Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.11584 del 15/06/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4507-2018 proposto da:

ABC ACQUA BENE COMUNE DI NAPOLI AZIENDA SPECIALE NAPOLI in persona del procuratore speciale e legale rappresentante, domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ERNESTO CESARO;

– ricorrente –

contro

COMUNE NAPOLI in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPENNINI 46, presso lo studio dell’avvocato LEONE STUDIO LEGALE ASSOCIATO, rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO MARIA FERRARI;

CONDOMINIO DI ***** in persona dell’amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.B. MARTINI 2, presso lo studio dell’avvocato DANIELA BELLECCA, rappresentato e difeso dall’avvocato LILIANA BELLECCA;

CONDOMINIO ***** in persona dell’amministratore p.t., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.B. MARTINI 2 presso lo studio dell’avvocato LILIANA BELLECCA che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

nonchè contro CONDOMINIO *****, CONDOMINIO *****, REGIONE CAMPANIA;

– intimati –

Nonchè da:

REGIONE CAMPANIA in persona del legale rappresentante Presidente p.t.

della Giunta Regionale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POLI 29, presso lo studio dell’avvocato ANNA CARBONE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABRIZIO NICEFORO;

– ricorrente incidentale –

contro

ABC ACQUA BENE COMUNE DI NAPOLI AZIENDA SPECIALE NAPOLI, CONDOMINIO DI *****, D.C.R., CONDOMINIO *****, CONDOMINIO *****A NAPOLI, COMUNE NAPOLI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 7411/2017 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 26/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/12/2019 dal Consigliere Dott. GIAIME GUIZZI STEFANO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale CARDINO ALBERTO, che ha chiesto l’accoglimento del sesto motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri, e il rigetto del ricorso incidentale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO che ha chiesto l’accoglimento del sesto motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri, rigetto del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato MASSIMO CESARO per delega;

udito l’Avvocato LILIANA BELLECCA.

FATTI DI CAUSA

1. L’Azienda Speciale A.B.C. – Acqua Bene Comune Napoli (d’ora in poi, “ABC”) ricorre, sulla base di sette motivi, per la cassazione della sentenza n. 7411/17, del 26 giugno 2017, del Tribunale di Napoli, che – rigettando sia il gravame principale da essa esperito contro la sentenza n. 27966/13, del 25 luglio 2013, del Giudice di Pace di Napoli, sia quello incidentale proposto dalla Regione Campania – ha confermato la condanna di ABC e della Regione Campania a restituire al Condominio di via *****, al Condominio di via *****, e al Condominio *****, nonchè a D.C.R., le somme dagli stessi versato a titolo di corrispettivo per la depurazione acque, in relazione alla fornitura del servizio idrico.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di essere stata convenuta in giudizio, unitamente al Comune di Napoli, dal Condominio di via ***** (con successivo intervento in causa degli altri utenti il servizio idrico sopra meglio identificati), il quale chiedeva la ripetizione di quanto versato a titolo di corrispettivo per la depurazione delle acque.

In particolare, la pretesa attorea si fondava sul presupposto che la Corte costituzionale, con sentenza n. 335 del 10 ottobre 2008, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma 1, nonchè del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 155, comma 1, nella parte in cui prevedevano che tale quota della tariffa del servizio idrico fosse dovuta anche nel caso in cui “manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi”; declaratoria di illegittimità costituzionale motivata sul rilievo che, nell’ipotesi suddetta, l’obbligo di pagamento risultava non correlato ad alcuna controprestazione. Su tali basi, nonchè deducendo che l’impianto di depurazione sito a Cuma era “obsoleto e notoriamente non funzionante”, secondo quanto risultante dalla documentazione prodotta in giudizio, l’attore (e con esso gli intervenuti in giudizio) agiva per la restituzione nei confronti di ABC e del Comune di Napoli.

Deduce, altresì, l’odierna ricorrente di essersi costituita in giudizio, eccependo sia il proprio difetto di legittimazione passiva che quello di legittimazione attiva dell’attore (e degli intervenuti in giudizio), nonchè l’erronea qualificazione della domanda giudiziale, da proporsi – a suo dire – ai sensi degli artt. 1559 e 1453 c.c., oltre alla carenza probatoria circa il mancato funzionamento del servizio di depurazione e, in ogni caso, l’intervenuta prescrizione del diritto azionato. In forza di tali rilievi, pertanto, essa si opponeva all’accoglimento della domanda attorea, non senza, tuttavia, richiedere la chiamata in causa della Regione Campania (essendo a ciò autorizzata), nonchè l’integrazione del contraddittorio – che non veniva, invece, ordinato dal Giudice di pace – nei confronti della società Hydrogest Campania S.p.a. (d’ora in poi, “Hydrogest”), ovvero l’affidataria del servizio di depurazione.

Ciò detto, la ricorrente riferisce che l’adito giudicante accoglieva la domanda attorea esclusivamente nei confronti di essa ABC e della Regione Campania (verso la quale la domanda era stata estesa dall’attore e dagli intervenuti), condannandole alla restituzione delle somme suddette, con decisione successivamente confermata dal Tribunale di Napoli, in funzione di giudice d’appello, che rigettava il gravame principale di ABC e quello incidentale della Regione Campania.

3. Avverso la sentenza del Tribunale partenopeo ricorre per cassazione ABC, sulla base – come detto – di sette motivi.

3.1. Il primo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1559 e 2697 c.c., in relazione agli artt. 75,81,100 e 112 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto di rigettare il motivo di gravame, proposto dall’odierna ricorrente, volto a dimostrare il difetto di legittimazione attiva dell’attore (e degli intervenuti in giudizio), avendo, in particolare, il Tribunale di Napoli affermato che essi avrebbero provato l’esistenza del rapporto di utenza producendo le “bollette-fatture periodiche” con le quali era stato “richiesto ed ottenuto il pagamento del corrispettivo per il servizio idrico”.

Orbene, sul rilievo che la legittimazione attiva – o meglio, la titolarità dal lato attivo del rapporto dedotto in giudizio – deve essere provata dall’attore, e che la sua mancanza è rilevabile anche d’ufficio dal giudice (pure in sede di legittimità; Cass. Sez. Un., sent. 16 febbraio 2016, n. 2951), la ricorrente si duole del fatto che in un caso, come quello presente, in cui è stata contestata dal convenuto l’esistenza del rapporto contrattuale, era onere dell’attore (e degli intervenuti in giudizio) fornire prova dello stesso, all’uopo non potendosi ritenere sufficienti le fatture prodotte, essendo inidonee a tale scopo e non risultando, in taluni casi, neppure intestate alle parti in causa.

Il tutto, poi, senza tacere del fatto che tale difetto di titolarità attiva del rapporto non è stato rilevato neppure d’ufficio dal giudice, il quale, anzi, avrebbe valutato in modo carente gli elementi probatori acquisiti, visto che agli atti di causa non risultavano depositati nè il contratto, nè le fatture (intestate, in taluni casi, a soggetti terzi), nè le corrispondenti ricevute di pagamento.

3.2. Il secondo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti riguardo l’estromissione dei terzi interventori e sulla modifica della competenza a decidere ai sensi degli artt. 9,10 e 103 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata per aver omesso di pronunciare sul motivo di gravame con il quale era stata contestata l’affermazione del giudice di prime cure, il quale – nel respingere la richiesta di estromissione dei soggetti intervenuti in giudizio – aveva qualificato il loro intervento come adesivo autonomo, ritenendo che, come tale, esso fosse disciplinato “dal comma 2” dell’art. 105 c.p.c., che, al contrario, fa riferimento all’intervento adesivo dipendente.

Inoltre, poichè la mancata declaratoria di inammissibilità dell’intervento ha permesso che il conseguente cumulo delle domande proposte determinasse una modifica della competenza a decidere dell’organo giudicante, ai sensi dell’art. 10 c.p.c., comma 2, l’omissione di pronuncia sul motivo di gravame, relativo all’intervento in causa, si sarebbe tradotta anche in un’omissione di pronuncia sulla censura relativa alla modifica della competenza.

3.3. Il terzo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – violazione e falsa applicazione degli artt. 1559 e 2033 c.c., nonchè degli artt. 1218 e 1453 c.c., in relazione all’art. 101 c.p.c., in relazione alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti della società Hydrogest, società affidataria del servizio di depurazione delle acque di Napoli.

Deduce la ricorrente di aver sempre sostenuto, nei propri scritti defensionali, la necessità distinguere l’ipotesi della inesistenza dell’impianto di depurazione da quella della temporanea interruzione del servizio, giacchè solo nel primo caso è prospettabile un indebito oggettivo, visto che, nel secondo, sarebbe, al più, ipotizzabile una responsabilità di natura contrattuale per inadempimento delle prestazioni afferenti la gestione dell’impianto stesso. In altri termini, sebbene l’attore e gli intervenuti in giudizio abbiano fatto riferimento all’art. 2033 c.c., avrebbero, nella sostanza, azionato una responsabilità civile per inadempimento, visto che la ripetizione di indebito è prospettabile solo quando il vincolo contrattuale non sia mai sorto, o sia venuto meno (anche per effetto di caducazione), e non quando, come nella specie, si verta in tema di inesatto adempimento di una prestazione ricompresa nel contratto di somministrazione.

Orbene, proprio a causa di tale errata qualificazione della domanda, il giudice di prime cure – con valutazione condivisa da quello di appello – ha ritenuto di rigettare la richiesta di integrazione del contraddittorio verso la società Hydrogest, ovvero l’affidataria del servizio di depurazione.

Si tratta, secondo la ricorrente, di una decisione viziata da un duplice errore logico e processuale.

Risultando, invero, che essa ABC si è limitata a svolgere solo l’attività di riscossione del corrispettivo (essendo, invece, la Regione la proprietaria del depuratore e la società Hydrogest l’affidataria del servizio di depurazione), la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tale società rispondeva proprio all’esigenza di consentire all’odierna ricorrente di produrre quella documentazione, non in suo possesso, in ordine alla regolarità del servizio espletato.

Inoltre, una volta accertato nel giudizio di rivalsa verso tale società il corretto funzionamento del servizio, ABC sopporterebbe le conseguenze ingiuste della mancata integrazione del contraddittorio.

3.4. Il quarto motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4) e 5), – violazione e falsa applicazione degli artt. 1559,2033 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., per illogica inversione dell’onere probatorio, per errato utilizzo di presunzioni quali mezzi di prova, nonchè per omesso esame di fatti e documenti, da essa ricorrente forniti, sul regolare funzionamento dell’impianto di depurazione, quali elementi decisivi per il rigetto delle domande di rimborso dei canoni di depurazione.

Si censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che il principio – operante in tema di ripetizione dell’indebito oggettivo, e secondo cui incombe sull’attore l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta – vada contemperato con il principio della vicinanza della prova.

Orbene, non essendovi dubbi – per le ragioni già illustrate – che quella azionata in giudizio fosse una responsabilità da inadempimento contrattuale, l’attore e gli interventori avrebbero dovuto fornire prova, oltre che del titolo negoziale, anche del fatto storico causativo del danno, e dunque della sussistenza del nesso di causalità tra il danno il fatto del debitore.

Il Tribunale avrebbe, pertanto, errato non solo nel qualificare la domanda, ma nell’aver ritenuto rilevante le prove fornite dall’attore dagli interventori, ricorrendo all’istituto delle presunzioni e alla nozione di fatto notorio.

Errato, secondo la ricorrente, sarebbe il riferimento, contenuto nella sentenza impugnata, al “fatto notorio”, costituito dal malfunzionamento dell’impianto di Cuma, giacchè il “notorio” va inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. In difetto di tali presupposti sarebbe spettato, dunque, all’attore (e agli intervenuti in giudizio) dimostrare, al limite anche richiedendo lo svolgimento di una consulenza tecnica d’ufficio, in quali circostanze e per quanto tempo l’impianto rimase fermo e privo di qualsivoglia funzionalità operativa.

D’altra parte, non corretto sarebbe neppure il riferimento alle presunzioni, giacchè nell’ipotesi in cui – come in quella presente – alla base del ragionamento presuntivo vi sia un fatto che notorio non è, la presunzione non può costituire un mezzo di prova.

Assume, inoltre, la ricorrente che, avendo essa dedotto un duplice vizio processuale (vale a dire, l’errata qualificazione della domanda come di ripetizione dell’indebito e l’erronea inversione dell’onere probatorio), questa Corte potrebbe vagliare tali circostanze sulla base della documentazione in atti, per constatare come essa non offra affatto prova certa e circostanziata delle disfunzioni e della inattività del servizio di depurazione nei periodi che formano oggetto della domanda. Per contro, gli atti e documenti acquisiti al giudizio dimostrerebbero che l’impianto di depurazione sarebbe sempre stato attivo e funzionante, sicchè la loro omessa considerazione integrerebbe il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

3.5. Il quinto motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – violazione e falsa applicazione del D.L. 30 dicembre 2008, n. 208, art. 8-sexies, convertito in L. 27 febbraio 2009, n. 13, nonchè del D.M. 30 settembre 2009, art. 2, del Ministero dell’Ambiente, in combinato disposto con l’art. 2697 c.c..

La ricorrente rileva che, dopo la già menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008, la restituzione delle somme versate a titolo di canone per depurazione è stata subordinata, dal legislatore, ad un’attività amministrativa volta ad individuare il periodo di inattività del depuratore e la misura dell’indebito.

Infatti, la citata L. n. 13 del 2009, art. 8-sexies, ha stabilito che gli oneri relativi alle attività di progettazione e di realizzazione e completamento degli impianti di depurazione, nonchè quelli relativi ai connessi investimenti, come espressamente individuati e programmati dai piani d’ambito, costituiscono una componente vincolata delle tariffe del servizio idrico, che concorre alla fissazione del corrispettivo dovuto dall’utente. Su tali basi, pertanto, il Ministero delle Finanze ha chiarito che la tariffa per il servizio di fognatura e depurazione è dovuta da tutti coloro che risultano allacciati alla pubblica fognatura, indipendentemente dall’effettivo utilizzo.

Ciò detto, l’odierna ricorrente deduce che gli utenti che hanno agito nel presente giudizio non potevano rifiutarsi di corrispondere le somme dovute, dovendo attendere il compimento di tutte quelle attività, demandate al gestore e all’Autorità d’ambito, in assenza delle quali il credito restitutorio risulta privo delle caratteristiche della certezza, liquidità ed esigibilità.

Sul punto, tuttavia, il Tribunale di Napoli – nel respingere il motivo di gravame diretto a far valere la violazione della norma suddetta – si è limitato ad affermare che l’odierna ricorrente e la Regione Campania nulla hanno provato in ordine all’affidamento delle opere di progettazione, completamento o ristrutturazione dell’impianto di depurazione di Cuma, così operando, nuovamente, un’inversione dell’onere della prova, incombendo, infatti, sull’attore e gli intervenuti in giudizio provare che le somme versate eccedevano quanto dovuto in relazione agli oneri di progettazione e completamento delle opere funzionali alla regolare attivazione del servizio di depurazione.

D’altra parte, la ricorrente assume che la sentenza impugnata avrebbe anche gravemente leso il suo diritto di difesa, dal momento che la prospettata necessità di integrare il contraddittorio nei confronti della società affidataria del servizio di depurazione, la già menzionata Hydrogest, rispondeva proprio all’esigenza di consentirle di produrre quella documentazione, non in suo possesso, in ordine alla regolarità del servizio e agli investimenti operati per il completamento dell’impianto.

3.6. Il sesto motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 4), – violazione e falsa applicazione degli artt. 1292,1298,1299 e 2055 c.c., oltre che degli artt. 32,106 e 112 c.p.c., in relazione al mancato accoglimento della domanda di manleva e/o di regresso proposta nei confronti della Regione Campania, nonchè della società Hydrogest, per effetto della chiamata effettuata della Regione.

La ricorrente evidenzia di avere sempre eccepito la propria carenza di legittimazione passiva, nonchè di aver formulato un’autonoma domanda di manleva verso la Regione Campania, sul rilievo che il mancato funzionamento del depuratore, nei periodi in cui attore e interventori hanno pagato il canone, dipendeva soltanto da causa imputabile alla Regione (proprietaria dell’impianto) e dalla Hydrogest (affidataria del servizio di depurazione). Orbene, si duole la ricorrente che il Tribunale di Napoli abbia rigettato la domanda di manleva senza alcuna motivazione, avendo affermato che, “quanto alla legittimazione passiva è la stessa ABC ad aver dedotto di riscuotere le somme poi versate alla Regione Campania, proprietaria dell’impianto di depurazione e deputata a svolgere il servizio di depurazione”, così identificando in ABC e Regione Campania “gli unici ed effettivi “accipiens” secondo l’istituto dell’indebito oggettivo”.

Ribadisce, per contro, la ricorrente come la domanda da essa proposta verso la Regione Campania, e da quest’ultima verso Hydrogest (con iniziativa, peraltro, di cui beneficerebbe anche essa ABC, pur in mancanza di un’espressa istanza, e ciò in applicazione del principio secondo cui costituisce oggetto necessario del processo, nell’ambito di un rapporto oggettivamente unico, l’individuazione del soggetto effettivamente obbligato), non fossero dirette a riversare, su detti soggetti, le conseguenze di un “proprio” inadempimento o/e fatto illecito, bensì ad individuare altro soggetto “corresponsabile”, come tale, pertanto, effettivamente e direttamente tenuto alla prestazione pretesa dall’attore e dagli intervenuti in giudizio. La Regione Campania, infatti, è la proprietaria dell’impianto di Cuma, la società Hydrogest è l’affidataria del servizio di depurazione.

L’assenza di ogni decisione sul punto, da parte del giudice di appello, vizierebbe, pertanto, la sentenza impugnata, senza tacere del rilievo che avendo la ricorrente restituito alla Regione gli oneri riscossi per la depurazione, in presenza di una conferma della decisione impugnata, essa ABC sarebbe costretta all’esborso di somme già incassate dalla Regione.

3.7. Il settimo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e n. 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c. e art. 2948 c.c., comma 1, n. 4), in merito alla prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione delle somme versate, censura proposta anche sotto forma di nullità processuale, oltre che di vizio motivazionale.

Ribadisce la ricorrente che, nel caso di specie, si controverte non in ordine alla ripetizione di un indebito, ma dell’inadempimento di una prestazione del contratto di somministrazione, sicchè il termine di prescrizione non può essere quello decennale, bensì quello previsto per i crediti relativi a prestazioni periodiche dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4).

4. Ha proposto controricorso la Regione Campania, la quale nell’associarsi alle censure della ricorrente principale (salvo quelle oggetto del sesto motivo) – ha anche svolto ricorso incidentale, sulla base di sei motivi.

4.1. Il primo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1), – illegittimità della sentenza per motivi attinenti alla giurisdizione, per violazione e falsa applicazione dei principi espressi dalle sentenze della Corte costituzionale n. 39 del 2010 e n. 335 del 2008, nonchè in relazione alla L. 5 gennaio 1994, n. 36 (sia nel testo originario, che in quello modificato dalla L. 31 luglio 2002, n. 179, art. 28) e al D.Lgs. n. 3 aprile 2006, n. 152.

Si censura la sentenza impugnata laddove ha rigettato l’eccezione di difetto di giurisdizione, assumendo la ricorrente incidentale che, nel caso che qui occupa, sussisterebbe invece difetto assoluto della stessa, per carenza di situazione giuridica azionabile, e/o difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore di quello tributario.

La censura viene svolta sul presupposto che gli interventi della Corte costituzionale abbiano sancito il principio della ripetizione della quota – della complessiva tariffa dovuta per il servizio idrico – riferita, specificamente, al servizio di depurazione, solo nel caso in cui manchino gli impianti o questi siano temporaneamente inattivi, ovvero nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi. Viceversa, nel presente caso, si è dedotta una supposta “inefficienza” e/o “insufficienza” dell’impianto di depurazione, sicchè un’eventuale contestazione tariffaria avrebbe dovuto essere proposta non sotto il profilo del cd. “an debeatur”, bensì del solo “quantum”, in ragione della proporzionalità fra qualità del servizio reso e entità della prestazione; questione, pertanto, da devolvere alla cognizione specializzata del giudice tributario.

D’altra parte, sempre sulla scorta della giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, dovrebbe ritenersi che, in assenza totale del servizio idrico, risulta interdetto all’utente qualsiasi tipo di azione ordinaria, dal momento che, come chiarito proprio dalla sentenza n 335 del 2008 della Corte costituzionale, l’utente può agire contro l’inerzia dell’amministrazione nella realizzazione di depuratori, non già in forza del rapporto contrattuale, ma solo esercitando il generale poteri di denuncia attribuitogli dall’ordinamento “uti civis”.

4.2. Il secondo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in particolare “riguardo la rilevanza probatoria degli elementi relativi all’allaccio dell’utenza al sistema di depurazione rispetto al cattivo funzionamento dello stesso”, nonchè violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 155 e della L. n. 13 del 2009, art. 8-sexies, oltre che del D.M. 30 settembre 2009, art. 2, del Ministero dell’Ambiente.

Si torna a sottolineare come la sentenza impugnata abbia accolto la domanda attorea di ripetizione dell’indebito sul presupposto della accertata inefficienza dell’impianto di depurazione di Cuma, laddove il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 155, così come risultante all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008, esclude la debenza della quota tariffaria riferita al servizio di depurazione quando manchino i relativi impianti o essi siano temporaneamente inattivi.

Di conseguenza, la sentenza impugnata, oltre a violare la norma suddetta, avrebbe omesso di valutare il fatto decisivo per il giudizio rappresentato, per l’appunto, della distinzione fra inadeguato svolgimento della funzione (vale a dire l’ipotesi, al più, sussistente nel caso in esame) e inesistenza del servizio, da ritenersi integrata solo quando il sistema depurazione manchi del tutto o nessuna utenza sia allacciata ad esso.

D’altra parte, poichè la sentenza impugnata ha fondato la conclusione relativa alla inefficienza del servizio di depurazione sulla base di quella che definisce “idonea documentazione” presente agli atti del giudizio, la ricorrente incidentale rileva come tale documentazione attesti, al limite, solo la necessità di adeguamento dell’impianto di Cuma alla normativa vigente, e quindi l’impossibilità di ricondurlo a quelli “temporaneamente inattivi”, ai quali fa riferimento al D.M. 30 settembre 2009, art. 2 del Ministero dell’Ambiente.

4.3. Il terzo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c. e delle norme di diritto relative alla legittimazione passiva di essa Regione Campania, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Si censura la sentenza impugnata laddove ha affermato la legittimazione passiva della odierna controricorrente sul presupposto che essa, e ABC, siano risultati “gli unici ed effettivi accipiens secondo l’istituto dell’indebito oggettivo”.

In particolare, si lamenta che il giudice di appello, pur inquadrando l’oggetto della domanda nella fattispecie dell’indebito oggettivo, è pervenuta ad una decisione contraria alle norme che lo regolano. Innanzitutto, perchè essa Regione versa nell’impossibilità di restituire ciò che non gli è mai stato corrisposto, avendo il giudice omesso di esaminare, pure a fronte delle contestazioni ed eccezioni da essa controricorrente avanzate, gli elementi probatori che attesterebbero la mancata ricezione della quota tariffaria asseritamente erogatale da ABC. Del resto, la documentazione da quest’ultima versata in atti, ovvero un asserito atto di ricognizione di debito, dimostrerebbe esattamente il contrario di quanto sostenuto da ABC, ovvero l’esistenza di una sua morosità nel riversamento, alla Regione, di quanto riscosso.

D’altra parte, la violazione dell’art. 2033 c.c., sarebbe vieppiù evidente ove si consideri il carattere personale della azione di ripetizione, esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento che abbia ricevuto la somma (o la cosa) che si assume non dovuta. Difatti, come costantemente suole dirsi, l’azione restitutoria e circoscritta ai rapporti fra “solvens” e “accipiens”, non potendo porsi come legittimato passivo chi abbia tratto vantaggio dalla destinazione che il cd. “accipiens” abbia eventualmente dato alla somma ricevuta.

Il tutto, infine, non senza notare come l’azione di ripetizione dell’indebito, quale azione di nullità per difetto di causa, deve essere esclusa nella presente ipotesi, giacchè le somme versate, per le ragioni già in precedenza illustrate, non possono ritenersi indebite, visto che l’esistenza del depuratore non è mai stata messa in discussione, ma solo il suo efficiente funzionamento 4.4. Il quarto motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ovvero dell’art. 2033 c.c. e degli artt. 101 e 102 c.p.c., con riferimento alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti della società Hydrogest, affidataria del servizio di depurazione delle acque di Napoli.

La ricorrente incidentale evidenzia di avere richiesto l’integrazione del contraddittorio asserendo, fondamentalmente, che la prova del rispetto della normativa di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, nonchè degli investimenti operati per il completamento e la ristrutturazione dell’impianto di depurazione, poteva essere fornita esclusivamente da tale società.

D’altra parte, poichè la predetta società Hydrogest provvede alla gestione del depuratore sulla base di un contratto di “project financing”, risulterebbe di tutta evidenza non solo l’infondatezza del coinvolgimento della Regione Campania nel presente giudizio, ma anche la menomazione del suo diritto di difesa e al giusto processo, non esercitando essa alcun potere di gestione dell’impianto, nè di accollo delle spese relative alla manutenzione ordinaria e straordinaria e agli interventi su di esso, facenti carico, integralmente, al concessionario, secondo le regole proprie del rapporto concessorio e del predetto “project financing”.

4.5. Il quinto motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), ovvero, subordinatamente, n. 4), violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., per illogica e illegittima inversione dell’onere probatorio ed errato utilizzo di presunzioni quali mezzi di prova, nonchè per omesso esame di fatti e documenti, da essa ricorrente incidentale forniti, sul regolare funzionamento dell’impianto di depurazione.

Si censura la sentenza impugnata per aver posto a carico della Regione (e di ABC) l’onere di dimostrare l’avvenuto espletamento del servizio di depurazione. Per contro, l’azione di ripetizione dell’indebito presuppone la prova non solo dell’avvenuto pagamento, ma pure della inesistenza (o del venir meno) della “causa debendi”, ponendosi, entrambi, alla stregua di fatti costitutivi della pretesa restitutoria.

Gli attori e gli intervenuti in giudizio, dunque, avrebbero dovuto provare la mancanza o il cattivo funzionamento del depuratore di Cuma, non potendo neppure fare riferimento al “fatto notorio”, dovendo esso intendersi in senso rigoroso, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile.

Nè, d’altra parte, a dimostrare l’inesistenza o il malfunzionamento del depuratore potrebbero ritenersi utili i documenti acquisiti agli atti del giudizio, ed in particolare la sentenza penale n. 4351, del 19 marzo 2009, pronunciata dal Tribunale di Napoli, sezione di Pozzuoli, nonchè la perizia espletata nell’ambito del giudizio in cui tale decisione venne pronunciata, documenti che effettivamente attestano l’inefficacia dell’impianto, ma con riferimento ad un periodo anteriore ai fatti di causa, mancando, pertanto, prova che il funzionamento del depuratore sia stato interrotto o sospeso, vale a dire che esso sia stato “temporaneamente inattivo”, con riferimento all’intero periodo in contestazione.

4.6. Infine, il sesto motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c., e art. 2948 c.c., comma 1, n. 4), in merito alla prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione delle somme versate.

Anche secondo la controricorrente, nel caso di specie, si controverte non in ordine alla ripetizione di un indebito, ma dell’inadempimento di una prestazione oggetto di un contratto di somministrazione, sicchè il termine di prescrizione non può essere quello decennale, bensì quello previsto per i crediti relativi a prestazioni periodiche dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4).

5. Hanno proposto controricorso – con separati atti – il Condominio di via *****, il Condominio di via *****, e il Condominio *****, nonchè D.C.R., tutti resistendo al ricorso principale.

In relazione, in particolare, al primo motivo, tutti i controricorrenti evidenziano di aver depositato, fin dal giudizio di primo grado, a sostegno della propria pretesa, fatture attestanti la riferibilità, a ciascuno di essi, dei contratti di utenza. La D.C., inoltre, deduce di aver allegato gli originali delle missive con cui ABC riscontrava precedenti lettere, mediante le quali essa aveva invocato la restituzione degli importi versati a titolo di pagamento del canone di depurazione. In tali missive ABC, pur negando sussistere i presupposti per dare seguito alla richiesta, non sollevava obiezioni di sorta in ordine all’esistenza e alla validità del rapporto di fornitura idrica e giungendo, finanche, a quantificare l’ammontare dei versamenti effettuati nel periodo in contestazione.

Quanto al secondo motivo, se ne assume la non fondatezza sul rilievo che, per l’ammissibilità dell’intervento di un terzo in un giudizio pendente tra altre parti, è sufficiente che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento implicante l’opportunità di un “simultaneus processus”. Il motivo, inoltre si paleserebbe non fondato anche nella parte in cui lamenta il superamento della competenza per valore del giudice adito, visto che, nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo che si determina a seguito di domande connesse per il titolo che siano proposte con unico atto di citazione nei confronti di più convenuti, non trova applicazione il disposto del art. 10 c.p.c., comma 2.

In merito, invece, al terzo motivo, i controricorrenti sottolineano la correttezza della decisione del Tribunale partenopeo di qualificare la domanda come ripetizione d’indebito, ravvisabile tutte le volte che la pretesa restitutoria trovi origine nel pagamento avvenuto sulla base di titolo inesistente.

La non fondatezza del quarto motivo di ricorso deriverebbe dal fatto che ciascun degli odierni controricorrenti risulta aver assolto il proprio onere probatorio.

Non fondato si presenterebbe, inoltre, il quinto motivo, e ciò perchè – ai sensi della L. n. 13 del 2009, art. 8-sexies nessuna somma poteva essere decurtata dal “quantum” spettante agli utenti, essendo a carico del gestore del servizio idrico provare lo stato di avanzamento e i costi dei lavori per la realizzazione o la riattivazione di ciascun impianto, prova nella specie non fornita.

Nessun dubbio, infine, sussisterebbe in relazione alla prescrizione applicabile al diritto azionato in giudizio, questione oggetto del settimo motivo di ricorso, visto che la domanda attorea concerneva la ripetizione di un indebito, richiamandosi, sul punto, quanto affermato da questa Corte con riferimento all’iniziativa giudiziale tesa a ripristinare l’equilibrio tra le posizioni di due contraenti, in caso di mancato rispetto del vincolo sinallagmatico tra prestazioni, e ciò anche con specifico riferimento ad un contratto di somministrazione.

6. Ha proposto controricorso anche il Comune di Napoli, resistendo al ricorso principale.

Il controricorrente si limita ad evidenziare come la titolarità, dal lato passivo, del rapporto controverso non posso che fare capo ad ABC, e non ad esso Comune, dal momento che è la prima ad essere gestore del servizio idrico, avendo riconosciuto di esercitare tale attività come ente strumentale del Comune e, in passato come società “in house” dello stesso. D’altra parte, troverebbe applicazione, nella specie, il principio per cui l’azione di ripetizione dell’indebito può essere esperita soltanto nei confronti di chi abbia ricevuto la somma che si assume essere non dovuta.

7. Tutte le parti, salvo il Comune di Napoli, hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle rispettive argomentazioni.

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Deve, innanzitutto, esaminarsi il primo motivo del ricorso incidentale, attenendo alla giurisdizione, avendo esso, all’evidenza, carattere pregiudiziale, giacchè il suo accoglimento comporterebbe la cassazione della sentenza impugnata, con assorbimento di ogni altra censura.

8.1. Il motivo, tuttavia, non è fondato.

8.1.1. Nessun dubbio sussiste, infatti, in ordine alla giurisdizione del giudice ordinario (e non di quello tributario) in relazione a controversie del tipo di quella oggetto del presente giudizio.

Da tempo, infatti, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che “le controversie relative alla debenza, a partire dal 3 ottobre 2000, del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue spettano alla giurisdizione del giudice ordinario, anche se promosse successivamente al 3 dicembre 2005, data di entrata in vigore del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 3-bis, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, art. 1, comma 1, che ha modificato il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 2, secondo periodo, avendo la Corte costituzionale, con sentenza n. 39 del 2010, dichiarato l’illegittimità costituzionale della predetta disposizione, nella parte in cui attribuiva tali controversie alla giurisdizione del giudice tributario, sia in relazione alla disciplina del canone prevista dalla L. 5 gennaio 1994, n. 36, artt. 13 e 14, sia riguardo all’analoga disciplina dettata dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, artt. 154 e 155, per le controversie relative alla debenza del canone a partire dal 29 aprile 2006” (così già Cass. Sez. Un., ord. 21 giugno 2010, n. 14902, Rv. 613982-01), e ciò “costituendo i canoni di cui alla L. n. 36 del 1994, art. 14 (abrogato dal D.Lgs. n. 152 del 2006) non un’imposta, ma il corrispettivo di una prestazione commerciale complessa” (Cass. Sez. Un., ord. 7 luglio 2017, n. 16832, Rv. 644916-01). Si è, inoltre, precisato che “ai fini del riparto di giurisdizione in materia di servizi pubblici – siano essi dati o meno in concessione – occorre distinguere tra la sfera attinente all’organizzazione del servizio e quella attinente, invece, ai rapporti di utenza”, in relazione alla seconda delle quali la giurisdizione spetta al giudice ordinario (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 19 dicembre 2018, n. 32780, Rv. 652097-01).

8.1.2. Quanto, poi, all’ipotizzato difetto assoluto di giurisdizione, per carenza di situazione soggettiva azionabile, deve rilevarsi come gli utenti del servizio idrico non abbiano dedotto – come assume, invece, il ricorrente incidentale – la “insufficienza” dell’impianto di depurazione, bensì la sua “inefficienza”, ovvero una situazione sovrapponibile a quella della “temporanea inattività”, cui attribuisce rilevo la norma di legge oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, avanzando, su tale presupposto, la propria pretesa restitutoria.

Tanto basta, dunque, per poter affermare l’esistenza del potere di “ius dicere”, diversamente da quanto assunto dalla ricorrente incidentale, e ciò alla stregua del principio secondo cui la “giurisdizione si determina in base alla domanda”, sicchè a tal fine “rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum” sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi”, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione” (Cass. Sez. Un., ord. 31 luglio 2018, n. 20350, Rv. 650270-01).

9. Ciò detto, passando all’esame del ricorso principale, lo stesso risulta parzialmente fondato, e precisamente in relazione al suo sesto motivo.

9.1. Il primo motivo del ricorso principale, infatti, non è fondato.

9.1.1. Sul punto, occorre muovere dalla constatazione che, ancora di recente, questa Corte ha ribadito che – mentre fino al 3 ottobre 2000 – il canone o diritto di cui alla L. 10 maggio 1976, n. 319 “doveva essere considerato un tributo, conformemente al costante orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di legittimità”, a partire da questa data, per effetto del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, art. 24, che, nel sopprimere il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 62, commi 5 e 6, ha fatto venire meno, per il futuro, il differimento dell’abrogazione della previgente disciplina, “si è passati all’applicazione della tariffa del servizio idrico integrato di cui alla L. 5 gennaio 1994 n. 36, art. 13 e ss.”. Orbene, in rapporto “alla tariffa di fognatura e di depurazione soggetta alla innovata disciplina”, questa Corte di legittimità ha affermato “che i Comuni non possono chiedere il pagamento dell’apposita tariffa ove non diano prova di esser forniti di impianti di depurazione delle acque reflue”. Invero, “la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è divenuta, appunto, una componente della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, configurato come corrispettivo di una prestazione commerciale complessa che, per quanto determinata nel suo ammontare in base alla legge, trova fonte non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio dell’utente, bensì nel contratto di utenza. Sicchè, tenuto conto della declaratoria di incostituzionalità della L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma 1 – sia nel testo originario, sia nel testo modificato dalla L. 31 luglio 2002, n. 179, art. 28 (Disposizioni in materia ambientale) – nella parte in cui prevedeva che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione fosse dovuta dagli utenti “anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi” (v. C. Cost. n. 335/08), va affermato il principio secondo il quale, in caso di mancata fruizione, da parte dell’utente, del servizio di depurazione, per fatto a lui non imputabile, è irragionevole, per mancanza della controprestazione, l’imposizione dell’obbligo del pagamento della quota riferita a detto servizio” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, sent. 18 aprile 2018, n. 9500, Rv. 647829-01).

9.1.2. Invero, una volta ricostruita la pretesa fatta valere, anche nel presente giudizio, come derivante dall’inadempimento di una prestazione che ha fonte negoziale, e segnatamente nel contratto di utenza, ai fini della prova della titolarità del diritto azionato, chi ha agito in giudizio era tenuto, unicamente, a dimostrare, per l’appunto, il proprio “titolo” contrattuale.

Questo principio non è stato disatteso dalla sentenza impugnata, secondo cui l’attore e gli intervenuti in giudizio hanno fornito tale prova producendo le “bollette/fatture periodiche con le quali l’ARIN S.p.a.”, oggi ABC, “ha richiesto ed ottenuto il pagamento del corrispettivo del servizio idrico integrato, nelle quali si specifica, tra le varie componenti della somma richiesta, l’importo addebitato a titolo di depurazione delle acque reflue”.

Siffatto rilievo, dunque, vale innanzitutto ad escludere l’ipotizzata violazione dell’art. 2697 c.c., evenienza “configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01). Nella specie, infatti, siffatta questione non è neppure posta, giacchè si controverte, semmai, sull’idoneità della documentazione in atti a provare la qualifica di utenti in capo agli – allora – attore ed intervenienti.

D’altra parte, neppure potrebbe censurarsi l’apprezzamento che delle risultanze probatorie, sul punto, è stato fatto dal Tribunale partenopeo, e ciò in applicazione del principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458).

Nè, poi, vale richiamarsi al principio secondo cui le “fatture” non sarebbero idonee a porsi a fondamento della pretesa creditoria, giacchè enunciato con riferimento al caso in cui ad agire in giudizio sia il soggetto che, su tali basi, alleghi di aver eseguito una prestazione contrattuale, di cui pretenda il pagamento. Nel caso di specie, invece, le fatture – o meglio le bollette – prodotte attestano come fosse stata la stessa ABC (o meglio, per essa, la propria dante causa, ARIN) ad esigere il pagamento del corrispettivo per la prestazione erogata, in forza di un rapporto contrattuale che si riconosceva, pertanto, essere corrente “inter partes”.

9.2. Il secondo motivo del ricorso principale è, invece, inammissibile, per due concomitanti ragioni.

9.2.1. In primo luogo, perchè, quello di omessa pronuncia su un motivo di appello è un vizio processuale che integra astrattamente “violazione dell’art. 112 c.p.c.” (e quindi da proporsi a norma dell’art. 360, comma 1, n. 4, del medesimo codice di rito civile), “e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012” – come è, appunto, accaduto nel presente caso – “il motivo deve essere dichiarato inammissibile” (da ultimo, Cass. Sez.6-3, ord. 16 marzo 2017, n. 6835, Rv. 643679-01; in senso analogo anche Cass. Sez. 6-1, ord. 12 ottobre 2017, n. 23930, Rv. 646046-01).

In secondo luogo, l’inammissibilità discende anche dal fatto che il ricorrente non ha riprodotto il contenuto del motivo di appello il cui esame sarebbe stato omesso, dovendo applicarsi il principio secondo cui la “deduzione con il ricorso per cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6014, Rv. 648411-01).

Si tratta, peraltro, di un’esigenza, questa dell’autosufficienza del ricorso anche in relazione alla deduzione di “errores in procedendo”, che – come è stato icasticamente osservato – “non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge”, ma che “risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01).

9.3. Il terzo motivo del ricorso principale non è fondato.

9.3.1. In relazione, infatti, alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti della società Hydrogest, deve richiamarsi il principio secondo cui “il litisconsorzio necessario, la cui violazione è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ricorre, oltre che per motivi processuali e nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe, onde non privare la decisione dell’utilità connessa con l’esperimento dell’azione proposta” (Cass. Sez. 3, sent. 16 febbraio 2006, n. 3281, Rv. 587632-01), ciò che, in particolare, si verifica “allorquando l’azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico oppure all’adempimento di una prestazione inscindibile, incidente su una situazione inscindibilmente comune a più soggetti” (Cass. Sez. 2, sent. 26 luglio 2006, n. 17027, Rv. 591435-01; Cass. Sez. 1, sent. 23 settembre 2003, n. 14102, Rv. 567084-01).

Orbene, rispetto a tale “ratio”, risulta del tutto “eccentrico” il motivo addotto dalla ricorrente a sostegno della pretesa di integrare il contraddittorio verso la società Hydrogest (e, quindi, oggi, per dolersi della pretermissione di tale soggetto), ovvero la necessità di soddisfare esigenze probatorie, idonee a consentirle la prova del già indicato “fatto impeditivo” del credito restitutorio, giacchè l’acquisizione di documentazione attestante la regolarità del servizio erogato e/o l’effettuazione degli investimenti operati per il completamento dell’impianto ben avrebbe potuto essere richiesta a norma dell’art. 210 c.p.c., comma 1.

9.4. Il quarto motivo del ricorso principale è, invece, in parte non fondato e in parte inammissibile.

9.4.1. Invero, proprio accedendo alla prospettiva della ricorrente, ovvero ravvisando, nella mancata depurazione delle acque, l’inadempimento di una prestazione contrattuale, deve escludersi la fondatezza della censura che lamenta la “illogica inversione dell’onere della prova”.

Infatti, costituisce principio generale quello secondo cui il creditore di una prestazione contrattuale – nella specie, l’utente del servizio idrico – “deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento” (da ultimo, tra le molte, Cass. Sez. 3, sent. 20 gennaio 2015, n. 826, Rv. 634361-01). D’altra parte, proprio con riferimento specifico alla presente fattispecie si è ritenuto che, configurandosi “la tariffa del servizio idrico integrato, in tutte le sue componenti, come il corrispettivo di una prestazione commerciale complessa, è il soggetto esercente detto servizio, il quale pretenda il pagamento anche degli oneri relativi al servizio di depurazione delle acque reflue domestiche, ad essere tenuto a dimostrare l’esistenza di un impianto di depurazione funzionante nel periodo oggetto della fatturazione, in relazione al quale esso pretenda la riscossione” (Cass. Sez. 3, sent. n. 14042 del 2013, cit.).

9.4.2. Quanto, poi, alle restanti censure formulate con il presente motivo, le stesse, come detto, sono inammissibili.

La sentenza impugnata non reca alcun riferimento all’istituto del “fatto notorio”, avendo testualmente affermato che l’attore e gli intervenuti in giudizio “hanno provato, mediante la produzione in giudizio degli atti relativi a procedimenti penali e a indagini amministrative l’inefficienza dell’impianto di depurazione di Cuma”, sussistendo, sulla scorta delle risultanze istruttorie, “elementi presuntivi per ritenere che nell’arco temporale cui si riferiscono i pagamenti oggetto della domanda, l’impianto non abbia svolto in maniera adeguata la sua funzione”.

Il mancato riferimento al “fatto notorio”, pertanto, comporta l’applicazione del principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisu m” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso” sul punto, inammissibilità “rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01).

In ordine, invece, al lamentato omesso esame della documentazione in atti, va qui ribadito quanto nitidamente affermato, già in passato, da questa Corte, ovvero che ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134, applicabile “ratione temporis” al presente giudizio), “è evidente l’inammissibilità di censure, come quelle attualmente prospettate dal ricorrente, che evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o valutazione”, da parte del giudice d’appello, “ma in realtà sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Corte di cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito, oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato, (…) il vario insieme dei materiali di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 21 ottobre 2015, n. 21439, Rv. 637497-01).

Fermo restando, infine, che – come già evidenziato nel procedere allo scrutinio del primo motivo del ricorso principale (p. 9.1.2.) nemmeno l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito” è suscettibile di essere sindacato in questa, non dando luogo ad alcun vizio riconducibile all’elenco di cui all’art. 360 c.p.c..

9.5. Il quinto motivo del ricorso principale non è fondato.

9.5.1. La sentenza impugnata, in relazione alla questione relativa all’operatività del D.L. 30 dicembre 2008, n. 208, art. 8-sexies, convertito in L. 27 febbraio 2009, n. 13, (nonchè del D.M. 30 settembre 2009, art. 2 del Ministero dell’Ambiente) ha affermato che “parte appellante nulla ha provato in ordine all’affidamento delle opere di progettazione, completamento o ristrutturazione dell’impianto di depurazione Cuma”, e quindi sull’incidenza dei relativi costi rispetto al “quantum” della pretesa restitutoria.

Si tratta di affermazione corretta, per le ragioni di seguito illustrate.

Sul punto, invero, occorre muovere dalla constatazione che il suddetto art. 8-sexies (introdotto proprio per disciplinare le conseguenze della sentenza n. 335 del 2008 della Corte costituzionale) reca due diverse disposizioni: al comma 1, stabilisce che, nei casi in cui manchino gli impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi, siano comunque dovuti dall’utente gli oneri relativi alle attività di progettazione e di realizzazione o completamento degli impianti “de quibus”, nonchè quelli relativi ai connessi investimenti, e ciò a partire dall’avvio delle procedure di affidamento delle prestazioni di progettazione o di completamento delle suddette opere; al comma 2, prevede che i gestori del servizio idrico integrato provvedano, a decorrere dal 1 ottobre 2009, ed entro il termine massimo di cinque anni, alla restituzione – anche rateale – della quota di tariffa non dovuta riferita all’esercizio del servizio di depurazione, fatta salva la deduzione degli oneri derivati dalle attività di progettazione, di realizzazione o di completamento già avviate.

Orbene, delle due disposizioni va data un’interpretazione coordinata, e soprattutto conforme a Costituzione, che porta ad escludere – per le ragioni di cui si dirà appena di seguito – che il decorso del quinquennio, a far data dal 1 ottobre 2009, si ponga come condizione di procedibilità della domanda restitutoria, secondo un’opzione ermeneutica fatta propria da una parte della giurisprudenza di merito, ma, per vero, mai esaminata “ex professo” da questa Corte negli arresti sopra menzionati (ovvero, Cass. Sez. 3, sent. n. 9323 del 2019, cit.; Cass. Sez. 3, sent. n. 8334 del 2017, cit. Cass. Sez. 3, sent. n. 19887 del 2015, cit.), limitatisi ad affrontare censure che concernevano la questione dell’applicazione intertemporale delle predette disposizioni, e non la loro esatta interpretazione.

Orbene, nel procedere all’ermeneusi delle stesse si deve muovere dalla premessa che, ponendosi l’improcedibilità della domanda “quale conseguenza sanzionatoria di un comportamento procedurale omissivo, derivante dal mancato compimento di un atto espressamente configurato come necessario nella sequenza procedimentale”, la stessa “dev’essere espressamente prevista” (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 8 settembre 2017, n. 20975, Rv. 645551-01). Se è vero, infatti, che “l’art. 24 Cost., laddove tutela il diritto di azione, non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare “interessi generali”, con le dilazioni conseguenti” (così Corte Cost. n. 276 del 2000), resta, nondimeno, inteso che il rispetto del diritto costituzionale di azione non solo esige che la cd. “giurisdizione condizionata” sia oggetto di un’espressa previsione di legge, ma anche “che le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge non possono esser aggravate da una interpretazione che conduca ad estenderne la portata” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 21 gennaio 2004, n. 967, Rv. 569540-01).

Tanto premesso, deve, dunque, escludersi la possibilità di interpretare come introduzione di una condizione di procedibilità della domanda restitutoria la previsione (di cui al D.L. n. 208 del 2008, art. 8-sexies, comma 2, convertito in L. n. 13 del 2009) secondo cui i “gestori del servizio idrico integrato provvedono anche in forma rateizzata, entro il termine massimo di cinque anni, a decorrere dal 1 ottobre 2009, alla restituzione della quota di tariffa non dovuta riferita all’esercizio del servizio di depurazione”. La norma va piuttosto interpretata nel senso che i gestori possono dilazionare fino a cinque anni la restituzione, non solo erogando l’importo in forma rateale, ma eventualmente – come è tipico dei contratti di fornitura – “sub specie” di parziale compensazione con l’importo, comunque, dovuto per il complessivo servizio assicurato.

Per contro, ove tale riconosciuta possibilità di dilazione di pagamento tragga origine dalla necessità di dedurre, dal “quantum” del credito restitutorio spettante all’utente, gli oneri – a suo carico derivanti dalle attività, peraltro già avviate, di progettazione, di realizzazione o di completamento dell’impianto (secondo la previsione di cui al precedente medesimo art. 8-sexies, comma 1), si è al cospetto di un’evenienza che, rendendo illiquido tale credito, si pone alla stregua di un fatto impeditivo del diritto alla restituzione azionato dall’utente, fatto, ovviamente, la cui prova è a carico del convenuto, secondo la regola di cui all’art. 2697 c.c., comma 2.

9.6. Il sesto motivo del ricorso principale – da scrutinare congiuntamente al terzo del ricorso incidentale, concernendo entrambi (sebbene da opposti angoli visuali) il tema dell’affermato obbligo restitutorio anche a carico della Regione Campania – è, invece, parzialmente fondato, ad opposta conclusione dovendo pervenirsi, viceversa, quanto alla censura formulata dalla ricorrente incidentale, risultando essa non fondata.

9.6.1. Nello sviluppare il presente motivo, la ricorrente principale premette di aver proposto, verso la Regione Campania e la società Hydrogest, una domanda di “manleva” e/o di “regresso”, precisando, altresì, di non voler riversare su di esse le conseguenze di un “proprio” inadempimento o/e fatto illecito, bensì di voler individuare altro soggetto “corresponsabile”, e dunque tenuto anch’esso a soddisfare la pretesa restitutoria azionata dagli utenti del servizio idrico.

Su tali basi, pertanto, ABC si duole del fatto che il Tribunale partenopeo, pur condannando anche la Regione alla restituzione (sul presupposto che entrambi tali soggetti, diversamente dal Comune di Napoli, fossero “gli unici ed effettivi accipens secondo l’istituto dell’indebito oggettivo”, e quindi tenuti a restituire “ciò che hanno incassato in mancanza di esatta esecuzione della prestazione”), si è limitata ad affermare, in relazione alla proposta domanda di “manleva e/o regresso” verso la Regione, che agli utenti del servizio idrico “non sono opponibili i rapporti interni” che l’odierna ricorrente principale ha intrattenuto con la predetta Regione. Per altro verso, poi, ABC si duole che il giudice di appello abbia confermato – con la medesima motivazione appena illustrata – il rigetto della richiesta di chiamata in causa di Hydrogest.

Per parte propria, invece, la Regione Campania – con il terzo motivo di ricorso incidentale – contesta la sentenza impugnata laddove individua in essa, e non solo in ABC “gli unici ed effettivi accipiens secondo l’istituto dell’indebito oggettivo”, e ciò in quanto il giudice di appello, pur inquadrando l’oggetto della domanda nella fattispecie dell’indebito oggettivo, sarebbe pervenuta, a suo dire, ad una decisione contraria alle norme che lo regolano.

9.6.1.1. Ciò premesso, non fondata è la doglianza della ricorrente principale in relazione alla mancata chiamata in causa di Hydrogest.

Difatti, il rigetto del motivo di gravame, proposto sul punto dall’allora appellante ABC, è stato motivato dal Tribunale di Napoli, correttamente, sul rilievo che in caso di “chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo: conseguentemente, sebbene sia stata tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo ex art. 269 c.p.c., in manleva o in regresso, il giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo” (da ultimo Cass. Sez. 3, sent. 12 maggio 2015, n. 9570, Rv. 635286-01; in precedenza Cass. Sez. Un., sent. 23 febbraio 2010, n. 4309, Rv. 611567-01).

9.6.1.2. Quanto, invece, alle censure relative alla condanna (anche) della Regione Campania, ed al rigetto della domanda di “manleva e/o regresso” proposta contro di essa da ABC, deve osservarsi quanto segue.

Va rilevato, innanzitutto, che merita conferma la decisione del Tribunale partenopeo di individuare nella Regione Campania un soggetto anch’esso tenuto all’adempimento dell’obbligazione restitutoria nei confronti degli utenti del servizio idrico, quantunque la motivazione del giudice di appello – sul punto – vada corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Invero, se si muove dalla premessa che la pretesa restitutoria azionata in giudizio trova titolo nella mancata esecuzione in una prestazione contrattuale (secondo l’impostazione illustrata nello scrutinare il primo motivo di ricorso incidentale e i primi quattro di ricorso principale, impostazione, peraltro, nella sostanza seguita dalla stessa sentenza impugnata), non corretta risulta l’affermazione del Tribunale di Napoli che individua nella Regione un ulteriore “accipiens”, per essere state ad essa “riversate” le somme da ABC riscosse, atteso che, così intesa, la pretesa restitutoria degli utenti avrebbe dovuto, a rigore, farsi valere esclusivamente nei confronti del soggetto (ABC, appunto) con cui fu sottoscritto il contratto.

Tuttavia, a diverso esito – e quindi alla conferma, sul punto, della decisione impugnata – deve pervenirsi sul rilievo che, nella stessa sentenza del Tribunale di Napoli, si individua nella Regione la “proprietaria dell’impianto”, nonchè il soggetto deputato “a svolgere il servizio di depurazione” (sebbene la sua gestione, in concreto, fosse stata affidata alla società Hydrogest). Di conseguenza, la concorrente responsabilità della Regione si giustifica, ai sensi dell’art. 2043 c.c., nella forma – non sconosciuta al nostro ordinamento, nè alla giurisprudenza di questa Corte – della “cooperazione del terzo nell’inadempimento” (per un’applicazione recente, sebbene con riferimento a tutt’altra fattispecie, cfr. Cass. Sez. 2, sent. 7 ottobre 2016, n. 20251, Rv. 641719-01).

Di qui, pertanto, il rigetto del terzo motivo di ricorso incidentale.

9.6.1.3. D’altra parte, poi, in una simile prospettiva, che postula il riconoscimento di un “concorso” della Regione nell’inadempimento di ABC, s’impone anche l’accoglimento del quinto motivo di ricorso principale, laddove lamenta il rigetto della domanda di “manleva e/o regresso” proposta dalla seconda proposta verso la prima.

Invero, l’avvenuto riconoscimento della (cor)responsabilità della Regione, così come rileva rispetto agli utenti del servizio idrico (ai fini della possibilità, per costoro, di esigere la restituzione – anche – dalla Regione di quanto versato come corrispettivo per il servizio di depurazione acque), comporta che la domanda di ABC verso di essa non potesse essere “sic et simpliciter” rigettata per il sol fatto che ai predetti utenti non “sono opponibili i rapporti interni” intrattenuti dall’odierna ricorrente con tali soggetti.

A tacer d’altro, infatti, l’iniziativa di ABC era diretta a far accertare – ai sensi, come detto, dell’art. 1298 c.c., comma 1, ultima parte, – il suo diritto a “recuperare” dalla Regione ben più della metà di quanto corrisposto agli utenti che hanno azionato la pretesa restitutoria, e ciò proprio in ragione della sua condizione di proprietaria dell’impianto di Cuma e di soggetto tenuto a svolgere il servizio di depurazione. In altri termini, la necessità di esaminare la pretesa di regresso di ABC si giustificava proprio in quanto diretta ad accertare la misura del concorso della Regione nell’inadempimento.

Sul punto, dunque, il quinto motivo di ricorso principale va accolto, cassando in relazione la sentenza impugnata e rinviando al Tribunale di Napoli in diversa composizione, perchè decida nel merito detta domanda, alla luce del seguente principio di diritto:

“in presenza di una temporanea inattività del servizio di depurazione acque, la condotta del proprietario dell’impianto, nonchè gestore del servizio di depurazione, integra un concorso nell’inadempimento ascrivibile, nei confronti degli utenti, al soggetto che abbia concluso con gli stessi il contratto di utenza, sicchè il medesimo, convenuto in giudizio da costoro per la restituzione della quota del corrispettivo del servizio dovuta a titolo di depurazione acque, ha diritto ad agire in via di regresso nei confronti del predetto proprietario dell’impianto e gestore del servizio”.

9.7. Infine, il settimo motivo di ricorso principale non è fondato.

9.7.1. Esso, come visto, attiene al termine di prescrizione (o meglio, alla disciplina della prescrizione) applicabile al caso di specie.

Orbene, se – come si è detto – la pretesa restitutoria azionata trova titolo nella mancata esecuzione di una prestazione nascente dal contratto di utenza, con tale rilievo non è in contrasto l’applicazione del termine prescrizionale (decennale) previsto per la ripetizione dell’indebito, in luogo di quello – più breve – fissato per i crediti relativi a prestazioni periodiche dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4).

Si consideri, infatti, che questa Corte ha più volte affermato che “l’indebito oggettivo si verifica o perchè manca la causa originaria giustificativa del pagamento (“conditio indebiti sine causa”) o perchè la causa del rapporto originariamente esistente è poi venuta meno in virtù di eventi successivi che hanno messo nel nulla o reso inefficace il rapporto medesimo (“conditio ob causarti finitam”)”, e ciò secondo una “distinzione che risale al diritto romano”, e che “è ripresa dalla dottrina italiana, sulla base del nuovo testo dell’art. 2033 c.c. nel quale è stato trasfuso l’art. 1327 del codice abrogato (1865) che stabiliva il principio della inefficacia degli atti privi di una “causa solvendi”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 1 luglio 2005, n. 14084, Rv. 582690-01; in senso analogo già Cass. Sez. 3, sent. 20 dicembre 1974, n. 4378, Rv. 373059-01 e Cass. Sez. 3, sent. 22 settembre 1979, n. 4889, Rv. 401528-01).

Nondimeno, se l’ipotesi della “conditio ob causarti finitam” è ravvisabile, di regola, quando il credito risulti “venuto meno successivamente a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una condizione risolutiva avveratasi” (Cass. Sez. 3, sent. 28 maggio 2013, n. 13207, Rv. 626695), a tali evenienze va equiparata quella verificatasi nel caso che occupa, ovvero la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma disciplinante la quota di tariffa, del corrispettivo previsto per il servizio idrico, destinata a remunerare il servizio di depurazione, giacchè è essa ad aver reso “indebito”, addirittura con effetto “ex tunc”, tale pagamento.

Il tutto, peraltro, senza tacere del fatto che la prescrizione breve di cui all’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4), si applica solo alle azioni volte ad ottenere il pagamento, in esecuzione di contratti di durata, di somme che presentino il carattere della periodicità, e non – come nella specie – di un importo dovuto a titolo di restituzione e in unica soluzione. La previsione suddetta, infatti, “riguarda prestazioni che maturano con il decorso del tempo e che, pertanto, divengono esigibili solo alle scadenze convenute, giacchè costituiscono il corrispettivo della controprestazione resa per i periodi ai quali i singoli pagamenti si riferiscono”, con la conseguenza che “detta prescrizione si giustifica, quindi, sia in ragione della continuità del rapporto che richiede e consente un accertamento in tempi relativamente brevi dell’avvenuta esecuzione delle singole prestazioni, sia perchè l’eventuale prescrizione di una singola prestazione non pregiudica il diritto all’adempimento delle rimanenti, per le quali la prescrizione non sia compiuta” (Cass. Sez. 3, sent. 30 gennaio 2008, n. 2086, Rv. 601285-01).

10. Vanno, conclusivamente, esaminati i restanti motivi del ricorso incidentale, diversi dal primo e dal terzo (dei quali si è già detto), anch’essi, peraltro, non destinati all’accoglimento, al pari di quelli già scrutinati.

10.1. In parte non fondato ed in parte inammissibile è il secondo motivo del ricorso incidentale.

10.1.1. L’esito della non fondatezza s’impone, per le ragioni già illustrate nello scrutinare il primo motivo del medesimo ricorso incidentale, per la censura tesa a stigmatizzare il fatto che, nel caso di specie, sarebbe stata dedotta un’evenienza – la “insufficienza” dell’impianto di depurazione – non idonea a legittimare la pretesa restitutoria.

Come già rilevato, l’attore (e gli intervenienti) hanno dedotto, non la “insufficienza”, bensì la “inefficienza” dell’impianto di depurazione, ovvero una situazione del tutto sovrapponibile a quella della “temporanea inattività”, cui attribuisce rilevo la norma di legge oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale.

Un’evenienza, questa della “temporanea inattività”, che nella sua ampia accezione include, evidentemente, non il solo “fermo” volontariamente disposto (qualunque ne sia la ragione), ma, appunto, inefficienza dell’impianto, e quindi la sua inidoneità al funzionamento. Diversamente opinando, infatti, si perverrebbe ad una conclusione in contrasto con la “ratio” stessa della pronuncia del giudice delle leggi, come già individuata da questa Corte, che è quella di rimarcare il carattere indebito del pagamento “in caso di mancata fruizione, da parte dell’utente, del servizio di depurazione, per fatto a lui non imputabile”, qualunque esso sia, essendo, in tal caso “irragionevole, per mancanza della controprestazione, l’imposizione dell’obbligo del pagamento della quota riferita a detto servizio” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, sent. n. 9500 del 2018, cit.).

10.1.2. Inammissibile è, invece, la censura secondo cui la sentenza avrebbe omesso di valutare “il fatto” decisivo per il giudizio rappresentato, per l’appunto, della distinzione fra inadeguato svolgimento della funzione e inesistenza del servizio. A prescindere, infatti, dal rilievo che la questione è stata esaminata, dirimente – su un piano preliminare – è il rilievo che il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è ipotizzabile quando l’omissione investa un “fatto vero e proprio” (non una “questione” o un “punto” della sentenza, come nell’ipotesi che occupa) e, quindi, “un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, Rv. 641174-01; nello stesso senso Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01), vale a dire “un preciso accadimento, ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico” (Cass. Sez. 5, sent. 8 ottobre 2014, n. 21152, Rv. 632989-01; Cass. Sez. Un., sent. 23 marzo 2015, n. 5745, non massimata), “un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto” (cfr. Cass. Sez. 1, ord. 5 marzo 2014, n. 5133, Rv. 629647-01).

Infine, nuovamente inammissibile è la censura tesa a stigmatizzare l’apprezzamento della documentazione in atti, e ciò alla stregua del principio – già sopra richiamato – secondo cui l’eventuale cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione.

10.2. Il quarto motivo del ricorso incidentale non è fondato.

10.2.1. Esso lamenta la mancata chiamata in causa e/o integrazione del contraddittorio della (e/o verso la) società Hydrogest, sul rilievo che la presenza in giudizio di tale società avrebbe permesso, ad essa Regione, la prova del rispetto della normativa di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, nonchè degli investimenti operati per il completamento e la ristrutturazione dell’impianto di depurazione, giacchè tale poteva essere fornita esclusivamente da tale società.

Quanto alla doglianza – formulata ai sensi dell’art. 101 c.p.c., – relativa alla mancata chiamata in causa di detta società, è sufficiente richiamare quanto osservato nello scrutinare il quinto motivo del ricorso principale, segnatamente al p. 9.6.1.1.

In relazione, invece, alla dedotta violazione dell’art. 102 c.p.c., si rimanda a quanto argomentato nel p. 9.3.1.

10.3. Il quinto motivo del ricorso incidentale – sull’onere della prova – è in parte inammissibile e in parte non fondato, per le stesse ragioni indicate nello scrutinare il terzo motivo del ricorso principale, in particolare nei p.p. 9.4.1. e 9.4.2.

10.4. Il sesto motivo – sulla prescrizione – non è fondato.

10.4.1. Alle ragioni indicate nello scrutinare il sesto motivo del ricorso principale (e di cui al p. 9.7.1.), va aggiunto il rilievo che, anche alla stregua della riconosciuta responsabilità della Regione ex art. 2043 c.c., la ricorrente incidentale avrebbe dovuto lamentare, in questa sede, la violazione dell’art. 2947 c.c., comma 1, nonchè dedurre, nel giudizio di merito, quale fosse stato il momento (il cui accertamento è precluso nella presente sede di legittimità) in cui la prescrizione ha incominciato a decorrere con la prima manifestazione del danno, essendo quello ipotizzabile nel presente caso un illecito istantaneo con effetti permanenti. Esso, come tale, è “caratterizzato da un’azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti”, sicchè, come detto, “la prescrizione incomincia a decorrere con la prima manifestazione del danno, mentre, nel caso di illecito permanente, protraendosi la verificazione dell’evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa, sicchè il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si produce, ed in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica” (così Cass. Sez. Un., sent. 24 novembre 2011, n. 23763, Rv. 619392-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 28 maggio 2013, n. 13201, Rv. 626696-01; Cass. Sez. Lav., sent. 16 aprile 2018, n. 9318, Rv. 648725-01).

11. Quanto alle spese del presente giudizio, quelle relative al rapporto processuale intercorso – ed ormai esaurito – tra le ricorrenti principale ed incidentale, da un lato, e gli utenti del servizio idrico odierni controricorrenti, dall’altro, vanno interamente compensate.

A norma dell’art. 92 c.p.c., comma 2, (applicabile, “ratione temporis”, nel testo modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, ed anteriore alle ulteriori modifiche apportate dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, in L. 10 novembre 2014, n. 162), le “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono la compensazione vanno ravvisate nella particolare complessità della materia e nell’esistenza di precedenti non univoci nella giurisprudenza di merito, anche all’interno del Tribunale pronunciatosi, nel presente caso, in veste di giudice di appello.

All’esito del giudizio di rinvio saranno, invece, liquidate le spese del presente giudizio relative al rapporto tra ABC e Regione Campania, ovvero il solo in relazione al quale dovrà pronunciarsi il Tribunale di Napoli in sede di rinvio.

Vanno, infine, integralmente compensate anche le spese del presente giudizio, quanto al rapporto tra ABC e Regione Campania, da un lato, e Comune di Napoli, dall’altro, giacchè la notifica ad esso dei mezzi di impugnazione proposti dalle prime due è avvenuta a soli a soli fini di “litis denuntiatio”, ciò che esclude la possibilità della condanna delle odierne ricorrenti in via principale ed incidentale a rifondergli le spese di detto giudizio (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 30 giugno 2015, n. 13355, Rv. 635981-01).

12. A carico della ricorrente incidentale, stante il rigetto dell’impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso principale, rigettando i restanti ed il ricorso incidentale, cassando, in relazione, la sentenza impugnata e rinviando al Tribunale di Napoli, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese del presente giudizio, ma solo quanto al rapporto processuale tra l’Azienda Speciale A.B.C. – Acqua Bene Comune Napoli e la Regione Campania.

Compensa integralmente le spese del presente giudizio quanto al rapporto processuale tra l’Azienda Speciale A.B.C. – Acqua Bene Comune Napoli e la Regione Campania, da un lato, ed il Comune di Napoli, dall’altro, nonchè tra le prime e il Condominio di via *****, il Condominio di via *****, il Condominio *****, tutti siti *****, oltre che D.C.R..

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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