LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2003-2018 proposto da:
P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI 4, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA SCAFARELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CESARE JANNA;
– ricorrente –
contro
ITALGAS RETI SPA, già SOCIETA’ ITALIANA PER IL GAS PER AZIONI, in persona del procuratore pro tempore MARIA CARMELA MACRI’, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI MONTE FIORE 22, presso lo studio dell’avvocato STEFANO GATTAMELATA, rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO LEONE GIACOMO MERANI;
– controricorrente –
e contro
IMMOBILIARE Z. SPA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 1223/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 07/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/10/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato FEDERICA SCAFARELLI;
udito l’Avvocato CARLO LEONE GIACOMO MERANI;
FATTI DI CAUSA
P.M. ricorre, avvalendosi di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 1223/2017 della Corte d’Appello di Venezia, pubblicata il 7 giugno 2017.
Resiste con controricorso Italgas Reti (già Italgas S.p.a.).
Il ricorrente espone in fatto di avere stipulato con Immobiliare Z. S.p.a., in data 29 dicembre 2017, un atto di acquisto dei crediti di rimborso delle spese e risarcitori vantati dalla cedente nei confronti di Italgas S.p.a., asseritamente derivanti dai lavori di bonifica di un’area nel centro di Padova che l’Immobiliare Z. aveva acquistato da Italgas. Sull’area, fino al 1970, dalla società Cledca e dalla società Saica, poi confluite in Italgas – rispettivamente, nel 1970 e nel 1974 – erano state svolte attività che avevano inquinato i terreni, relativamente alle quali il Comune di Padova aveva chiesto alla società acquirente, quando essa nel 2000 aveva presentato domanda di concessione edilizia per la costruzione di un autosilos con annesso edificio commerciale, il compimento di costose opere di bonifica.
Immobiliare Z. aveva agito in giudizio nei confronti di Italgas per ottenerne la condanna alla rifusione delle spese di bonifica che, a fronte del rifiuto di provvedere da parte dell’alienante, aveva provveduto a realizzare in proprio, al risarcimento del danno in forza del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253, comma 4 e art. 2043 c.c.
Il Tribuna di Padova, prima, con sentenza n. 2683/2013, e la Corte d’Appello, poi, con la sentenza oggetto dell’odierno ricorso, avevano respinto la domanda risarcitoria, ritenendo che il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253 non potesse trovare applicazione e che il credito risarcitorio ex art. 2043 c.c. fosse prescritto.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 167 c.p.c. e del principio di diritto da esso derivante dell’onere di contestazione specifica, nonchè dell’art. 2697 c.c.
La Corte d’Appello aveva confermato la decisione di prime cure quanto all’insussistenza del nesso causale tra l’inquinamento del sito e l’attività direttamente esercitata da Italgas, ritenendo le argomentazioni della società appellante circa l’applicabilità del principio comunitario dell’unicità economica del gruppo inidonee a confutare il fatto che Italgas non avesse mai esercitato l’attività di industria chimica, non essendo stato provato quale attività produttiva fosse stata svolta da Italgas da ottobre 1946 – data di acquisizione di Saica – a marzo 1947 – data in cui tutte le attività di Saica confluirono in Cledca, fusa per incorporazione in Italgas nel 1970 -.
La tesi sostenuta dal ricorrente è che la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare pacifico e non contestato che tra il 1946 e il 1947, dopo l’incorporazione di Saica e prima del trasferimento a Cledca, l’attività inquinante fu continua, non essendo stato contestato quanto riferito nell’atto di citazione e poi ribadito in appello e cioè che in data 29 ottobre 1946 Italgas incorporò Saica, subentrando in tutti i suoi rapporti attivi e passivi, così direttamente svolgendo nel sito le attività di Saica, e che dopo l’assorbimento di Saica la produzione effettuata a Padova da Cledca era stata ampliata, incrementando lo svolgimento di attività altamente inquinante. La società Italgas nella sua comparsa di risposta si era limitata, infatti, ad esporre di non avere mai esercitato attività chimica e di avere, nel 1947, concentrato tutte le proprietà ricevute dalla Saica, compreso il sito di Padova, nella Cledca, pur dovendosi prendere atto che con il trasferimento a Cledca l’attività era cessata e che tale concentrazione era stata compiuta perchè Italgas non aveva mai in precedenza esercitato attività di industria chimica.
La conclusione del giudice prime cure, confermata sul punto e con le stesse motivazioni dalla Corte d’Appello, sarebbe errata per violazione falsa applicazione dell’art. 167 c.p.c. e del principio di diritto da esso derivante dell’onere della contestazione nonchè dell’art. 2697 c.c., poichè non essendo stato contestato da Italgas il fatto della continuazione dell’attività inquinante esso non necessitava di prova e la parte su cui l’onere probatorio gravava ne era esonerata.
2. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253, comma 4, – il quale prevede il diritto di rivalsa del proprietario non responsabile dell’inquinamento che abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito – nella parte in cui la sentenza impugnata esclude che Italgas sia succeduta negli obblighi di bonifica.
La sentenza avrebbe fatto erronea applicazione del principio di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. 6055/2008 che non riguarda l’esercizio dell’azione di rivalsa nei confronti del responsabile dell’inquinamento – nel caso di specie la società Italgas succeduta nella posizione di responsabile dell’inquinamento – ma la successione negli obblighi di bonifica e che si applica solo ai rapporti tra privati ed Autorità pubbliche che ordinano la bonifica.
3. Con il terzo motivo il ricorrente imputa, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, al giudice a quo la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 156 del 2006, art. 253, comma 4, sotto un profilo diverso.
La Corte territoriale avrebbe dovuto considerare Italgas succeduta nella posizione di responsabile dell’inquinamento.
4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del principio comunitario della responsabilità del successore economico e della capogruppo nonchè del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253, comma 4, sotto un ulteriore profilo.
La tesi secondo cui Italgas deve essere considerata responsabile dell’inquinamento deriverebbe, ad avviso del ricorrente, anche dal principio comunitario richiamato in epigrafe, impiegato, tra l’altro, proprio dalla pronuncia del Consiglio di Stato n. 6055/2018 che aveva giudicato gravato dell’obbligo di bonifica “chi abbia beneficiato delle valenze economiche anche latenti di un bene-impresa dei correlativi costi dell’internazionalizzazione delle diseconomie esterne prodotte”.
5. Con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto che il diritto risarcitorio si sia prescritto per il decorso del termine quinquennale, decorrente dalla vendita del bene da parte di Italgas, responsabile del danno ambientale per la contaminazione creata. Il dies a quo sarebbe stato erroneamente individuato in quello della vendita anzichè in quello in cui si era verificata l’eliminazione della situazione di danneggiamento o si era verificato un fatto che aveva reso impossibile l’eliminazione dello stato di danneggiamento. Nel caso di specie avendo la società acquirente espressamente chiesto ad Italgas l’eliminazione della situazione di danneggiamento non si erano verificate le condizioni per considerare decorso il termine di prescrizione.
6. I motivi dal due al cinque, esaminabili congiuntamente, risultano fondati. Vanno fatte in via preliminare alcune precisazioni.
La prima è che oggetto della controversia non sono le passività ambientali tout court, cioè gli effetti negativi sulla qualità e/o sull’esercizio delle facoltà dominicali sul sito acquistato derivanti da pregressi fatti di inquinamento taciuti all’acquirente – suscettibili ad esempio di tradursi in eventuali richieste di annullamento del contratto – ma la questione più circoscritta dell’esercizio dell’azione di rivalsa di cui all’art. 253, comma 4 Codice dell’Ambiente, da parte del proprietario non colpevole, delle spese sopportate per realizzare le opere di bonifica rese necessarie da fatti di inquinamento posti in essere dall’alienante.
La seconda è che, non essendo il momento dell’acquisto del complesso immobiliare da parte dell’immobiliare Z. (1974) ricadente, ai fini della legislazione ambientale, sotto la vigenza del D.Lgs. n. 22 del 1997 (noto come Decreto Ronchi) che aveva, per la prima volta, introdotto, all’art. 17, specifici obblighi di fare unitariamente finalizzati al recupero ambientale dei siti inquinati, poi confluiti nel Codice dell’ambiente (D.Lgs. n. 152 del 2006) – sull’assunto che dalla colpevole condotta dell’agente possano scaturire, e normalmente scaturiscano, oltre ad effetti dannosi istantanei, anche sequele di effetti lesivi permanenti o destinati a rinnovarsi e ad aggravarsi nel tempo futuro, e che la condanna al ripristino dei luoghi a spese del responsabile assuma posizione dominante tra le forme risarcitorie, in virtù di deroga al disposto di cui all’art. 2058 c.c., comma 2; e costituisca pertanto – come in dottrina non si è mancato di sottolineare – la misura “privilegiata” da adottare, sol che sia “possibile”, a preferenza della condanna al risarcimento pecuniario, in quanto essa sola idonea a sopprimere la fonte della sequela dei danni futuri (a volte di difficile previsione e di ancor più opinabile quantificazione in termini monetari attuali): Cass., Sez. Un., 25/01/1989, n. 440 – la Corte territoriale ha fatto applicazione dell’indirizzo dottrinario e giurisprudenziale che ne ha escluso l’applicazione retroattiva (per tutte cfr. Cass. 21/10/2011, n. 21887, nel caso di specie, l’irretroattività aveva trovato saldo ancoraggio nel disposto del comma 1 che impone al Ministero dell’Ambiente in concerto con altri Ministeri “entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto” di determinare “a) i limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d’uso dei siti;
c) i criteri generali per la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale dei siti inquinati, nonchè per la redazione dei progetti di bonifica. E perchè d’altra parte soltanto dopo la determinazione suddetta è possibile l’applicazione del comma 2, per il quale “Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lett. a), ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento”).
Tra gli ostacoli addotti a giustificazione della irretroattività vi sono anche gli artt. 41 e 42 Cost. ed il principio di eguaglianza si opporrebbero alla retroattività del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 17. Ricollegare un evento inquinante a chi non detenga nè sia più proprietario del bene si tradurrebbe in una conformazione dell’attività di iniziativa privata e del diritto di proprietà sulla base di una legge non ancora vigente al momento del loro esercizio, e sanzionare allo stesso modo chi abbia tenuto un comportamento non vietato e chi tenga consapevolmente un comportamento antigiuridico si scontrerebbe con il divieto – su cui si è pronunciato anche il giudice delle leggi (Corte Cost. 13/05/1991, n. 202) – di assumere a fonte di responsabilità la condotta di un soggetto adottata quando non esisteva alcun divieto a suo carico da lui conoscibile.
La retroattività non potrebbe trovare giustificazione neppure nel D.M. n. 471 del 1999, art. 4 che pure taluno aveva cercato di valorizzare in tal senso, esaltando i riferimenti espressi a pregressi fatti di inquinamento in esso contenuti, perchè la retroattività non è formulata espressamente e non corrisponde alla ratio della disposizione, diretta ad introdurre a beneficio degli autori di fatti di inquinamento passati, ma perduranti, una agevolazione nell’esercizio delle attività di bonifica nella fase del passaggio dalla vecchia alla nuova normativa.
La conclusione, tuttavia, risulta complessivamente insoddisfacente, anche perchè se è vero che solo con la L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18 (istitutiva del Ministero dell’ambiente) è stata data attuazione, in Italia, al principio comunitario “chi inquina paga” – a mente del quale i costi dell’inquinamento devono essere sopportati dal responsabile attraverso l’introduzione, quale forma particolare di tutela, dell’obbligo di risarcire il danno cagionato all’ambiente a seguito di una qualsiasi attività compiuta in violazione di un dispositivo di legge – non può neppure escludersi che anche prima dell’entrata in vigore della L. 8 luglio 1986, n. 349, la tutela dell’ambiente, da considerarsi espressione di un autonomo valore collettivo del complesso delle risorse ambientali e degli esseri viventi che caratterizzano un determinato habitat, fosse specificamente riconosciuta, in quanto tale, dall’ordinamento e che trovasse la sua fonte nei precetti costituzionali posti a salvaguardia dell’individuo e della collettività nel suo habitat economico, sociale ed ambientale (artt. 2,3,9,41 e 42 Cost.) che elevando l’ambiente ad interesse pubblico fondamentale, primario ed assoluto, imponevano allo Stato un’adeguata predisposizione di mezzi di tutela ed assicuravano comunque alla collettività il godimento di tale bene. In altri termini, l’art. 2043 c.c. consentiva, già prima del 1986, agli enti esponenziali della collettività ed in primo luogo allo Stato di ricorrere (oltre che alla repressione penale ed amministrativa) alla tutela risarcitoria, anche in forma specifica, ex art. 2058 c.c., nei confronti di chi avesse agito in violazione delle norme specificamente poste a tutela dell’ordinato svolgersi dell’attività di sviluppo ed uso del territorio.
Di non secondario rilievo è anche il principio comunitario del chi inquina paga, ormai confluito in una specifica disposizione (art. 191) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, nel quale rientra come uno degli obiettivi principali sui quali si basa l’azione Europea in materia ambientale ed in attuazione della direttiva 2004/35/CE, che, ove interpretato in chiave soggettiva, implica la necessità di garantire che il responsabile dell’inquinamento “paghi” per l’illecito ambientale quando venga raggiunta la certezza processuale del suo contributo nella causazione dell’evento; pur dovendosi tener conto in linea generale che il modello di responsabilità fondato sull’evocato principio comunitario è uscito ridimensionato non solo dalle discipline nazionali specificamente adottate al fine di recepirlo, ma anche dalla direttiva sulla responsabilità ambientale e dalla direttiva sui rifiuti che hanno delineato la fisionomia di una responsabilità oggettiva meno rigorosa che lascia spazio alla valutazione delle esimenti e che non sempre risulta in grado di imporre la correzione prioritaria dei danni causati all’ambiente (Corte giustizia UE sez. III, 04/03/2015, n. 534).
L’insieme di tali dati ha, comunque, consentito l’emergere della tendenza a ritenere che non sia adeguato discutere dell’applicazione retroattiva dell’art. 17 decreto Ronchi e poi del corrispondente art. 253 Codice dell’Ambiente, quanto piuttosto della responsabilità per gli effetti perduranti dell’inquinamento che abbisognano dell’adozione delle misure di rimozione dell’inquinamento. Significa, insomma, che la ricorrenza di una situazione di inquinamento perdurante al momento dell’entrata in vigore della normativa imponente specifici obblighi di bonifica dei siti inquinati, indipendentemente dal momento in cui sono avvenuti i fatti che hanno provocato l’alterazione ambientale, imporrebbe un obbligo di intervento, in quanto l’evento in sè dà luogo ad una situazione destinata a restare permanente, ove le cause della compromissione ambientale non vengano rimosse. In questo modo non sarebbe in questione l’applicazione retroattiva della prescrizione degli obblighi di facere derivanti dall’inquinamento ambientale, ma verrebbe in gioco l’applicazione delle nuove disposizioni normative rispetto ad eventi ancora in corso suscettibili di essere interrotti solo con la bonifica. A supporto di tale conclusione la dottrina adduce la sanzione penale che l’art. 51 bis Decreto Ronchi, antesignano dell’attuale art. 257 Codice dell’Ambiente, poneva a carico di coloro che, obbligati a mettere in pratica le prescrizioni di cui all’art. 17, avessero omesso colposamente o dolosamente di farlo. L’inquinamento sarebbe così degradato ad antecedente logico-giuridico della condotta omissiva penalmente rilevante e non il fatto inquinamento, bensì l’omessa bonifica integrerebbe il comportamento penalmente rilegante.
E’ stata inizialmente la giurisprudenza amministrativa a riconoscere che, ferma l’irretroattività degli obblighi di facere imposti dalla legislazione materia ambientale, dovessero essere giudicati “i perduranti ed in atto i livelli d’inquinamento” necessitanti di un idoneo intervento di bonifica; successivamente, anche se con profili e modalità diverse, la Corte di Cassazione penale ha condiviso la tesi della giurisprudenza amministrativa e, nell’ambito di un giudizio inerente il reato previsto al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51- bis ha affermato che: “l’inquinamento o il pericolo concreto d’inquinamento debbono essere inquadrati “nei presupposti di fatto” e non negli elementi essenziali del reato; questo consente l’applicazione della predetta norma anche a situazioni verificatesi in epoca anteriore del regolamento, e ciò non solo nell’ipotesi in cui il soggetto venga diffidato dal Comune, ai sensi dell’art. 17" (Cass. pen. 07/06/2000, n. 1783).
La ricostruzione non è ignorata neppure dalla Corte di Cassazione civile; già la prima pronuncia occupatasi della questione, ferma nell’escludere la retroattività del Decreto Ronchi, aveva preso in considerazione “il diverso orientamento giurisprudenziale e dottrinario secondo cui, invece, la normativa dell’art. 17 è applicabile a qualunque situazione di inquinamento ancora in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo indipendentemente dal momento in cui sono avvenuti i fatti che lo hanno provocato”, ma aveva escluso che essa giovasse alla parte ricorrente che non aveva provato nè alcun provvedimento a suo carico intrapreso dalla Pubblica amministrazione per violazione degli obblighi di bonifica nè di diffida a provvedere a suo spese e che la qualifica di “responsabile” dell’inquinamento si esauriva “in un’apodittica accusa fondata su di una inconsistente sorta di presunzione tratta dalla destinazione del sito “ad uso opificio” riportata nell’atto di vendita del terreno”, senza indicazione alcuna dell’attività inquinante svolta dalla società alienante, stante il difetto in radice non solo l’allegazione del nesso di causalità tra di essa e l’inquinamento, ma anche la prova dell’esistenza ontologica di quest’ultimo (Cass. n. 21887/2011).
Una diversa conclusione finirebbe, da un lato, con il premiare il responsabile dell’inquinamento cui basterebbe rendersi irreperibile alienando la cosa inquinata e dall’altro con l’avvantaggiare il nuovo proprietario che troverebbe nella limitazione di responsabilità disposta a suo favore (essendo ammessa solo una responsabilità di tipo patrimoniale correlata al valore commerciale del cespite pervenutogli: cfr. infra) un commodus discessus per liberarsi dei ben più gravosi oneri economici connessi alla integrale bonifica del sito, abbandonata l’idea che il proprietario incolpevole, utilizzando il sito per l’esercizio della sua attività d’impresa, debba essere chiamato a compiere gli interventi di ripristino ambientale a titolo di responsabilità oggettiva, per la relazione speciale con la cosa immobile strumentale all’esercizio della sua attività, ed anche in ragione degli oneri di custodia e di particolare diligenza esigibili nei confronti del titolare di beni suscettibili di arrecare danno ad interessi particolarmente sensibili (Cons. Stato 25/01/2018, n. 502).
Tale ricostruzione giova all’odierno ricorrente.
Il D.Lgs. n. 152 del 2006, raccogliendo l’eredità del Decreto Ronchi, prevede che accanto alla responsabilità dell’inquinatore si collochi, ad ulteriore garanzia dell’esecuzione degli interventi previsti, quella del proprietario del sito inquinato, benchè le due “responsabilità” si fondino su presupposti giuridici diversi ed abbiano differente natura.
In merito alla responsabilità in capo al c.d. proprietario incolpevole, si è formato un orientamento oramai consolidato che ne esclude “il coinvolgimento coattivo (…) nelle attività di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza di emergenza: al più tale soggetto potrà essere chiamato, nel caso, a rispondere sul piano patrimoniale e a tale titolo potrà essere tenuto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal contenuto dell’art. 253 codice dell’ambiente” (da ultimo cfr. Cons. Stato 25/01/2018, n. 502).
Il proprietario incolpevole è tenuto ad adottare, ai sensi dell’art. 245, comma 2, soltanto le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. 1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”; gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2); se il responsabile non sia individuabile o non provveda gli interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente (art. 244, comma 4), salvo che non vi provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato; se tali attività sono eseguite dalla Pubblica amministrazione le spese sostenute potranno essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4).
La responsabilità dell’autore dell’inquinamento, ai sensi del menzionato art. 17, comma 2 (ora art. 253 Codice dell’ambiente), è stata oggetto di approfondimento da parte della sentenza di questa Corte n. 22/01/2019, n. 1573 che qui si richiama ed a cui si intende dare seguito, secondo cui “la qualifica di responsabile attiene non al giudizio di valore della condotta sotto il profilo soggettivo del requisito psicologico (dolo o colpa), ma al giudizio eziologico relativo al profilo oggettivo dell’avere meramente dato causa logica indennitaria che presiede al sistema normativo in esame, secondo la quale il responsabile del procedimento è tenuto a tenere indenne l’amministrazione o il proprietario del sito delle spese sopportate per la bonifica e conseguenti al fatto obiettivo dell’inquinamento, “sul presupposto del mero evento, senza connotazioni soggettive di valore quanto alla condotta del responsabile. Vi è nella fattispecie legale una responsabilità per pura causalità non riconducibile neanche alla responsabilità civile di tipo oggettivo, la quale contempla pur sempre una forma di imputazione soggettiva dell’evento dannoso di natura posizionale, dipendente cioè dalla particolare collocazione del soggetto reso responsabile rispetto alla causa del danno, tale da renderlo come il soggetto che meglio di chiunque altro può prevenire tale pregiudizio (ne è un esempio, proprio nel D.Lgs. n. 152 del 2006, la responsabilità per danno ambientale prevista dall’art. 311, comma 2, in relazione al tipo di attività svolta dall’operatore). Ai fini della disciplina in esame la responsabilità dell’inquinamento non corrisponde a responsabilità per danno ma a responsabilità dell’evento, cui la legge collega un complesso di effetti giuridici (detto altrimenti, ciò che rileva è solo la causalità materiale la relazione fra condotta ed evento -, e non anche la causalità giuridica di cui all’art. 1223 c.c. – la relazione fra l’evento e le conseguenze pregiudizievoli)”.
Quale debba essere la disciplina applicabile all’azione esercitata dal proprietario del sito, il quale non essendo responsabile dell’inquinamento abbia provveduto a sue spese alla bonifica del sito inquinato, non è affatto chiarito dal legislatore ed in dottrina si discute del se egli faccia valere in via di surrogazione il diritto spettante alla Pubblica amministrazione, creditore originario, ovvero se eserciti un proprio diritto, secondo il modello dell’azione di rivalsa e, di conseguenza, è controverso quale sia il contenuto del suo onere probatorio, cioè non è pacifico se egli debba dimostrare gli elementi su cui si fonda la responsabilità dell’inquinatore.
La sentenza richiamata – la n. 1573/2019 – valorizzando la logica indennitaria, dimostra di aderire alla tesi secondo cui il proprietario fa valere lo stesso diritto che avrebbe potuto esercitare la Pubblica amministrazione, cioè il proprietario non chiede il risarcimento del danno extracontrattuale, ma il rimborso delle spese necessarie all’espletamento di una pubblica funzione, con conseguente inapplicabilità dello statuto disciplinare proprio dell’illecito civile, tanto in ordine alla prova della ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità quanto con riferimento alla prescrizione ed alla solidarietà.
Applicando tali conclusioni al caso di specie, ove, pur non essendo stato dedotto che il Comune di Padova avesse intrapreso a carico dell’immobiliare Z. alcun procedimento per violazione delle disposizioni del ricordato art. 17 Decreto Ronchi, ora art. 253 Codice dell’ambiente (è stato solo dedotto che erano stati imposti costosi interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate) e, pur non essendo stata accertata in capo alla società Cledca la qualifica di responsabile dell’inquinamento dalla Pubblica amministrazione, la Corte territoriale avrebbe dovuto limitarsi a verificare se le opere di bonifica eseguite fossero quelle concordate con la pubbliche autorità e prendere atto che era stata raggiunta la prova della responsabilità della società Cledca, quale autrice dell’inquinamento, in ragione del fatto non contestato che tale responsabilità non era stata affermata dalla parte ricorrente in maniera apodittica ed assertiva, bensì sulla scorta di un accertamento tecnico che aveva ricondotto l’inquinamento all’attività chimica svolta sul terreno dalla società Cledca.
Proprio la logica indennitaria che ispira l’azione esercitata avrebbe dovuto indurre la Corte d’Appello a ritenere che il fatto che il proprietario avesse dato esecuzione alle opere di bonifica concordate con gli organi competenti avesse determinato il sorgere a suo favore di un diritto di credito da esercitare in qualunque momento contro il responsabile: responsabile che la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere individuato sulla scorta della avvenuta dimostrazione del nesso di derivazione causale tra l’attività esercitata dalla società Cledca e l’inquinamento riscontrato, atteso che la individuazione può avvenire a cura della Pubblica amministrazione e/o a cura del giudice, senza, per giunta, che quest’ultimo sia vincolato dall’attività svolta dalla Pubblica Amministrazione.
La novità della decisione n. 1573/2019 risiede anche nell’aver emancipato il diritto del proprietario non colpevole dalla previa individuazione dell’autore dell’inquinamento da parte della Pubblica amministrazione.
La decisione sul punto è molto chiara e ad essa deve darsi seguito: se il nucleo fondamentale della disciplina ruota attorno all’esecuzione delle opere di bonifica, una volta accertato che esse siano state realizzate secondo un progetto assentito dall’autorità amministrativa, deve ritenersi integrato il presupposto legittimante l’esercizio del diritto di rivalsa delle spese sostenute da parte del proprietario del sito inquinato che abbia spontaneamente provveduto alla bonifica (l’art. 245, comma 2, gli riconosce la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente a tale scopo).
“Rientra nella cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria l’accertamento della qualità di responsabile dell’inquinamento, oltre che della congruità dell’importo per il quale sia esercitata la rivalsa (…) L’identificazione del responsabile dell’inquinamento, una volta instaurata la controversia, ricade nel giudizio di fatto del giudice che procede e l’eventuale identificazione che sia intervenuta per opera dell’amministrazione rileva sul piano esclusivamente probatorio, da valutare insieme alle altre prove, non essendo previsto che l’identificazione amministrativa del responsabile faccia stato nel processo giurisdizionale” (come previsto invece al D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, art. 7, comma 1).
L’attribuzione alla società Cledca della qualifica di responsabile dell’inquinamento avrebbe dovuto giustificare la condanna alla rifusione delle spese sostenute da parte della società Italgas che aveva incorporato la prima. Di seguito sono chiarite le ragioni.
Questa Corte regolatrice con la pronuncia a Sezioni Unite dell’8/02/2006, n. 2637, al solo scopo di risolvere una questione di giurisdizione, e, quindi, con un obiter dictum, ha inquadrato per la prima volta l’operazione di fusione di società tra le vicende meramente modificative dell’atto costitutivo, ponendosi in contrasto con il tradizionale e monolitico orientamento precedente, secondo il quale la fusione comporterebbe, al contrario, l’estinzione della società incorporata e la conseguente successione a titolo universale del soggetto incorporante (nella fusione per incorporazione) o risultante dalla fusione (nella fusione paritaria) in tutti i rapporti sostanziali e processuali trasmissibili: soluzione quest’ultima che non era stata scalfita neppure dall’entrata in vigore della riforma organica delle società di capitali e società cooperative che aveva modificato l’art. 2504 bis c.c. Se ne trova conferma nelle pronunce Cass. 07/01/2004, n. 50; Cass. 16/01/2004, n. 554; Cass. 18/03/2005, n. 5973; Cass. 06/05/2005, n. 9432; Cass. 25/01/2006, n. 1413, che avevano seguito l’orientamento tradizionale, nonostante l’intervenuta modifica normativa: segno di una certa difficoltà o riluttanza a cogliere le novità della riforma tanto sul piano sostanziale quanto su quello processuale, che aveva indotto la dottrina a parlare della fusione estintiva come di un dogma infrangibile.
Proprio dal tenore dell’art. 2504 bis c.c. questa Corte regolatrice ha tratto il convincimento che il legislatore abbia voluto chiarire che la fusione per incorporazione di cui all’art. 2501 c.c. – quella che ha determinato l’incorporazione della società Cledca da parte di Italgas – non comporti l’estinzione della società incorporata e la creazione di un nuovo soggetto giuridico, ma attui l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione.
L’art. 2501 c.c., proprio perchè nulla prevede in termini di estinzione della società incorporata, induce a ritenere che la società incorporante, in quanto centro unitario di imputazione dei rapporti preesistenti, cioè di tutte le posizioni attive e passive già facenti capo all’incorporata, abbia anche la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l’attività della seconda. Più in particolare, non ci sarebbe alterità soggettiva tra la società incorporata e quella risultante dalla fusione – “risolvendosi (come è già stato rilevato in dottrina) in una vicenda meramente evolutiva-modificativa dello stesso soggetto, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo”: Cass., Sez. Un., 8/02 2006, n. 2637, cit. – potendo la relazione tra le stesse essere ricostruita in termini di integrazione reciproca, giusta il rilievo che i singoli rapporti si integrano nel patrimonio unificato e conservano il loro nesso di derivazione dalla fonte originaria, verificandosi una variazione soggettiva meramente formale che non estingue un soggetto e correlativamente non ne crea uno nuovo.
Proprio perchè come si è detto – e come è stato ribadito da questa Corte (Cass., Sez. Un., 17/09/2010, n. 19698; Cass., Sez. Un., 14/09/2010, n. 19509) – l’incorporazione per fusione non estingue la società incorporata, nè crea un nuovo soggetto di diritto, bensì dà vita ad una unificazione paritaria mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione (Cass., Sez. Un., 08/02/2006, n. 2637), ciò che si determina a seguito della fusione per incorporazione è soltanto un fenomeno evolutivo-modificativo della società, cui non è correlata l’estinzione di un soggetto e la creazione di un altro.
Non costituisce alcun ostacolo a tale ricostruzione la cancellazione dal registro delle imprese della società incorporata, perchè tale cancellazione è diversa da quella risultante dalla cessazione o dal completamento delle attività di liquidazione, in base alla considerazione che “nell’incorporazione per fusione, la società incorporante, già prima della citata novella del 2003, partecipando essa stessa alla fusione, non è mai totalmente distinta dalla parte già costituita, onde quel tipo di operazione dipende interamente dalla volontà degli stessi organi delle due società che ne sono protagoniste, ivi compresa l’incorporante che è destinata a subentrare nella posizione processuale dell’incorporata” (Cass., Sez. Un., 13/03/2013, n. 6070).
Di conseguenza, deve ritenersi che la sentenza del Consiglio di Stato n. 6055/2008 – che aveva ritenuto che il fenomeno della fusione per incorporazione di una società in un’altra determinasse una successione inter vivos a titolo universale, per cui la società incorporante sarebbe succeduta nella titolarità delle situazioni attive e passive della società incorporata, ma non anche negli obblighi di bonifica di cui al D.Lgs. n. 22 del 2006, art. 17 che non potevano considerarsi esistenti al tempo della bonifica – essendo basata sull’idea che l’incorporazione comporti la creazione di un soggetto nuovo e non la mera modificazione di quello preesistente, non è dirimente nel caso di specie.
Anche la Corte d’Appello, dunque, fondando il proprio ragionamento sulla tesi che la società incorporata si fosse estinta e che quella incorporante fosse un nuovo soggetto giuridico, ha erroneamente concluso che anche l’applicazione dell’indirizzo giurisprudenziale diretto ad allargare il perimetro della tutela ambientale mediante il concetto di reato permanente non potesse trovare applicazione nel caso di specie.
Chiarito tale profilo, deve ritenersi che vi siano i presupposti per una responsabilità di Italgas fondata sul diritto della società Z. di surrogazione legale o di rivalsa in quanto nuovo proprietario del sito e perciò soggetto agli obblighi posti a suo carico dall’art. 17, perchè per la responsabilità del proprietario occorre fare riferimento all’art. 17, comma 10 che dispone che gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale costituiscono onere reale sulle aree inquinate (ora D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253, comma 1); nonchè al comma 11 medesimo articolo secondo cui le spese sostenute per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull’immobile (D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253, comma 2). Da essi è stato tratto il principio che chi subentra nella proprietà o nel possesso del bene subentra anche negli obblighi connessi all’onere reale, indipendentemente dal fatto che ne abbia avuto preventiva conoscenza; con la conseguenza che detto proprietario non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell’inquinatore, essendo tenuto a sostenere i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito. In sostanza, il soggetto su cui grava l’obbligo di procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale è prima di tutto il responsabile della situazione di inquinamento, in seconda battuta, qualora “i responsabili non provvedano ovvero non siano individuabili” (comma 9), gli interventi necessari vengono comunque realizzati d’ufficio dal Comune o, in subordine, dalla Regione con privilegio immobiliare sulle aree bonificate per il recupero delle spese, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull’immobile. Per cui il proprietario, non responsabile della violazione, non ha l’obbligo di provvedere direttamente alla bonifica, ma è investito dell’onere di farlo se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull’area sub specie di onere reale e di privilegio speciale immobiliare.
La individuazione della responsabilità di Italgas, fondata sui menzionati obblighi di facere imposti al responsabile dell’inquinamento deve ritenersi fondata.
Così come deve ammettersi, deducendolo a contrario da Cass. 04/10/2018, n. 24187, che la società Italgas avesse la possibilità di eseguire la bonifica del sito inquinato, essendole stata ripetutamente rivolta tale richiesta, e che di conseguenza non si fosse affatto prescritto il diritto della società Immobiliare Z., in ragione della persistenza della condotta omissiva di Italgas e quindi della permanenza dell’illecito, e non soltanto degli effetti giuridici di un illecito oramai perfezionatosi.
Va altresì considerato che la Immobiliare Z. non ha riproposto la domanda risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Non emerge ex actis se tale azione avesse ad oggetto lo stesso contenuto di quella esercitata a titolo di surrogazione legale/rivalsa delle spese sostenute ovvero se riguardasse il maggior danno eventualmente subito (vi è solo un riferimento nella sentenza impugnata alle pp. 7-8 alla deduzione in appello “circa la piena dimostrazione dei requisiti costitutivi della responsabilità ex art. 2043 c.c. nonchè circa la prova del grave danno subito, sia per le spese di bonifica sostenute, sia per il ritardato inizio degli interventi edilizi previsti nell’area”) nè se fossero stati provati tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano.
Tanto basta ad esonerare questa Corte dall’affrontare la questione del se si trattasse di una richiesta avente ad oggetto una voce ulteriore di spesa da porre in nesso di stretta derivazione con le spese sostenute per la bonifica attratta dalla medesima disciplina, perchè avvinta dalla identica logica indennitaria, ovvero di un autonomo ed ulteriore danno ingiusto (considerando che la bonifica ed il ripristino ambientale mirano esclusivamente al raggiungimento dei valori limite previsti dalla legge nell’area interessata e non escludono affatto la ricorrenza di altri danni risarcibili anche per equivalente), di tal modo che la richiesta dovesse essere ricondotta ad un regime, quello risarcitorio, sottoposto a ben più rigorosi oneri probatori e per la quale sarebbe stato necessario verificare la decorrenza della prescrizione eventualmente sulla scorta di criteri diversi.
7. Il motivo numero uno è assorbito, essendo irrilevante accertare se Italgas avesse oppure no esercitato e per quanto tempo l’attività di industria chimica.
8. Ne derivano, atteso l’accoglimento per quanto di ragione dei motivi dal secondo al quinto e l’assorbimento del primo, la cassazione della sentenza gravata e il rinvio della controversia alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte dichiara assorbito il primo motivo di ricorso; accoglie i motivi dal secondo al quinto per quanto di ragione; cassa la decisione impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la controversia alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione Terza della Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2019
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