatti, si addebita alla Corte territoriale di aver fatto “violazione – rectius, omessa applicazione – dei principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di valutazione della portata diffamatoria del titolo di un articolo e degli elementi posti a corredo dello stesso, in virtù dei quali l’accertamento circa la diffamatorietà di un “pezzo” giornalistico impone al Giudice di compiere una valutazione “globale” del testo dell’articolo complessivamente considerato nel caso in cui manchi nel titolo un’affermazione compiuta, chiara ed univoca, non potendo in tal caso accertare la diffamatorietà dello scritto mediante l’estrapolazione di singole frasi o spezzoni di titoli o espressioni dal più ampio tenore del contesto narrativo” (pag. 23);

– che, per contro, al giudice del rinvio era stato demandato di stabilire “se il titolo dell’articolo” (in particolare, “affiancato dal sottotitolo e, più ancora, dalle due fotografie”) avesse o meno “una autonoma capacità diffamatoria, indipendente dal contenuto dell’articolo, la cui inidoneità a quei fini era stata già affermata con pronuncia irrevocabile”, tanto da essersi disposto il rigetto della domanda risarcitoria contro il B., ovvero l’autore del pezzo giornalistico;

– che l’inammissibilità del motivo emerge, vieppiù, alla stregua del principio secondo cui, “in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 14 marzo 2018, n. 6133, Rv. 648418-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 30 maggio 2017, n. 13520, non massimata sul punto; Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2015, n. 15759, non massimata, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 80, Rv. 621133-01), sicché il “controllo affidato al giudice di legittimità è dunque limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonché al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), applicabile “ratione temporis””, mentre resta “del tutto estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione, non potendo la Corte di cassazione sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine a tale accertamento” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 6133 del 2018, cit.);

– che alla verifica della (eventuale) sussistenza di tali elementi idonei ad escludere, a norma dell’art. 53 c.p., (nonché dell’art. 21 Cost., e art. 11 CEDU), l’illiceità della condotta – il giudice del rinvio ha proceduto, esprimendo una motivazione che si colloca ben al di sopra del “minimo costituzionale”, ciò che vale ad escludere la ricorrenza del vizio di motivazione (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonché, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01);

– che la motivazione della Corte nissena, infatti, non esibisce quei profili di “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero di “inconciliabilità” di affermazioni (da ultimo, Cass. Sez. ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), tali da rendere “non percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonché, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01);

– che anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile;

– che la sentenza impugnata, nel valutare la sussistenza del pregiudizio non patrimoniale lamentato dal C., si è attenuta al principio secondo cui “il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in tv ipso”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione” (correggendo la Corte nissena, sul punto, la motivazione del primo giudice), “sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima” (Cass. Sez. 3, ord. 26 ottobre 2017, n. 25420, Rv. 646634-04; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, ord. 18 febbraio 2020, n. 4005, Rv. 657006-01), parametri, questi, ai quali ha attribuito rilievo il giudice del rinvio;

– che la censura svolta dai ricorrenti, nella misura in cui addebita alla Corte territoriale di avere applicato “anch’essa l’automaticità risarcitoria” (a dispetto del dichiarato intento di escludere, invece, l’esistenza di un “damnum in re ipsa”, si risolve, in definitiva, in una critica che investe – inammissibilmente – il merito dell’applicazione degli “elementi indiziari” valorizzati dalla sentenza impugnata per ritenere integrato, “con ragionamento inevitabilmente presuntivo, data la impalpabilità del danno reputazionale” (Cass. Sez. 3, ord. n. 4005 del 2020, cit.), il pregiudizio lamentato, nella specie, dal C.;

– che, infine, l’esito dell’inammissibilità s’impone anche in relazione al terzo motivo di ricorso, relativo alla liquidazione del danno, quantunque per ragioni diverse da quelle indicate nella proposta del consigliere relatore;

– che il motivo, invero, non tiene in debito conto il fatto che la decisione relativa al “quantum debeatur” (sostanziatisi nella conferma di quanto già disposto dal primo giudice), si è fondata su due diverse “rationes”;

– che la Corte nissena, per un verso, ha specificamente valorizzato – tra i parametri già utilizzati per ravvisare l’esistenza di un danno risarcibile (ovvero “la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima”) – l’ultimo di essi, dando rilievo alla “notorietà” del C., come “derivantegli dalle cariche politiche e istituzionali” ricoperte, notorietà “destinata a subire un gravissimo contraccolpo a seguito della pubblicazione di un titolo di giornale che lo rappresentava, maliziosamente e in maniera peraltro non veridica, come nuovo volto della mafia siciliana e continuatore delle “gesta” del boss P.B.”;

– che il giudice del rinvio, per altro verso, ha evidenziato l’assenza “di motivi specifici di critica” alla decisione assunta dal primo giudice in relazione alla quantificazione del danno;

– che la censura svolta con il presente motivo investe, tuttavia, esclusivamente tale seconda “ratio” (deducendo, in particolare, l’esistenza di uno specifico motivo di appello rimasto privo di disamina da parta della Corte nissena), ma non anche la prima, tale non potendosi ritenere la doglianza relativa al carattere “esorbitante” della somma liquidata a titolo di risarcimento;

– che deve, pertanto darsi seguito al principio secondo cui, ove “la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l’annullamento della sentenza” (tra le molte, Cass. Sez. 6-5, ord. 18 aprile 2017, n. 9752, Rv. 643802-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, ord. 31 agosto 2020, n. 18119, Rv. 658607-02);

– che il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile;

– che le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;

– che in ragione della declaratoria di inammissibilità del ricorso, va dato atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, – della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, se dovuto secondo accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condannando la società GEDI-Gruppo Editoriale S.p.a. ed M.E. a rifondere, a C.S., le spese del presente giudizio, che liquida nell’importo complessivo di Euro 4.500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonché 15% per spese generali più accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2022

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