LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Primo Presidente Aggiunto –
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente di Sezione –
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sezione –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4952/2021 proposto da:
P.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIMAVO 3, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RAMPIONI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo difende per legge;
– resistente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 139/2020 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 21/12/2020;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8 giugno 2021 dal Consigliere ENZO VINCENTI;
udito il Pubblico Ministero – in persona dell’Avvocato Generale Dott. SGROI Carmelo, e del Sostituto Procuratore Generale SIMONE PERELLI –
che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati Roberto Rampioni per il ricorrente e D.B.G. per l’Avvocatura Generale dello Stato.
FATTI DI CAUSA
1. – Con sentenza n. 139/2020, resa pubblica il 21 dicembre 2020, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (di seguito C.S.M.) ha comminato al Dott. P.L., magistrato già in servizio quale sostituto procuratore della Procura della Repubblica presso il Tribunale di *****, la sanzione della rimozione, per averlo ritenuto responsabile delle due incolpazioni formulate nei suoi confronti (come residuate dalla separazione di altre incolpazioni).
2. – In particolare, il primo addebito (descritto compiutamente alle pp. da 2 a 6 di detta sentenza) riguarda l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. d), poiché, in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio, teneva un comportamento gravemente scorretto nei confronti di altri magistrati, così sintetizzato nella sentenza disciplinare alle pp. 11 e 12:
“a) il fatto di avere discusso (in un incontro notturno del 9 maggio 2019 tenutosi presso un albergo romano), oltre che con alcuni componenti del CSM (ossia: i dottori C.C., L.A., M.G., S.L. e C.P.), anche con terze persone – e, in particolare, con il deputato On. L.L. (per il quale, in particolare, la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto il rinvio a giudizio nel dicembre 2018, nell’ambito di una nota vicenda di risonanza nazionale) e l’On. F.C., magistrato in aspettativa per mandato parlamentare – della strategia da seguire (anche concertando le attività allo scopo necessarie, tra le quali quella diretta ad influire sulla esaltazione, all’interno delle procedure consiliari, del profilo professionale del candidato da favorire) per determinare la nomina di specifici candidati, in luogo di altri, con riguardo a taluni Uffici (giudiziari) direttivi, tra cui, in particolare, quello della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma; (capo 1. X) dell’incolpazione);
b) il fatto di avere programmaticamente discusso (a più riprese, ripetutamente e in diversi contesti) con terze persone – tra cui, ancora, l’On. L., il Consigliere S.L., il Collega F.S. e altri strategie di discredito del Dott. I.P., procuratore aggiunto presso la Procura di Roma, nonché con alcuno dei predetti interlocutori, strategie di discredito dello stesso Procuratore di *****, Dott. P.; (capo 1.Y), sottocapi y.1), y.2), y.3) e y.4) dell’incolpazione);
c) il fatto di avere prefigurato, confrontandosi con un Collega, la possibilità di svolgere un’attività diretta ad evidenziare i meriti di un aspirante all’ufficio direttivo di Procuratore della Repubblica di Perugia, condizionatamente, però, alla disponibilità del predetto aspirante a tenere un atteggiamento di sfavore nei confronti del Dott. I., in vista dell’iscrizione di un eventuale procedimento penale nei confronti di quest’ultimo; e, correlativamente, di sfavorire gli altri aspiranti al medesimo incarico direttivo (e tra questi, particolarmente, il Dott. Borrelli…)” (capo 1.Y), sottocapo y.5) e capo 1.Z) dell’incolpazione).
3. – Il secondo addebito riguarda l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. i), per avere, attraverso le condotte descritte nel primo capo di incolpazione, “tenuto conto delle ragioni e delle modalità di realizzazione delle stesse, posto in essere un uso strumentale della propria qualità e posizione diretto, per la modalità di realizzazione, a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quali la proposta e la nomina di uffici direttivi di vari uffici giudiziari (e, precisamente, di Procuratore della Repubblica e di Procuratore aggiunto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, nonché di Procuratore della Repubblica di Perugia) da parte del Consiglio Superiore della Magistratura”.
4. – Per quanto ancora rileva in questa sede, il corso del procedimento disciplinare, all’esito del quale è stata adottata la pronuncia nel merito delle contestazioni mosse al Dott. P., ha avuto il seguente sviluppo.
a) Con ordinanza n. 94/2020 veniva rigettata l’istanza di ricusazione del componente del Collegio Dott. D., presentata dall’incolpato.
A tal riguardo, in applicazione degli artt. 51 e 52 c.p.c., veniva, anzitutto, escluso, in base “documenti prodotti”, che il Dott. D. avesse “prestato consiglio sull’oggetto del procedimento”.
Veniva, altresì, escluso che lo stesso componente del collegio avesse “reso testimonianza in alcun procedimento (penale o disciplinare) a carico del Dott. P.”: Non poteva neppure reputarsi che lo “status di testimone” rilevasse per il Dott. D. in quanto indicato dall’incolpato nella lista testimoniale come persona a conoscenza di circostanze di fatto nell’ambito del procedimento penale n. 6652/2018 iscritto a carico dello stesso Dott. P. dinanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia.
Peraltro, dal “fatto dedotto non emerge(va)… alcun interesse confliggente”, sicché la “lettura estensiva” offerta dal ricusante si poneva “in evidente ed inammissibile forzatura del principio di tassatività delle cause di ricusazione”.
b) Con ordinanza del 15 settembre 2020 veniva rigettata la richiesta, avanzata dall’incolpato, di riunione del procedimento con quello aperto a carico dei dottori C., C., L., M. e S..
c) Con (altra) ordinanza del 15 settembre 2020 veniva rigettata l’istanza dell’incolpato di rimessione del procedimento “per legittimo sospetto”, ex art. 45 c.p.p. e ss., e D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4, e veniva dichiarata non rilevante e, comunque, manifestamente infondata la prospettata eccezione di legittimità costituzionale della disciplina dettata dalle predette disposizioni.
d) Con ordinanze del 18 e 23 settembre 2020, nonché del 2 ottobre 2020, la Sezione disciplinare provvedeva in via istruttoria, tra l’altro, all’ammissione (e poi audizione) di una parte soltanto dei testi richiesti dalle parti e dichiarava pienamente utilizzabili nel procedimento le intercettazioni (effettuate anche mediante impiego di captatore informatico) acquisite agli atti.
5. – Con la sentenza n. 139/2020, il Giudice disciplinare, in via preliminare e di rito, ha ritenuto quanto segue.
5.1. – Ha ribadito, in primo luogo, la decisione di rigetto dell’istanza di rimessione per “legittimo sospetto”, ai sensi dell’art. 45 c.p.p., e D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4, e della connessa eccezione di legittimità costituzionale del combinato disposto di dette norme, presentata dall’incolpato.
5.2. – Ha confermato la decisione sulla limitata ammissibilità delle richieste istruttorie, concernenti in particolar modo la lista testimoniale presentata dall’incolpato (con indicazione di 133 testimoni), reputando pertinenti, e quindi ammissibili, soltanto i fatti oggetto della contestazione, con conseguente inammissibilità di “ogni richiesta istruttoria diretta a dimostrare l’esistenza di altri fatti non pertinenti, o privi della capacità dimostrativa della insussistenza dei fatti contestati”.
5.2.1. – In particolare, sono state, tra le altre, ritenute inammissibili (perché non pertinenti e/o irrilevanti rispetto ai fatti contestati):
a) le circostanze volte ad accertare le “modalità di presentazione” dell’esposto – sostanzialmente, se in autonomia, oppure no – da parte del Dott. F., nonché “la conoscenza che terzi possono aver avuto” dell’intendimento in tal senso del medesimo Dott. F., poiché all’incolpato “non è (stato) contestato di avere determinato o concorso a determinare la volontà del Dott. F. S., ma esclusivamente il fatto di aver discusso con il predetto… le circostanze descritte in tale esposto, al fine di programmare strategie idonee a screditare i Dottori I. e P.”;
b) le circostanze relative alla “asserita esistenza di prassi “consiliari” pregresse, riassumibili in forme di serrata interlocuzione tra componenti istituzionali diversificate (esponenti di gruppi associativi della Magistratura, Consiglieri C.S.M. e ex Consiglieri, referenti politici, aspiranti agli incarichi direttivi e semidirettivi, etc.)”, giacché si tratterebbe “di prassi contra legem” che non potrebbero, comunque, “assumere alcuna efficacia scriminante rispetto al singolo episodio disciplinare, oggetto (unicamente esso) di accertamento e valutazione giudiziale”;
c) le circostanze volte alla “verifica di una effettiva incidenza, o di un condizionamento in fatto, della volontà di Consiglieri in carica”, in quanto “l’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. i), e’, in ogni caso, un illecito di mera condotta (attività diretta a condizionare) e non di evento, nessun rilievo assumendo, quindi, il concreto conseguimento (o mancato conseguimento) del risultato illecitamente programmato”.
5.3. – La Sezione disciplinare ha disatteso le eccezioni della difesa circa la inutilizzabilità delle intercettazioni acquisite agli atti del procedimento per le seguenti ragioni.
5.3.1. – Quanto alla dedotta inutilizzabilità delle intercettazioni per mancata indicazione, nel provvedimento autorizzativo, del domicilio presso il quale effettuare le intercettazioni attraverso captatore informatico – poiché “alla data del maggio 2019 le intercettazioni attraverso captatore informatico sarebbero state possibili, nei luoghi di cui all’art. 614 c.p., soltanto per i delitti di mafia e terrorismo, ma non per i reati contro la P.A. (di tale ultimo tipo essendo, in particolare, il delitto – corruzione – contestato, in sede penale, all’incolpato)” – la Sezione disciplinare ha diffusamente argomentato (richiamando anche il principio di diritto enunciato da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 741 del 15 gennaio 2020) in ordine alle ragioni per cui “la disposizione che ha ammesso intercettazioni attraverso captatore informatico per i delitti di corruzione (oggetto delle indagini, in relazione alla persona dell’incolpato, presso la Procura di Perugia)” ossia, la L. n. 3 del 2019, art. 1, comma 4, lett. a), che ha modificato l’art. 266 c.p.p., comma 2 bis, – “sia da reputare senz’altro in vigore dalla data in cui è divenuta efficace… la L. n. 3 del 2019 (e cioè, dal 31 gennaio 2019), con la conseguenza che essa era certamente operante alla data del maggio 2019 (e già alla data del provvedimento autorizzativo delle intercettazioni in considerazione)”.
Di qui, la conseguente affermazione secondo cui “la mancata indicazione del domicilio presso il quale effettuare le intercettazioni evocata dall’incolpato (ma non richiesta dal testo normativo già all’epoca vigente) – non ha in alcun modo invalidato il provvedimento autorizzatorio delle stesse, né reso non utilizzabili le intercettazioni compiute”.
5.3.2. – Quanto alla pretesa inutilizzabilità delle intercettazioni per la mancata indicazione della programmazione delle registrazioni da effettuare, con violazione degli artt. 268 e 271 c.p.p., non essendo consentito, in forza della disciplina vigente in materia di intercettazioni, di rimettere “all’autonoma scelta decisionale della P.G. operante o della ***** S.p.A. (operatore privato) di stabilire in quale momento della giornata attivare il microfono”, il Giudice disciplinare, anzitutto, ha ritenuto destituito di fondamento fattuale l’assunto difensivo. In base alle testimonianze raccolte (deposizione dei testi D.B. e M.) e’, infatti, emerso che “la determinazione analitica degli orari di attivazione delle captazioni avveniva sulla scorta di indicazioni fornite in via breve dall’A.G. di *****” e, inoltre, che, “per ragioni tecniche…, l’uso del trojan poteva protrarsi al massimo per 58 ore al giorno e che la sua concreta attivazione era programmata in ragione delle evidenze progressivamente acquisite”, con ciò risultando irragionevole “una preventiva e definitiva programmazione delle singole captazioni da effettuare per tutto il periodo delle intercettazioni, da cristallizzare nel provvedimento autorizzatorio”.
In diritto, la Sezione disciplinare ha argomentato che il legislatore, con il termine “modalità”, non ha inteso riferirsi alle operazioni tecnico-manuali, “ma alla scelta del tipo tra quelli previsti dalla norma regolatrice, alla individuazione del soggetto passivo e dell’ambiente ove il procedimento dovrà svolgersi” (Cass. pen., 13 settembre 2019, n. 38009), “senza alcuna necessità di riferimento anche ai singoli orari delle singole captazioni da compiere”, là dove, poi, “in tema di intercettazioni ambientali, la modifica delle modalità esecutive delle captazioni, concernendo un aspetto meramente tecnico, può essere autonomamente disposta dal “, non occorrendo un apposito provvedimento da parte del giudice per le indagini preliminari” (Cass. pen., 8 marzo 2018, n. 45486).
5.3.3. – Quanto alla asserita inutilizzabilità delle intercettazioni per la pretesa violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, in assenza “delle eccezionali ragioni di urgenza che avrebbero legittimato l’utilizzo di impianti esterni alla Procura di Perugia”, nella sentenza impugnata pur dandosi atto dell’esistenza di detta motivazione nel provvedimento del pubblico ministero del 27 marzo 2019 – si evidenzia, per un verso, che, nel caso per cui si procede, risulta incontestato che “gli impianti utilizzati sono stati quelli esistenti presso la Procura della Repubblica (non di Perugia, procedente, ma) di *****” e, per altro verso, il citato art. 268 c.p.p., comma 3, non postula affatto che “debba trattarsi degli uffici della Procura territorialmente competente e non presso un qualsiasi Ufficio di Procura”, come, del resto, confermato dalla giurisprudenza di legittimità (tra le altre, Cass. pen., 26 settembre 2019, n. 47557).
5.3.4. – Quanto alla pretesa inutilizzabilità delle intercettazioni per la dedotta violazione dell’art. 68 Cost., per essere state le captazioni effettuate – con particolare riguardo a quelle intervenute presso *****, nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 – anche in riferimento a dialoghi con parlamentari (e, segnatamente, con l’On. F.C.), la Sezione disciplinare, anzitutto, ha rilevato (alla luce della sentenza n. 390 del 2007 della Corte costituzionale) che le “intercettazioni casuali” sono “liberamente utilizzabili, in confronto dei terzi per i quali si procede, a prescindere dalla mancanza di autorizzazione (anche ex post) della Camera di appartenenza del Parlamentare”.
Il Giudice disciplinare – richiamando, infine, anche il provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Perugia del 21 settembre 2020, reso all’esito del sub-procedimento di cui all’art. 268 c.p.p., comma 6, – ha, quindi, ritenuto che le intercettazioni acquisite agli atti e riguardanti i dialoghi con l’on F. fossero casuali, giacché la “direzione dell’atto di indagine” non era volta, in concreto, “ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare”, e ciò in quanto:
a) la circostanza delle pregresse frequentazioni tra l’incolpato e l’on. F. non esclude, di per sé, “il carattere fortuito o casuale della intercettazione, evidente essendo che non si può certo predicare l’impossibilità di intercettazione di taluno in ragione della semplice circostanza che egli abbia, tra le sue possibili frequentazioni, amici parlamentari”;
b) “come attestato nella documentazione in atti”, l’intercettazione della conversazione telefonica (datata 8 maggio 2019) “che ha preceduto di alcune ore l’incontro poi captato con l’On. F.C. era stata preventivamente acquisita dagli investigatori”, ma “nessun dubbio può sorgere sulla circostanza che l’ascolto della predetta conversazione è avvenuto soltanto dopo (a mezza mattinata del giorno successivo) che l’incontro, e la relativa captazione informatica, erano avvenuti (il che risulta pacificamente asseverato tanto dal verbale della trascrizione acquisito in atti, che da convergenti deposizioni testimoniali assunte nel corso del procedimento: cfr. le deposizioni rese dai testi D.B. e D.P., nell’udienza del 23 settembre 2020)”;
c) “in nessun momento dell’indagine penale condotta nei confronti del Dr P.L. l’On. F.C. sia divenuto oggetto di attenzione investigativa” (come emerso, segnatamente, dalla deposizione del teste M.);
d) la circostanza “che agli atti del procedimento (penale) risultassero acquisite dichiarazioni di un indagato che individuava i riferimenti soggettivi (di altro indagato) presso il C.S.M. (in Consiliatura precedente a quella in atto) nelle persone del Dr P.L. e dell’On. F.C.”, è irrilevante, in quanto si tratta “di considerazione che in nessun modo ha mai prospettato possibili indizi di reità a carico dell’On. F., essendo le contestazioni penali e le relative attività di indagine iniziate e proseguite sempre ed esclusivamente nei soli confronti del Dr P.L., unico oggetto delle attenzioni investigative”;
e) risulta irrilevante “il rilievo contenuto in una informativa del G.I.C.O. della G.D.F., del 10 aprile 2019, agli atti del procedimento penale”, nel quale veniva affermato che “nell’attuale periodo di monitoraggio le attività di ascolto consentivano di rilevare come tra il P. ed il F. intercorresse un rapporto non limitato alla mera appartenenza ad associazioni di magistrati, bensì ad altri contesti connotati da elementi di opacità”, giacché tale ultima espressione “aveva riguardo a situazioni (relative a rapporti che riguardavano anche altri soggetti, quali, in particolare, Claudio Lotito e il notaio Ciampini) non immediatamente chiare (e in tal senso, appunto, “opache”) alla P.G. operante, ma rispetto alle quali in alcun modo sono mai stati anche soltanto ipotizzati possibili oggetti di attività investigativa coinvolgenti l’On. F.”;
f) è irrilevante “la circostanza che, con riferimento ad una conversazione intervenuta tra il Dott. P. e C. Lotito, sia stata effettuato, da parte della G.d.F., un accertamento sulla data di nascita del figlio dell’On. C. F.”, poiché (secondo le deposizioni dei testi D.B. e M.) “ciò fu fatto esclusivamente per ragioni di completezza investigativa e di sicurezza identificativa di un terzo soggetto (appunto, il F.) al quale gli stessi facevano riferimento nella conversazione, assente ad un certo appuntamento perché recatosi alla festa di compleanno del figlio (dovendosi quindi escludere che oggetto delle investigazioni fosse l’On. F.)”.
5.3.5. – Quanto alla pretesa inutilizzabilità delle intercettazioni per la dedotta violazione dell’art. 268, comma 3, c.p.p., “in ragione della prospettata verosimiglianza di un’attività intercettiva compiuta non (solo) attraverso l’impiego esclusivo di impianti installati nella Procura della Repubblica, ma anche attraverso apparecchiature esterne” (e che, quindi, “il server della Procura di Roma non fosse l’attrezzatura effettivamente impiegata per l’effettuazione dell’attività intercettiva”, avendo esso “mera funzione di client di altro server esterno, per mezzo del quale le operazioni sarebbero state realmente compiute”), la Sezione disciplinare ha ritenuto che tale “congettura, fondata su una ricostruzione ipotetica e dubitativa di una nota tecnica a firma del Dr M.F.” (consulente di parte dell’incolpato), “ha trovato totale smentita nelle deposizioni testimoniali acquisite e, in modo speciale, nella compiuta descrizione tecnica del sistema di funzionamento del captatore informatico quale descritta dall’Ing. B.D., responsabile della Società (*****) affidataria del servizio, in sede di chiarimenti e supplemento della deposizione testimoniale, durante l’udienza del 30 settembre 2020”.
5.3.6. – Il Giudice disciplinare ha, quindi, ribadito le ragioni di vigenza della disciplina legale in forza della quale sono state effettuate le intercettazioni a carico dell’incolpato, argomentando, altresì, sulla compatibilità convenzionale e costituzionale dell’interpretazione dell’art. 270 c.p.p., fornita dal “diritto vivente”, per cui la limitazione della utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui sono state legittimamente disposte si riferisce ai soli procedimenti penali “altri”, e non già a procedimenti tipologicamente diversi da quello penale, come (anche) quello disciplinare e ciò “al fine di dare attuazione al fondamentale principio processuale di ricerca della verità materiale (il quale ultimo solo in sede penale, in ragione degli interessi in gioco, può soffrire eccezioni)”.
5.4. – Il medesimo Giudice ha, quindi, reputato che – in base alle complessive emergenze istruttorie – sia stata oggetto di prova positiva:
a) la presenza del Dott. P. alla riunione della notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 e “lo speciale ruolo propositivo assunto dall’incolpato in ordine alla stessa ideazione, concertazione e programmazione dell’incontro”;
b) l’identità dei partecipanti alla riunione, oltre all’incolpato (onorevoli L. e F., i dottori M., C., L. e S.);
c) la “(usuale e ripetuta) ricorrenza di simili attività” da parte dell’incolpato (confermata dal medesimo in sede di dichiarazioni spontanee del 9 luglio 2019), avendo egli precisato che “dal 2007 faccio solo questo. Sono stato chiamato da chiunque e non solo certo da L.L., e non solo in occasione della scelta del Procuratore di Roma, a fare questo tipo di incontri”.
5.5. – Nel merito delle contestazioni disciplinari, la Sezione disciplinare – trascrivendo anche i “passaggi più rilevanti della ricostruzione dei fatti, come da verbale in atti dell’intervento della P.G.” – ha, anzitutto, osservato che le risultanze probatorie acquisite evidenziavano, complessivamente, che:
a) in relazione al capo X) dell’incolpazione del primo illecito (relativo alle posizioni dei magistrati che avevano “presentato domanda per il conferimento dell’ufficio direttivo di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma”):
a. 1) sussisteva “una strategia unitaria diretta, da parte dell’incolpato, a ricercare una soluzione di discontinuità, rispetto alla “gestione” P., dell’Ufficio della Procura della Repubblica di Roma” e, in tale ottica, veniva privilegiata la scelta della nomina del Dott. V., là dove l’indicazione del Dott. Creazzo “era chiaramente rappresentata come soltanto virtuale”, quale “candidatura fittizia o soltanto “interlocutoria”, da fare successivamente venire meno”, mentre la candidatura del Dott. Lo Voi era ritenuta tale da non “garantire quell’agognata discontinuità rispetto alla gestione del dottor P.”, che si era espresso positivamente in relazione alla stessa;
a.2) tale strategia, della quale era attivamente partecipe l’on. L., integrava, indipendentemente dalle posizioni dei dottori C. e L.V., “un comportamento gravemente scorretto nei confronti di tutti i magistrati che concorrevano per quel posto, attesa la grave turbativa introdotta nel procedimento amministrativo di selezione di nomine del candidato più idoneo, turbativa finalizzata a premiare un candidato sulla base di ragioni del tutto indipendenti e chiaramente confliggenti con i requisiti attitudinali e di merito che invece avrebbero dovuto presiedere alla decisione”;
b) in relazione al capo Y) – composto da più sottocapi e relativo alla posizione del Dott. I.P., procuratore aggiunto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma – della contestazione del primo illecito:
b.1) l’incolpato non si limitava a discutere, con l’on. L., “delle possibili strategie di discredito del dottor I., ma induce(va) l’interlocutore a condividere e persino escogitare iniziative che possano raggiungere l’obiettivo perseguito, che era quello di sanzionare lato sensu, o quantomeno mettere in cattiva luce, il collega presso l’organo di autogoverno, presso la Procura di Perugia o sulla stampa”;
b.2) l’incolpato condivideva la strategia di discredito con il Dott. S., consigliere del C.S.M., adoperandosi per farlo incontrare con il Dott. F. “per consentirgli di spiegare meglio ad un componente del Consiglio le ragioni del conflitto illustrate nell’esposto”;
b.3) l’incolpato aveva parlato della strategia di discredito del Dott. I. “anche con il dottor D.G.” (consulente tecnico), inducendolo “ad attivare i suoi canali informativi presso altri colleghi consulenti tecnici, ovvero presso il mondo dei colleghi commercialisti o anche presso gli stessi uffici di Procura da lui frequentati in virtù degli incarichi ricevuti, onde raccogliere ulteriori elementi utili alla causa di discredito del dottor I.”;
b.4) l’incolpato aveva, inoltre, utilizzato “le informazioni e i dati raccolti dal dottor F. per portare a compimento la sua strategia di discredito nei confronti del dottor I.P., veicolando tali dati agli interlocutori che apparivano funzionali alla sua causa”, b.5) l’incolpato (in conversazioni telefoniche del 7 maggio 2019, con i dottori S. e S.) lasciava “chiaramente intendere che l’ufficio di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Perugia doveva essere assegnato non già al collega più meritevole (e neppure al collega che garantiva la discontinuità rispetto al precedente Procuratore), ma a colui che si fosse dichiarato disponibile a tenere un atteggiamento di sfavore nei confronti del dottor I., in vista dell’iscrizione di un eventuale procedimento penale nei confronti di quest’ultimo”, così da danneggiare “tutti i colleghi aspiranti a quel posto”, essendo stato il procedimento di selezione “pesantemente inquinato, ma sarebbe forse più corretto dire pregiudicato, dalla strategia avuta di mira dal dottor P.”.
5.5.1. – Quanto al profilo della rilevanza disciplinare dei fatti contestati e ritenuti provati, la Sezione disciplinare ha osservato, anzitutto, che le plurime “scorrettezze”, imputate all’incolpato “in confronto di numerosi altri colleghi”, rispondono a una duplice “logica”.
Per un verso, talune sono “mirate”, “sulla base di motivazioni assolutamente personali”, a “”colpire” specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira”; per altro verso, invece, “altre scorrettezze” “costituiscono il “riflesso” necessario… di manovre “strategiche” intese a collocare – in alcuni Uffici giudiziari… “sensibili” – taluni magistrati… in luogo di altri aspiranti, con la inevitabile ma necessaria conseguenza di sfavorire tutti i (numerosi altri) concorrenti rimanenti, diversi da quelli “prescelti”…, programmaticamente selezionati non già sulla base di meriti oggettivi… ma unicamente in forza di convenienze strettamente personali, dell’incolpato e/o di suoi interlocutori”.
Di qui, “in una prospettiva di apprezzamento unitario, il particolare disvalore delle condotte ripetutamente poste in essere”, secondo una strategia “tutt’altro che occasionale ma, al contrario, soggettivamente avvertita dall’incolpato come assolutamente normale, usuale… fondata sul radicato convincimento… della riconducibilità sistematica delle proprie condotte anche al piano di una possibile e lecita (se non, addirittura, “scontata”) interlocuzione tra “magistratura” e “politica””.
5.5.2. – Ciò premesso, il Giudice disciplinare, in riferimento al primo illecito contestato, ha evidenziato che la norma di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), “non è costituito dall’avvenuta esecuzione, in fatto, di comportamenti attuativi (preventivamente programmati) di una scorrettezza comportamentale (già) consumata”, risultando oggetto della qualificazione di illiceità disciplinare “l’abitualità o la gravità della scorrettezza (sia pure solo programmaticamente) posta in essere, così come valutabile già attraverso la condotta individualmente tenuta, a prescindere dalla effettiva realizzazione del programma da quest’ultima espresso (e finanche… dalla obiettiva idoneità della medesima a realizzare il programma prefigurato)”.
5.5.2.1. – Quanto, poi, al “parametro di misurazione della correttezza comportamentale dovuta”, la Sezione disciplinare – dopo avere rammentato che alla concretizzazione di quel precetto giuridico elastico concorrono anche “standards valutativi esistenti nella realtà sociale”, come avrebbe potuto essere, pure, il “codice etico dei Magistrati” – ha sostenuto che non può certamente reputarsi “conforme alla clausola generale della correttezza la condotta socialmente sleale, in quanto contraria a principi (anche giuridici) di carattere generale che vietano comportamenti intenzionalmente diretti al fine di nuocere o, comunque, a realizzare risultati contrastanti con l’assetto di regole giuridiche, anche procedimentali, che governano un determinato settore della vita associata”.
Di conseguenza, “tutte le condotte analiticamente descritte nel primo capo di incolpazione – sub Y (e relative puntualizzazione, da y.1 a y.5) e Z – sono risultate programmaticamente dirette (in connessione a possibili aspirazioni professionali di soggetti potenzialmente coinvolti in procedure di conferimento di incarichi giudiziari direttivi o semidirettivi) a screditare o pregiudicare singoli magistrati (in particolare – anche tralasciando la posizione del Dr P., in quanto cessato dal servizio – il Dr P. I. e il Dr B., nonché tutti gli aspiranti alla Procura della Repubblica di Perugia) e, quindi, ripetutamente e gravemente contrarie a canoni di correttezza della condotta”.
5.5.2.2. – Analogamente – soggiunge la Sezione disciplinare “deve essere giudicata la condotta, complessivamente valutata, di cui al capo I, sub X, dell’incolpazione (tenuto conto, particolarmente, della posizione soggettiva degli aspiranti all’incarico di Procuratore della Repubblica di Roma e delle stesse aspirazioni soggettive dell’incolpato medesimo rispetto a funzioni semidirettive dell’Ufficio di Procura considerato)”.
Sicché, “la strategia messa a punto dal dottor P., così come concertata con i partecipanti alla riunione dell’8-9 maggio presso *****, rientra a pieno titolo nel paradigma del comportamento gravemente scorretto (in confronto di tutti i Magistrati che avevano presentato domanda per il conferimento dell’ufficio direttivo di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma)”.
Si tratta – argomenta ancora il Giudice disciplinare – di condotte sussumibili nell’ambito dell’illecito di natura funzionale di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, giacché nell’ambito di applicazione della norma rientrano anche comportamenti che “non debbono necessariamente essere frutto del concreto esercizio della giurisdizione ma possono investire anche i rapporti che si instaurano con altri magistrati in ragione della funzione che l’incolpato svolge proprio in quanto tale”.
Sicché, proprio la “violazione di doveri funzionali”, al cui rispetto ogni magistrato è tenuto in ragione della qualità professionale rivestita, diviene “l’essenza degli illeciti disciplinari considerati, dal legislatore, sotto il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2”, per cui in tale prospettiva deve anche interpretarsi, in via estensiva, la locuzione, fatta propria dalla disposizione di legge, “nell’esercizio delle funzioni”.
Pertanto, essendo ogni magistrato, in quanto tale, “tenuto, tra l’altro, al rigoroso rispetto delle previsioni, di rango primario ma anche secondario, che – nella lealtà della competizione selettiva… – regolano le procedure di accesso alle cariche direttive e semidirettive di tutti i legittimi (e legittimati) aspiranti”, “azioni variamente dirette a condizionare le procedure selettive, attraverso condotte manifestamente contrarie ai canoni di correttezza e socialmente sleali”, “non possono che configurare una patente violazione dei doveri funzionali facenti capo al magistrato”, così da integrare la fattispecie disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d).
5.5.2.3. – La Sezione disciplinare ha, quindi, sostenuto che, nel caso di specie, integrano la predetta fattispecie di illecito disciplinare le condotte (volte, “anche attraverso pressioni, accordi e mistificazioni”, a perseguire la deviazione delle scelte degli organi competenti “dalle procedure e dai criteri previsti” e “a prescindere dall’avvenuta o mancata realizzazione del programma prefigurato, e persino dalla astratta idoneità delle condotte poste in essere alla effettiva concretizzazione del fine perseguito”) ascritte al Dott. P. nella prima incolpazione – in tutta la sua articolazione (capi X, Y, Z) trovando concretizzazione sia il profilo della “ripetizione”, che della “speciale gravità”, trattandosi di condotte ripetute, con “particolare dispregio… verso regole codificate e standards di comportamenti dovuti”, indirizzate in pregiudizio di una molteplicità di interessati e coinvolgenti “altissimi profili istituzionali”.
5.5.2.4. – Sotto ulteriore profilo, il Giudice disciplinare – escludendo l’esistenza di un rapporto di specialità tra le fattispecie di illeciti considerati dai due capi di incolpazione – ha ritenuto che il medesimo addebito (partecipazione dell’incolpato “alla riunione notturna dell'*****, peraltro dallo stesso promossa”) abbia assunto rilevanza disciplinare sia ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), (“in quanto costituente una grave trasgressione dei doveri funzionali facenti capo al Magistrato”), sia “sul piano dell’illecito extrafunzionale” di cui all’art. 3, comma 1, lett. i), del medesimo decreto legislativo, poiché “quella (medesima) condotta (in sé, già funzionalmente illecita, perché integrante una grave scorrettezza nei confronti di altri Magistrati) è risultata altresì idonea, astrattamente (e quindi, in questo senso, diretta), a condizionare l’esercizio delle funzioni costituzionalmente riservate al Consiglio Superiore della Magistratura”.
5.5.3. – Quanto, segnatamente, alla seconda incolpazione, ossia all’illecito previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. i), la Sezione disciplinare ha, anzitutto, ritenuto provati, in base alle emergenze probatorie, i fatti contestati. E, in particolare, il ruolo propositivo assunto dall’incolpato in ordine alla riunione notturna dell’8-9 maggio 2019 presso l'*****, “durante la quale è stato definitivamente concertato e messo a punto il programma di azione che avrebbe dovuto assicurare la nomina, in Consiglio, del candidato prescelto dall’incolpato insieme ai suoi interlocutori”, con alcuni dei quali il medesimo incolpato era “solito tenere incontri (che) dallo stesso (vengono) qualificati come riservati e ristretti al solito gruppo”.
Il Giudice disciplinare ha, quindi, osservato che la fattispecie legale, individuante un illecito extrafunzionale, sanziona la “direzione” dellmuso strumentale della qualità di Magistrato… a condizionare l’esercizio delle funzioni costituzionalmente previste”, ossia “il fatto di aver posto in essere un comportamento oggettivamente diretto a quel risultato, ancorché lo stesso non sia stato poi concretamente raggiunto” e, dunque, “una condotta tale da determinare il pericolo di un condizionamento – in termini potenziali – della funzione costituzionalmente riservata”.
5.5.3.1. – Ciò posto, lo stesso Giudice ha escluso che – come diversamente prospettato dalle difese dell’incolpato – i fatti contestati:
a) potessero “intendersi alla stregua di una libera manifestazione di idee e valutazioni personali in tema di “politica giudiziaria””;
b) potessero essere riassunti:
b.1) in una “fisiologica interlocuzione istituzionale o latamente politica tra alcuni membri del Consiglio Superiore e un magistrato già membro della stessa istituzione, il cui perdurante ruolo politico associativo ne legittimava la presenza”;
b.2) ovvero in una “istituzionale interlocuzione anch’essa politica tra membri togati dell’organo di autogoverno ed alcuni membri del Parlamento rappresentanti un altro potere dello Stato”;
b.3) ovvero ancora in un “laboratorio politico istituzionale di teste pensanti e volenterose rispetto al problema del più importante ufficio giudiziario italiano”.
5.5.3.2. – La Sezione disciplinare ha, invece, affermato che l’attività dell’incolpato avesse “sicuramente travalicato (e di gran misura) il “modello perimetrato nella previsione costituzionale”, scavalcando la stessa rappresentanza politica in seno all’Organo di governo autonomo della Magistratura e “scegliendo a piacimento, ed in maniera del tutto arbitraria, altri interlocutori politici, per di più imputati, o anche interlocutori togati disparati ed estranei ad ogni responsabilità di rappresentanza, dunque, privi di ogni legittimazione”, senza “che venissero nella specie perseguiti obiettivi di politica giudiziaria in senso lato, ma… concretissime (e tutt’altro che commendevoli) “forme di interesse personale e privato che si sostituiscono integralmente alle finalità costituzionali””.
Sicché, l’attività diretta al condizionamento di funzioni costituzionalmente riservate ha trovato rilievo in un “episodio fattuale”, dalla connotazione “di speciale rilevanza disciplinare” – “che, in realtà, rappresenta il momento centrale di una ben più ampia programmazione strategica, variamente articolata nel tempo” “ideato, promosso, coordinato e diretto dall’incolpato al concretissimo fine empirico di condizionare talune specifiche nomine (incarichi giudiziari direttivi e semidirettivi) di imminente adozione (all’epoca delle vicende per cui si procede) da parte del C.S.M. (nomine in ordine alle quali l’incolpato e altri suoi interlocutori (tra cui l’on. L., “imputato ad iniziativa della Procura della Repubblica di *****”) avevano varie ragioni individuali di forte interesse personale)”.
5.5.3.3. – Ad avviso della Sezione disciplinare non difetta, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, l’elemento, costitutivo dell’illecito, dell’uso strumentale della qualità di magistrato, poiché:
a) la partecipazione all’incontro dell’8-9 maggio 2019 (e già la relativa promozione e organizzazione) “e’ stata possibile all’incolpato unicamente in ragione della sua condizione di Magistrato e di leader notoriamente riconosciuto di una “corrente” (il gruppo di Unità per la Costituzione – Unicost) particolarmente radicata e rappresentativa (almeno, certamente, all’epoca dei fatti) all’interno del corpo della Magistratura”;
b) “proprio quella situazione professionale posseduta dall’incolpato” è stata “(implicitamente, ma indiscutibilmente) “spesa” dal medesimo per fare presa sugli altri partecipanti al “programma”, anche in forza dell’interesse che gli altri compartecipi avevano (o per ragioni di corrente, o per logiche di “accordi” tra gruppi) alla “collaborazione” strategica con l’incolpato”;
c) le modalità realizzative della condotta illecita “sono state tali da manifestare indiscutibilmente la direzione della condotta dell’incolpato al condizionamento delle funzioni dalla Costituzione attribuite al Consiglio Superiore della Magistratura”, essendo stato “l’accordo… programmato… attraverso il coinvolgimento di interlocutori che, per la posizione rivestita all’interno del C.S.M. (Presidente della V Commissione, Cons. G. M.; Relatore della pratica sulla nomina del Procuratore della Repubblica di Roma in Commissione, Cons. L. A.; Consiglieri S. L., C. C. e C. P….), e comunque per la qualità di Consiglieri in carica nell’Organo di governo autonomo, potevano certamente incidere fattivamente e concretamente sull’esercizio delle funzioni costituzionalmente riservate, per tale via “attentate” o “insidiate” dalla condotta illecita programmata”.
5.6. – In punto di determinazione della sanzione, la Sezione disciplinare ha ritenuto di dover valorizzare i seguenti elementi:
a) la non occasionalità degli episodi, non isolati, ma frutto di condotte “sistematicamente ripetute e variamente articolate, oggettivamente, soggettivamente e temporalmente”;
b) l’intensità dell’elemento psicologico della condotta, che “ha raggiunto sicuramente l’apice della gravità astrattamente ipotizzabile”, in quanto “tutte le numerose condotte intenzionalmente poste in essere… sono state concepite, preparate e messe in opera con assoluta consapevolezza della loro contrarietà alle regole “codificate”, e con “chirurgica” determinazione strategica degli obiettivi, delle azioni da programmare allo scopo, dei soggetti da coinvolgere nelle iniziative, delle modalità di attuazione del programma così accuratamente architettato”;
c) “le motivazioni che hanno determinato l’incolpato alla programmazione e tentata realizzazione dei propri propositi” – tali da integrare “livelli apicali di censurabilità” – avendo egli agito, “principalmente se non unicamente, sotto la spinta di ragioni personali variamente calibrate tra la soddisfazione di aspirazioni rancorose in confronto di taluni soggetti e, più radicalmente, obiettivi egoistici di affermazione professionale” e non già in base al “nobile proposito (sia pure perseguito attraverso accordi e metodi gravemente scorretti e giuridicamente illeciti) di procurare la “collocazione” negli Uffici giudiziari di quelle professionalità soggettive che, nella sua personale rappresentazione, gli apparivano come le più idonee, funzionalmente, agli incarichi da assegnare”;
d) la “gravità oggettiva dei fatti” oggetto degli addebiti, da reputarsi “massima”, “sia in ragione dell’elevato numero dei soggetti che le plurime condotte dell’incolpato erano dirette a pregiudicare, sia in ragione della speciale rilevanza degli interessi istituzionali in gioco (sì che sono state severamente insidiate le funzioni di un organo a rilevanza costituzionale e, contestualmente, sono stati presi di mira alcuni tra i più rilevanti Uffici giudiziari del Paese)”, sia ancora in considerazione “dei ruoli istituzionali e di responsabilità ricoperti, nella propria carriera professionale, dall’incolpato (che è stato Presidente A.N.M., Consigliere C.S.M. e che agiva, all’epoca dei fatti, nella sostanziale qualità di leader di un gruppo associativo di massima estensione all’interno dell’Ordine giudiziario)”;
e) la “compromissione del prestigio personale e funzionale e della considerazione di cui il Magistrato deve godere, nonché del prestigio dell’Ordine giudiziario” determinata dalla “straordinaria gravità e l’enorme risonanza mediatica delle vicende disciplinari considerate” (continuamente al centro dell’interesse dei mezzi di informazione e con valenza altamente negativa, nonché determinative di “iniziative associative” e “propositi di riforma legislativa”), tali da incidere “in maniera irrimediabile sulla credibilità funzionale e sul prestigio personale dell’incolpato, in relazione all’esercizio della funzione giudiziaria che dallo stesso dovrebbe essere svolta”.
5.6.1. – Di qui, ad avviso della Sezione disciplinare del C.S.M., la necessaria comminazione della rimozione, unica “sanzione proporzionalmente adeguata alla gravità dei fatti, dal momento che ogni altra sanzione risulterebbe del tutto insufficiente alla tutela di quei valori che la legge e il sistema disciplinare, in modo particolare, intendono perseguire”.
6. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il Dott. P.L., affidando le sorti dell’impugnazione ad otto motivi, deducendo, altresì, la rilevanza e la non manifesta infondatezza di plurime eccezioni di legittimità costituzionale, nonché proponendo domanda di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE.
Il Ministero della giustizia si è costituito in giudizio mediante atto con il quale ha riservato ad apposita memoria le proprie difese.
In data 3 maggio 2021, il difensore del ricorrente ha formulato tempestiva richiesta di discussione orale – per iscritto e con invio a mezzo p.e.c. alla cancelleria di questa Corte – ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito, con modificazioni, nella L. n. 176 del 2020, i cui effetti (secondo quanto stabilito dallo stesso art. 23, comma 1, come modificato dal D.L. n. 44 del 2021, art. 6, convertito, con modificazioni, nella L. n. 76 del 2021) sono stati prorogati sino al 31 luglio 2021.
In prossimità dell’udienza pubblica – fissata in data 8 giugno 2021 -, il Ministero della giustizia ha depositato memoria, il ricorrente ha depositato atto denominato “motivi nuovi”, deducente tre motivi con allegata documentazione, e il procuratore generale conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
Il ricorrente ha, poi, depositato, il 25 maggio, istanza di differimento dell’udienza pubblica in ragione di accertamenti disposti dalle Procure della Repubblica presso i Tribunali di Napoli e di Firenze in relazione al funzionamento e alla gestione del captatore informatico inoculato nel telefono cellulare dell’incolpato nell’ambito del procedimento penale pendente dinanzi al Giudice per le indagini preliminari (di seguito G.I.P.) del Tribunale di Perugia.
In data 4 giugno il ricorrente ha depositato ulteriore nota ex art. 372 c.p.c., corredata da documentazione, con la quale ha insistito nell’istanza di differimento dell’udienza di discussione avendo il G.I.P. del Tribunale di Perugia disposto ulteriore atto di indagine sull’anzidetto captatore informatico.
In sede di discussione orale in udienza pubblica, il pubblico ministero ha depositato “note d’udienza”, con allegata documentazione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Le questioni preliminari di rito.
1. – Logicamente prioritario allo scrutinio del fondo del ricorso è l’esame di talune questioni preliminari di rito e, anzitutto, quelle concernenti l’istanza di differimento dell’udienza di discussione del ricorso presentata, e poi reiterata, dal ricorrente, nonché l’ammissibilità delle “note di udienza” depositate dal pubblico ministero.
1.1. – La questione da ultimo indicata va esaminata per prima, in quanto investe il contraddittorio (anche) sulle ragioni dell’istanza anzidetta, poiché lo stesso pubblico ministero ha dedotto, in sede di discussione orale, che le “note” costituiscono documento rappresentativo, in primo luogo, degli argomenti che sarebbero stati espositi oralmente a sostegno dell’auspicata reiezione della richiesta di differimento dell’udienza e, quindi, di ulteriori considerazioni a confutazione delle difese svolte dal ricorrente con i “motivi nuovi”.
A tal riguardo occorre premettere (in continuità con l’orientamento costante di queste Sezioni Unite: tra le altre, Cass., S.U., 31 luglio 2007, n. 16873; Cass., S.U., 12 giugno 2017, n. 14550; Cass., S.U., 4 novembre 2020, n. 24631; Cass. S.U., 31 maggio 2021, n. 15110) che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24, ha introdotto un sistema c.d. bifasico per l’instaurazione e la decisione del giudizio di legittimità in materia disciplinare, assoggettando il ricorso alle forme ed ai termini previsti dal codice di procedura penale – al duplice fine di rendere più celere la fase introduttiva e di assicurare la compatibilità dei motivi di gravame con la disciplina di un procedimento che, nella fase di merito, è regolato dalle norme del predetto codice – e la fase della decisione al rito civile, in coerenza con l’attribuzione della competenza alle Sezioni Unite civili e con l’oggetto della materia su cui la sentenza impugnata della Sezione disciplinare verte, venendo in rilievo sanzioni (quelle disciplinari, per l’appunto) ritenute tradizionalmente estranee alla materia penale.
Ciò comporta che il momento che segna l’inizio della fase del giudizio in cui trovano applicazione le norme del codice di procedura civile è quello in cui il ricorso perviene alle Sezioni Unite. Da questo momento in poi, dunque, trovano applicazione, tra le altre, le disposizioni di cui agli artt. 372,377,378 e 379 c.p.c., che attengono propriamente all’esercizio dei diritti della difesa nello svolgimento del giudizio di legittimità civile.
Per quanto ora interessa, avendo il ricorrente, con istanza del 3 maggio 2021, avanzato tempestiva richiesta di trattazione orale D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. n. 176 del 2020, occorre fare riferimento alle disposizioni ordinarie sul processo di legittimità e, segnatamente, all’art. 379 c.p.c..
Tale disposizione regolamenta l’udienza di discussione, che – a differenza di quanto previsto dalla previgente formulazione (poi modificata dal D.L. n. 168 del 2016, convertito, con modificazioni, nella L. n. 197 del 2016), che abilitava, comunque, soltanto gli avvocati delle parti al deposito di brevi note scritte in luogo delle non consentite repliche – si svolge esclusivamente in forma orale.
Dunque, le note depositate in udienza dal pubblico ministero sono inammissibili.
1.2. – L’istanza di differimento dell’udienza, poi reiterata dal ricorrente e corredata ogni volta da documentazione a supporto di essa, deve essere rigettata.
Con detta istanza – come detto – si rappresenta l’esigenza di attendere, prima della decisione di questa Corte, gli esiti degli accertamenti tecnici, disposti da più Autorità giudiziarie, sul funzionamento e gestione del captatore informatico inoculato nel telefono cellulare del Dott. P..
L’istanza di parte ricorrente non evoca a sostegno una specifica disposizione processuale che imporrebbe il differimento. Va evidenziato piuttosto che essa si innesta nel corso dello svolgimento del giudizio civile di legittimità che è governato dall’impulso d’ufficio, non beneficia di alcuna disciplina speciale ed è improntato a particolare celerità, essendo previsto per la sua definizione il termine (sebbene di natura meramente ordinatoria: Cass., S.U., 6 ottobre 2020, n. 21432) di sei mesi dalla proposizione del ricorso (così il citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24).
Invero, le ragioni della richiesta di differimento della trattazione della causa si legano strettamente al merito delle censure, veicolate dal terzo motivo di ricorso, con le quali è denunciata, per la “prospettata verosimiglianza di un’attività intercettiva compiuta non (solo) attraverso l’impiego esclusivo di impianti installati nella Procura della Repubblica, ma anche attraverso apparecchiature esterne”, la violazione dell’art. 191 c.p.p., art. 268 c.p.p., comma 3, e art. 187 c.p.p., comma 2.
Sicché, proprio in sede di scrutinio di quel mezzo di impugnazione si darà conto anche del perché l’istanza di differimento dell’udienza di discussione del ricorso non può trovare accoglimento.
Premesse in diritto.
2. – Sempre in via preliminare, è opportuno sin d’ora precisare talune, più generali, coordinate in diritto che guideranno, poi, la delibazione nel merito di molte delle doglianze mosse dal ricorrente alla sentenza impugnata. Il che consentirà, allorquando si esamineranno censure che denunciano i medesimi vizi, di non dover, ogni volta, ribadire gli stessi principi di diritto di seguito evidenziati, reputandosi sufficiente un rinvio ad essi tramite l’indicazione del relativo paragrafo (p.) di illustrazione.
3. – Il riferimento e’, anzitutto, alla veste giuridica da assegnare alla memoria difensiva denominata “motivi nuovi di ricorso per cassazione”, depositata dal ricorrente il 21 maggio 2021.
Essa, proprio perché prodotta durante la fase della decisione sulla sentenza disciplinare impugnata, non può – come di recente puntualizzato da queste Sezioni Unite con la citata sentenza n. 15110 del 2021 – inquadrarsi nella previsione di cui all’art. 585 c.p.p., comma 4, che consente, in sede (anche) di giudizio di legittimità penale, il deposito di “motivi nuovi” ad illustrazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta rivolta al giudice dell’impugnazione, pur sempre nei limiti dei capi o punti della decisione oggetto del gravame.
La memoria di parte ricorrente, dunque, deve essere riqualificata come memoria depositata ai sensi e per gli effetti dell’art. 378 c.p.c. (e nei termini dalla norma stabiliti, che il ricorrente ha certamente rispettato), per cui l’ammissibilità della stessa, quanto al contenuto ivi espresso, dovrà essere saggiata in ragione del rispetto della funzione sua propria, alla stregua della citata disposizione.
Funzione che è soltanto quella illustrativa e chiarificatrice delle ragioni di doglianza già formulate con il ricorso ovvero di confutazione delle tesi avversarie, ma non di specificazione, integrazione ed ampliamento del contenuto delle originarie argomentazioni che non fossero state adeguatamente prospettate o sviluppate con il detto atto introduttivo e, tanto meno, di deduzione di nuove eccezioni o di nuove questioni di dibattito. Diversamente si violerebbe il diritto di difesa della controparte in considerazione dell’esigenza per quest’ultima di valersi di un congruo termine per esercitare la facoltà di replica (così la citata Cass., S.U., n. 15110 del 2021; in precedenza, sulla funzione delle memorie ex art. 378 c.p.c., tra le molte: Cass., S.U., 29 aprile 1981, n. 2598; Cass., 8 agosto 1986, n. 5000; Cass., S.U., 15 maggio 2006, n. 11097; Cass., 18 dicembre 2014, n. 26670; Cass., 20 dicembre 2016, n. 26332, Cass., 31 marzo 2021, n. 8939).
4. – Giova, inoltre, inquadrare giuridicamente i presupposti che governano l’ammissibilità della documentazione prodotta in questa sede di legittimità dal ricorrente e (in udienza) dal pubblico ministero.
4.1. – Quanto alla documentazione allegata al ricorso per cassazione (doc. da n. 1 a n. 12), l’anzidetta valutazione deve essere effettuata in base alle norme di rito penale. Essa, pertanto, rimane attratta nell’alveo della disciplina che – in ragione dell’illustrato regime applicativo del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24, – attiene alla proposizione del giudizio di legittimità, giacché i documenti stessi, per l’appunto allegati all’atto di impugnazione della sentenza disciplinare, sono stati prodotti in un momento antecedente a quello di ricezione del ricorso stesso da parte delle Sezioni Unite civili.
Di qui, l’esigenza che la delibazione sia correlata, in primo luogo, alla tipologia del vizio denunciato ai sensi dell’art. 606 c.p.p., pur sempre da condursi in coerenza con la struttura e finalità del giudizio di cassazione.
E’, dunque, in questo contesto che si pone la questione relativa alla sorte dei documenti “nuovi”, in quanto non già prodotti nella fase di merito, che sono stati allegati al ricorso.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Cass. pen., 27 gennaio 2006, n. 3396; Cass. pen., 11 gennaio 2013, n. 1417; Cass. pen., 11 febbraio 2016, n. 5722; Cass. pen., 14 ottobre 2019, n. 42052), nel giudizio di legittimità – non essendo stato riprodotto dall’art. 613, del vigente codice di rito penale quanto previsto dal previgente art. 533 c.p.p. -, non è ammissibile la produzione, per la prima volta, di “documenti nuovi”, ulteriori, quindi, rispetto ai documenti già presenti nel fascicolo e diversi da quelli di natura tale da non costituire “nuova prova”, così da non richiedere alcuna attività di apprezzamento circa la loro validità formale e la loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici di merito (ad es.: produzione di certificati di nascita rilevanti ai fini dell’imputabilità o di certificati di morte rilevanti ai fini della declaratoria di estinzione del reato), in quanto attività estranea ai compiti istituzionali della Corte di cassazione.
In coerenza con tale indirizzo, si e’, quindi, affermato che l’art. 327 bis c.p.p., comma 2, nell’attribuire al difensore la facoltà di svolgere in ogni stato e grado del processo investigazioni in favore del proprio assistito, non può essere interpretato nel senso di consentire la produzione nel giudizio di legittimità di nuovi documenti attinenti al merito della contestazione ed all’applicazione degli istituti sostanziali (Cass. pen., 7 ottobre 2013, n. 41127; Cass. pen., 10 ottobre 2016, n. 42817).
A tale principio è possibile derogare solo per i documenti che l’interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, ma che, comunque, non siano attinenti al merito della regiudicanda, nonché per quelli che riguardino l’applicazione (senza necessità – come detto – di procedere ad accertamenti di fatto e ad attività istruttoria non compatibile con il giudizio di legittimità) dello ius superveniens (anche in guisa di declaratoria di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge), di un giudicato sostanziale, di cause estintive o di disposizioni più favorevoli (Cass. pen., 25 maggio 1996, n. 1948; Cass. pen., 2 aprile 2008, n. 13853; Cass. pen., 4 luglio 2008, n. 27437; Cass. pen., 7 novembre 2013, n. 45139; Cass. pen., 24 giugno 2014, n. 27417; Cass. pen., 6 giugno 2017, n. 27821; Cass. pen., 24 ottobre 2018, n. 48552).
4.2. – Quanto, poi, alla documentazione depositata (dal ricorrente e dal pubblico ministero) nel corso del presente giudizio – e, quindi, dopo che il ricorso è pervenuto a queste Sezioni Unite – il paradigma legale del relativo scrutinio di ammissibilità (sempre in ragione delle modalità operative della norma di cui al citato art. 24) è fornito, essenzialmente, dalla disposizione dell’art. 372 c.p.c. – che consente la produzione, nel giudizio di legittimità, dei documenti che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso -, alla luce dei principi di diritto che questa Corte di legittimità ha enunciato nel tracciare il perimetro entro il quale tale norma può trovare applicazione.
Il perimetro va delimitato in relazione a quanto rileva nel presente giudizio, dovendosi avere riguardo alla sola ipotesi della nullità della sentenza impugnata e alla circostanza che quest’ultima è impugnabile direttamente, e soltanto (in via ordinaria), con il ricorso per cassazione.
E’, quindi, consentito estendere la produzione documentale anche a supporto di censure con le quali si lamentino errores in procedendo (in base ai fatti già acquisiti al processo) idonei a ripercuotersi sulla validità della pronuncia impugnata e non soltanto (come, nei casi di giudizio con doppio grado di merito, da orientamento prevalente: tra le tante, Cass., 26 ottobre 2006, n. 23026) a sostegno di vizi propri dell’atto per mancanza dei suoi requisiti essenziali di sostanza e di forma. Diversamente, il divieto di produzione di nuovi documenti nel giudizio di legittimità si tradurrebbe in un’ingiustificata limitazione del diritto di difesa della parte, garantito dall’art. 24 Cost. (Cass., 17 dicembre 2004, n. 23576; Cass., 11 febbraio 2009, n. 3373; Cass., 11 luglio 2014, n. 16036).
In siffatto contesto, i documenti, dei quali è consentita la produzione ai sensi dell’art. 372 c.p.c., devono poter essere in sé rappresentativi del vizio processuale proprio della sentenza o destinato a ripercuotersi sulla stessa e devono attestarne in modo idoneo l’esistenza, senza che siano necessari approfondimenti istruttori di sorta o ulteriori indagini in fatto.
Di ciò non dubita la giurisprudenza di questa Corte, in armonia con quanto evidenzia la stessa dottrina processualista in ragione, essenzialmente, del rilievo che attiene alla struttura propria del giudizio di legittimità, la quale, così come congegnata, non ammette lo svolgimento, per l’appunto, di attività istruttoria.
Costituisce, infatti, orientamento consolidato (tra le molte: Cass., 9 agosto 2007, n. 17581; Cass., 19 dicembre 2011, n. 27521; Cass., 28 febbraio 2012, n. 3024; Cass., 13 settembre 2017, n. 21256) quello che afferma l’incompatibilità del giudizio di cassazione con qualsivoglia indagine di fatto e di attività istruttoria da parte dello stesso giudice di legittimità e richiede la necessaria valenza e forza probante dei documenti prodotti ex art. 372 c.p.c., (in via meramente esemplificativa: certificazioni di cancelleria; certificazioni o delibere provenienti da enti pubblici; decreti ministeriali di proroga dei termini di notificazione; documentazione anagrafica; iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di cancellazione di una società di capitali), così da essere di per sé sufficienti a dimostrare univocamente il vizio che (direttamente o di riflesso) inficia di nullità la sentenza impugnata.
Nondimeno, la possibilità di dedurre e documentare dinanzi a questa Corte il “fatto sopravvenuto” è stata ammessa, anche al di là degli stretti limiti imposti dall’art. 372 c.p.c., nel caso della cessazione della materia del contendere (là dove i fatti sopravvenuti siano tali da elidere l’interesse alla pronuncia sul ricorso – e, quindi, da evitare una pronuncia inutilter data – purché riconosciuti ed ammessi da tutti i contendenti: per tutte, Cass., 29 febbraio 2016, n. 3934) ovvero (per quanto più interessa) in correlazione a questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio (e pur sempre in assenza di un giudicato interno) e in analogia a quanto avviene in punto di applicabilità immediata, nello stesso giudizio di cassazione, dello ius superveniens.
In tal senso, si e’, quindi, consentita la deducibilità del giudicato esterno, quale elemento da non potersi includere nel fatto, giacché, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto e così a partecipare della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto (Cass., S.U., 16 giugno 2006, n. 13916).
Ed ancora, si è ammessa la deducibilità del factum superveniens idoneo ad incidere sull’oggetto della causa sottoposta all’esame del giudice, allorché il contenuto della situazione giuridica controversa abbia avuto una definitiva modificazione a seguito di provvedimento della pubblica amministrazione, essendo soltanto in siffatti circoscritti termini argomentabile l’equiparazione allo jus superveniens (Cass., 26 marzo 1980, n. 2010; Cass., 14 maggio 1981, n. 3173; Cass., 17 aprile 1982, n. 2341; Cass., 24 novembre 2020, n. 26757).
In questa prospettiva, dunque, la giustificazione dell’estensione del principio di equiparabilità del factum superveniens allo jus superveniens nel giudizio di cassazione trova precipuo fondamento nel principio della durata ragionevole del processo ex art. 111 Cost., nel cui più ampio ambito si radica anche il canone dell’economia processuale, là dove, tuttavia, una siffatta estensione, beninteso, non presupponga “questione alcuna di accertamento del fatto medesimo, così da mantenere intatti nella loro natura e funzione i poteri del giudice di legittimità, nonché struttura e morfologia del giudizio di cassazione” (così la citata Cass. n. 26757 del 2020).
E ciò si rende possibile proprio in ragione della particolare forza rappresentativa del documento che introduce nel giudizio di cassazione il fatto sopravvenuto, restando al di fuori di questo perimetro ogni “atto istruttorio”, mentre ciò che assume rilievo è soltanto il piano della “conoscenza che il giudice di legittimità può avere sia della norma giuridica sopravvenuta sia del fatto sopravvenuto, equiparabile alla prima nei sensi sopra delineati” (così la citata Cass. n. 2010 del 1980).
5. – Vanno, altresì, rammentati sin d’ora i principi di diritto che orienteranno il sindacato di queste Sezioni Unite in riferimento alla tipologia dei vizi denunciati dal ricorrente ai sensi dell’art. 606 c.p.p..
5.1. – Quanto al vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), (“inosservanza di norma processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità e di decadenza”), la deduzione del c.d. error in procedendo consente alla Corte di cassazione, l’esame pieno e diretto degli atti processuali in quanto, in tale ipotesi, giudice del “fatto processuale”.
Sicché, la Corte è tenuta ad accertare l’esistenza o meno del vizio denunciato, sia pure in coerenza con la struttura e disciplina del giudizio di legittimità, che – come detto – impedisce di svolgere attività istruttoria (essendo quel giudizio ex actis) e richiede, in armonia anzitutto con le prescrizioni di cui all’art. 581 c.p.p., che la censura sia formulata nel rispetto dei principi di specificità ed autosufficienza e, quindi, anche indicando puntualmente l’atto da esaminare e sul quale compiere la verifica richiesta (tra le altre, Cass. pen., S.U., 28 novembre 2001, n. 42792; Cass. pen., 12 marzo 2002, n. 10373; Cass. pen., 27 luglio 2006, n. 26358; Cass. pen., 21 febbraio 2013, n. 8521; Cass. pen., 5 giugno 2017, n. 24979; Cass. pen., 18 dicembre 2020, n. 36612).
Con il sindacato sull’error in procedendo si amplia, dunque, il perimetro cognitivo della Cassazione – poiché non è alla motivazione del provvedimento del giudice di merito che esso si arresta, ma investe direttamente il “fatto processuale” (cioè, quel fatto interno al processo che ha determinato un certo effetto processuale), apprezzandone la portata, individuandone il significato e la concreta modalità di produrre gli effetti suoi propri -, trattandosi pur sempre, però, di una cognizione “sugli atti” e attivabile nei modi e termini dettati dalla stesse norme processuali.
Non dissimile, del resto, è la cognizione della Cassazione civile sugli errores in procedendo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), giacché investita del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, a prescindere dalla motivazione adottata dal giudice di merito, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito e, quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.
Tuttavia, assume particolare pregnanza la precisazione, operata dalle Sezioni Unite civili (Cass., S.U., 22 maggio 2012, n. 8077), per cui il vizio processuale denunciato si deve sostanziare “nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore”, con esclusione, pertanto, dei casi in cui “lo stesso legislatore abbia conferito al giudice di merito il potere di operare nel processo scelte discrezionali”.
Ciò che si riscontra in situazioni (come ad es.: disporre o meno una consulenza tecnica; valutare la rilevanza dei mezzi di prova richiesti dalla parte; valutare l’indispensabilità dei documenti prodotti per la prima volta in appello) “nelle quali la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa ed, in definitiva, della sostanza stessa della lite”.
Situazioni, dunque, che possono essere portate all’esame della Corte di cassazione “solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice del merito nel compierle”.
5.2. – Quanto alla denuncia del vizio di mancata assunzione di prova decisiva, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), occorre precisare che la “decisività” deve caratterizzare la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (tra le altre, Cass. pen., 12 marzo 2020, n. 9878).
Pertanto, la prova “decisiva”, che non è stata assunta in sede di giudizio di merito, deve avere ad oggetto un fatto certo nel suo accadimento e non può consistere in un mezzo di tipo dichiarativo, il cui risultato è destinato ad essere vagliato per effettuare un confronto con gli altri elementi di prova acquisiti al fine di prospettare l’ipotesi di un astratto quadro storico valutativo favorevole al ricorrente (Cass. pen., 25 febbraio 2014, n. 9069; Cass. pen., 5 settembre 2019, n. 37195).
5.3. – In riferimento, poi, alla denuncia del vizio di mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), giova anzitutto distinguere, in sintesi (e alla luce di orientamento consolidato), le tre forme nelle quali esso si può manifestare.
La mancanza di motivazione si risolve nell’assenza di argomentazioni necessarie al fine di rendere evidente l’intero iter logico seguito dal giudice di merito, sì da non consentirne una verifica, ovvero nell’omesso l’esame del punto, decisivo, sottoposto all’analisi del giudice (così già Cass. pen., 3 febbraio 1994, n. 4676).
Nel più generale concetto di assenza di motivazione e’, poi, ricondotto il vizio di motivazione apparente della sentenza, ravvisabile soltanto quando l’argomentazione sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di affermazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa. Si tratta dei casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata è soltanto fittizio e, perciò, sostanzialmente inesistente (Cass. pen., 26 ottobre 1990, n. 14194; Cass. pen., 1 giugno 1999, n. 6839; Cass. pen., 19 maggio 2010, n. 24862, Cass. pen., 5 marzo 2015, n. 9677).
Come evidenziato dalle Sezioni Unite civili (con la sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014) a fronte della nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., (non più calibrata sul vizio contemplante, anche, la “omessa motivazione”), la motivazione carente si pone al di sotto del c.d. “minimo costituzionale” e, pertanto, dà luogo ad una violazione di legge costituzionalmente rilevante. Rientrano in tale categoria la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, la “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, non assumendo, invece, rilevanza alcuna il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
La motivazione e’, invece, manifestamente illogica nel caso in cui vi sia una frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse, nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono.
E’ contraddittoria allorquando non siano conciliabili tra loro le considerazioni logico-giuridiche in ordine ad uno stesso fatto o ad un complesso di fatti o vi sia disarmonia tra la parte motiva e la parte dispositiva della sentenza, ovvero nella stessa si manifestino dubbi che non consentano di determinare quale delle due o più ipotesi formulate dal giudice – conducenti ad esiti diversi – siano state poste a base del suo convincimento (più di recente, Cass. pen., 17 maggio 2021, n. 19318).
I codificati vizi della motivazione devono cadere su aspetti essenziali, tali da imporre una diversa conclusione del processo, non potendo reputarsi ammissibili quelle censure che aggrediscono la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (più di recente, Cass. pen., 5 marzo 2021, n. 9106).
E’ quanto, del resto, hanno affermato queste Sezioni Unite civili in sede di giudizio disciplinare (tra le altre, Cass., S.U., 9 giugno 2017, n. 14430; Cass., S.U., 20 dicembre 2018, n. 33017) nell’escludere dal perimetro dello scrutinio del vizio motivazionale – da effettuarsi, per l’appunto, sotto la lente della citata lett. e) dell’art. 606 c.p.p., – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.
E, in tale prospettiva, si è ribadito che il ruolo della Corte non è quello di stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, ma è quello di “verificare se il giudice di merito abbia esaminato gli elementi e le deduzioni posti a sua disposizione e abbia fatto corretto uso di regole logiche, massime d’esperienza e criteri legali di valutazione, sì da offrire razionale spiegazione dell’opzione decisionale fatta rispetto alle diverse tesi difensive”.
Occorre, inoltre, precisare che, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. n. 46 del 2006, segnatamente, nella parte in cui mette in correlazione il vizio motivazionale non già con il “testo del provvedimento impugnato”, ma con “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” -, è denunciabile, con ricorso per cassazione, anche il vizio di c.d. “travisamento della prova”, il quale viene a risolversi nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nella omessa valutazione della prova esistente agli atti.
A tal fine, è necessario che la doglianza, oltre ad individuare l’atto processuale di riferimento e l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza, dia contezza delle ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (tra le altre, più di recente, Cass. pen., 18 dicembre 2020, n. 36512; Cass. pen., 19 marzo 2021, n. 10795).
Infine, giova rammentare che è irrilevante il vizio di (omessa o contraddittoria) motivazione su questione di diritto e non di fatto, giacché a tale difetto o incongruenza, là dove la soluzione adottata dal giudice di merito sia corretta sotto il profilo strettamente giuridico, può comunque porre rimedio, ai sensi dell’art. 619 c.p.p., la Corte di cassazione quale giudice di legittimità (tra le altre: Cass. pen., 13 aprile 1994, n. 4173; Cass. pen., 21 maggio 2015, n. 21029; Cass. pen., 19 ottobre 2018, n. 47842).
Tale principio rinviene ulteriore conferma nell’orientamento che, valorizzando in modo significativo il contraddittorio e la dialettica processuale che trovano concretezza nella facoltà riconosciuta all’imputato di presentare memorie difensive, circoscrive la nullità, ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), derivante dall’omesso e ingiustificato esame delle deduzioni difensive, a quelle che veicolano nel processo ragioni e circostanze di fatto (Cass. pen., 22 settembre 2010, n. 34244).
Analogo principio, a fronte della deduzione di un vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria, è stato enunciato dalle Sezioni civili di questa Corte (tra le tante: Cass., 3 aprile 1990, n. 2756; Cass., 22 aprile 1999, n. 3990; Cass., 10 gennaio 2004, n. 188, Cass., 18 febbraio 2005, n. 3388).
Il principio è stato, poi, esteso anche al vizio di omessa o apparente motivazione. In quest’ultimo caso viene dato ancor più risalto all’esercizio della funzione nomofilattica, affidata a questa Corte (R.D. n. 12 del 1941, art. 65), alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2), così da consentire, secondo una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., la correzione della motivazione anche a fronte di un error in procedendo, come quello della violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, enunciando le ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass., 27 dicembre 2013, n. 28663; Cass., S.U., 2 febbraio 2017, n. 2731).
Il primo motivo di ricorso.
6. – Con il primo mezzo è dedotta la “erronea applicazione della legge processuale per l’inosservanza delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice”, nonché la “contraddittorietà e… manifesta illogicità della motivazione della sentenza e dell’ordinanza n. 94 del 2020 depositata in udienza il 28 luglio 2020”, denunciandosi, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), la violazione dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 52 c.p.c., in relazione anche agli artt. 25,101 e 111 Cost., nonché degli artt. 6 e 8 CEDU (“quali norme costituzionali interposte”) “relativamente al rigetto dell’istanza di ricusazione avanzata dalla difesa dell’incolpato, previo invito all’astensione, nei confronti del Dott. D.P.; con sollevazione di pregiudiziale comunitaria ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea per violazione dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali della stessa Unione”.
6.1. – Il ricorrente premette di aver proposto rituale istanza di ricusazione, ai sensi degli artt. 51 e 52 c.p.c., sia “per avere il dottor D. manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie”, sia “per la necessità di sentire il consigliere D. quale teste a proprio discarico in relazione ad alcuni degli addebiti disciplinari contestati… con riguardo a circostanze delle quali lo stesso dottor D. era a conoscenza così come risultante dai verbali delle dichiarazioni rese dai dottori F.S. e A.E.” (allegati n. 1 e n. 2 al ricorso).
Quanto al primo profilo, la parte ricorrente deduce che la Sezione disciplinare, con l’ordinanza n. 94/2020, avrebbe, “apoditticamente e genericamente”, escluso che il dottor D. “abbia mai prestato consigli sull’oggetto del procedimento”, quale affermazione, tuttavia, che sarebbe “smentita dagli atti”, avendo lo stesso giudice disciplinare omesso di valutare i verbali delle dichiarazioni rese dai dottori F. e A., rispettivamente nelle date del 13 novembre 2019 e del 2 luglio 2020, “sia sotto il profilo della credibilità che della attendibilità di quanto affermato dai due magistrati all’epoca in servizio presso la Procura di Roma” e, segnatamente, quanto dichiarato dal Dott. F. circa il fatto di aver discusso con il Dott. D. sulle “divergenze di vedute” e sui “possibili conflitti di interesse”, all’interno della Procura della Repubblica di Roma, poi fatti oggetto dell’esposto presentato dal medesimo Dott. F. alla Prima Commissione del CSM; esposto al quale la sentenza impugnata ha ascritto particolare rilievo nel delibare la prima delle due contestazioni disciplinari elevate ad esso incolpato.
Inoltre, l’incompatibilità del Dott. D. a comporre il Collegio della Sezione disciplinare emergerebbe anche dalle dichiarazioni (allegato n. 3 al ricorso) rese dal consigliere A. alla Procura della Repubblica di Perugia in data 3 novembre del 2020, in contrasto con quelle dello stesso Dott. D. del 28 luglio e del 19 ottobre 2020 (queste ultime in allegato n. 4 al ricorso).
Da tali dichiarazioni si evincerebbe che quest’ultimo non solo era a conoscenza “della situazione conflittuale” all’interno della Procura di Roma e “delle ragioni per cui all’interno di quell’ufficio si discuteva anche del nominativo del Dott. V. come possibile Procuratore della Repubblica”, ma aveva anche condiviso con il consigliere A. “l’opportunità di “andare fino in fondo” e, cioè, non solo di esaminare con scrupolo ed obiettività l’esposto, ma anche di attivarsi in favore di un candidato che introducesse un elemento di discontinuità in un contesto che era stato descritto come monolitico”.
Ciò che troverebbe conferma allorquando, il 23 maggio 2019, il Dott. D. “si oppose con voto decisivo alla richiesta di svolgere le audizioni, votando contestualmente per il Dott. V.M.”.
Il ricorrente sostiene, quindi, che il consigliere D. abbia “”manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento” (almeno in parte qua) “fuori dell’esercizio delle sue funzioni””, dovendosi leggere i fatti innanzi evidenziati alla luce dei concetti di “oggetto del procedimento” e di “parere” siccome enucleati dalla giurisprudenza penale di legittimità in sede di interpretazione degli artt. 36 e 37 c.p.p., La prima espressione è più ampia di quella di “fatti oggetto dell’imputazione”. La nozione di parere si distingue, poi, da quella di “convincimento”, in quanto indica “un’opinione non preceduta necessariamente da un ragionamento fondato sulla conoscenza dei fatti o degli atti processuali”.
Quanto al secondo profilo, nel ricorso si contesta che il precedente giurisprudenziale (Cass., S.U., 6 luglio 2005, n. 14214) richiamato dall’ordinanza n. 94/2020 a sostegno della decisione assunta – per cui il combinato disposto degli artt. 51 e 52 c.p.c., trova applicazione “con riguardo al giudice che abbia già deposto nella causa come testimone ma non per colui che ipoteticamente possa essere successivamente chiamato” – possa avere rilievo dirimente.
Esso, infatti, sarebbe riferito alla testimonianza in procedimento diverso da quello disciplinare e senza che l’interessato fosse a conoscenza, “al momento di assumere la decisione come giudice”, di essere chiamato a deporre. Nel caso in esame, invece, viene in evidenza “chi, anche potenzialmente, può assumere la veste di testimone all’interno del procedimento nel quale deve svolgere il ruolo di giudice”. Pertanto, si deve ritenere sussistente l’obbligo di astensione (e, quindi, i presupposti per la ricusazione) allorquando il giudice porti “in Camera di Consiglio la sua scienza privata in ordine ai fatti che riguardano quel giudizio”.
Peraltro, soggiunge la difesa del ricorrente, l’indicazione del consigliere D. quale teste “non deriva in questo caso da una postuma ed opinabile strategia difensiva, quanto, piuttosto, dal tenore formale della contestazione”.
Infatti, ai fini dell’accertamento della verità (anche in relazione alla stessa gravità della condotta contestata in rapporto alla proporzionalità della massima sanzione irrogata), una volta individuati i “fatti dell'*****” come integranti “una grave scorrettezza, in quanto finalizzati ad interferire nella scelta consiliare relativa al Procuratore della Repubblica di Roma”, si sarebbe reso necessario operare un “decisivo approfondimento in ordine al livello di osmosi tra la riunione dell'*****” e la discussione in Quinta Commissione”, ossia appurare l’effettivo, o meno, “(presunto) inquinamento dell’attività consiliare” e, dunque, se il voto ivi espresso dai consiglieri nella seduta del 23 maggio 2019, “tra i quali c’era per l’appunto il Cons. D.”, fosse stato, o meno, condizionato ovvero espresso in piena autonomia dai consiglieri stessi.
6.2. – Sotto ulteriore profilo – e sulla premessa (ampiamente argomentata in base a riferimenti di dottrina e di giurisprudenza) della consistenza del diritto soggettivo della parte “ad un giudice imparziale”, tale da imporre una interpretazione in chiave estensiva delle ipotesi in cui sussiste, ex art. 51 c.p.c., l’obbligo di astensione e, segnatamente, per il caso (derivato dall’art. 323 c.p.) di magistrato che abbia un “interesse proprio, anche solamente di natura morale, nel procedimento” – il ricorrente assume, anzitutto, che il cons. D. sarebbe stato “giudice privo di “neutralità rispetto alla decisione”, proprio perché dotato di “maggiori informazioni”, rispetto agli altri componenti della Sezione disciplinare, sulla vicenda (o meglio, parte rilevante di essa) oggetto di decisione”, così da imporsi “l’obbligo di astensione” in quanto da interpretare “in chiave estensiva, superando il principio della tassatività” delle relative ipotesi.
Inoltre, è dedotta, più nello specifico, la violazione dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 1, per non aver la Sezione disciplinare apprezzato, ai fini della ricusazione del Dott. D., lo “specifico interesse che il magistrato nutriva per le sorti del procedimento disciplinare nei confronti dell’odierno ricorrente”, ossia quello di “far sì che l’interpretazione dei fatti e degli atti fosse conforme alla sua tesi, ovvero tendesse ad escludere un suo coinvolgimento, anche solo ipotetico, nella vicenda relativa alla predisposizione dell’esposto presentato dal Dott. F. nei confronti dei dottori P. e I.”.
6.3. – Il ricorrente ha, poi, dedotto – con il primo dei “motivi nuovi” – che la pubblicazione su organi di stampa (articoli di varie testate giornalistiche del 4 maggio 2021; documentazione allegata come “doc. 0” ai “motivi nuovi”) di “spezzoni di verbali… dell’avv. Amara che hanno alimentato la grave e sconcertante campagna mediatica sul Consiglio Superiore della Magistratura” – relativi alla vicenda della “consegna dei predetti verbali da parte del pubblico ministero Storari al cons. D.” – comproverebbe la violazione dell’obbligo di astensione dello stesso Dott. D..
Esso, infatti, a differenza degli altri componenti del Collegio della Sezione disciplinare, sarebbe stato “nel momento del giudizio nei confronti del Dott. P…. doppiamente a conoscenza di circostanze e fatti ulteriori, direttamente collegati a quelli oggetto dell’incolpazione ed in particolare a quelli inerenti l’esposto del Dott. F.”, che riguardava “la revoca del fascicolo a lui assegnato per diversità di vedute… con i vertici della Procura di Roma proprio sulle propalazioni accusatorie dell’avv. Amara”.
La conoscenza di “tali risvolti” da parte del Dott. D. – in quanto “direttamente collegati alla asserita scorrettezza nei confronti degli aspiranti alla Procura di Roma contestata al Dott. P. e direttamente ricollegata all’esposto F.” – avrebbe influito sul suo libero convincimento e, pertanto, avrebbe dovuto indurlo ad astenersi “per gravi ragioni di convenienza”, al fine di garantire l’imparzialità del giudizio e il buon andamento del processo.
7. – Il motivo, nel suo complesso (comprensivo delle doglianze veicolate con i “motivi nuovi”), non può trovare accoglimento, perché in parte inammissibile e in parte infondato.
7.1. – Occorre, anzitutto, rammentare il consolidato orientamento di questa Corte (tra le molte, Cass., S.U., 8 luglio 2009, n. 15969; Cass., S.U., 15 gennaio 2020, n. 741) che, nell’escludere l’impugnabilità delle ordinanze della Sezione disciplinare del C.S.M. che decidono sulle istanze di ricusazione con il ricorso per cassazione (essendo il sistema delle impugnazioni disciplinari delineato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24, tassativamente limitato alle sentenze e alle ordinanze cautelari), concentra la possibilità di far valere la nullità degli atti e delle decisioni assunte con la partecipazione del magistrato ritenuto incompatibile, per l’appunto, in sede di impugnazione della decisione definitiva.
7.2. – Venendo al primo profilo di doglianza (supra p. 6.1.), esso si incentra (come già il motivo di ricusazione originariamente prospettato) su una causa di astensione obbligatoria – e, dunque, di ricusazione – assunta dal paradigma di cui all’art. 36 c.p.p., comma 1, lett. c), quale disposizione che, tuttavia, in quanto dettata dal codice di procedura penale per il relativo giudizio, non è applicabile al procedimento di ricusazione in ambito di giudizio disciplinare concernenti i magistrati.
A tale riguardo, è orientamento consolidato che, in quest’ultimo ambito processuale, i richiami al codice di procedura penale contenuti nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 16, comma 2, e art. 18, comma 4, (rispettivamente concernenti l’attività di indagine e il dibattimento) devono intendersi soltanto nei limiti della compatibilità, per il resto dovendo applicarsi le disposizioni del codice di procedura civile, come quelle in tema di astensione e ricusazione dei giudici della Sezione disciplinare del C.S.M. (tra le altre, Cass., S.U., 26 novembre 2014, n. 25136; Cass., S.U., 4 settembre 2015, n. 17585; Cass., S.U., n. 741/2020 cit.; Cass., S.U., 22 settembre 2020, n. 19893; Cass., S.U., 29 aprile 2021 n. 11295).
Il principio anzidetto non è stato reputato in contrasto con la CEDU dalla sentenza della Corte di Strasburgo del 9 luglio 2013, Di Giovanni c. Italia, che si è limitata a ricordare l’applicabilità delle norme di rito penale al procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, “tra le quali le norme in materia di ricusazione”, ma pur sempre nei limiti della clausola di compatibilità.
Del resto, rimane nell’ambito di un ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa il conformare diversamente la disciplina degli stessi istituti (per l’appunto, quelli dell’astensione e della ricusazione) in relazione a processi differenti (quello penale e quello civile, quest’ultimo fondato sull’impulso paritario delle parti) allorché sia comunque assicurato – come lo è nella disciplina di entrambi i giudizi “quel “minimo” di garanzie ragionevolmente idonee allo scopo” che riguardano il presidio fondamentale (art. 111 Cost., e art. 6 CEDU) della terzietà e dell’imparzialità del giudice (tra le altre, Corte cost, sentenze n. 387 del 1999 e n. 78 del 2002; cfr. anche sentenza n. 193 del 2014).
Va osservato, comunque, che il motivo di ricusazione addotto in forza dell’anzidetta disposizione del codice di procedura penale è quello dell’avere il cons. D., componente del Collegio della Sezione disciplinare designato a decidere sulle incolpazioni elevate al Dott. P., “manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie”.
Invero, la stessa disposizione evocata (art. 36 c.p.p., comma 1, lett. c)) contempla, altresì, l’ipotesi, alternativa (legata a quella della manifestazione del “parere” dalla disgiuntiva “o”), dell’aver dato “consigli… sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie”.
E ciò induce a ritenere che la distinzione operata dal legislatore non sia del tutto pleonastica, esibendo il termine “consiglio”, rispetto a quello di “parere”, una proprietà semantica volta ad accentuare sia il rapporto personale nell’ambito del quale esso viene “dato” e, con esso, la direzione esortativa del suggerimento, diversamente dal “parere” che viene ad assumere una connotazione di più spiccata valenza tecnica.
Tuttavia, i termini utilizzati dalla norma dell’art. 36 c.p.p., comma 1, lett. c), nonostante le differenti tonalità che colorano i rispettivi significati, possono leggersi secondo una convergente direzione di senso, tale, quindi, da consentire la (ri)qualificazione della causa di ricusazione, in base alla prospettazione assunta dallo stesso ricusante con la propria istanza, in quella prevista dal combinato disposto dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 52 c.p.c., ossia l’avere il giudice “dato consiglio… nella causa”.
Proprio da quella prospettazione di parte occorre muovere, non potendo da essa prescindere il procedimento delineato dall’art. 52 c.p.c., comma 1, giacché si richiede – a pena di inammissibilità (come si evince dal successivo art. 54, comma 2, che tale sanzione processuale correla non solo al difetto di tempestività dell’istanza, ma anche al vizio delle “forme” del ricorso) – che il ricorrente deduca, nei termini di legge, “motivi specifici e mezzi di prova”.
Il ricorso, infatti, si deve fondare sull’allegazione di fatti e di circostanze concrete che integrino una delle puntuali ragioni di incapacità relativa del giudice tra quelle enucleate dall’art. 51 c.p.c., comma 1, (tra le altre, in motivazione: Cass., 20 ottobre 2006, n. 22540; Cass., S.U., 23 giugno 2015, n. 13021; Cass., 5 novembre 2015, n. 22647; Cass., 23 giugno 2017, n. 15753; Cass., S.U., 26 luglio 2017, n. 18398), di cui l’istante deve, quindi, fornire idonea dimostrazione, sebbene nell’ambito di un procedimento a carattere informale e connotato dall’esigenza di una rapida definizione “in consonanza con la tendenziale non complessità in fatto delle questioni in discussione (siccome individuabili sulla base dell’art. 51 c.p.c.), con la natura incidentale del procedimento e, soprattutto, col principio di ragionevole durata del processo” (Cass., S.U., 22 luglio 2014, n. 16628).
Ciò posto, l’ipotesi di ricusazione in esame – secondo una lettura capace, come sopra accennato, anche di valorizzare in modo convergente il tenore letterale delle disposizioni di cui all’art. 36 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, – mira ad evitare uno svolgimento disfunzionale del processo, poiché condotto da un giudice che si è già formato un’opinione sulla “causa”, tanto da averne già prefigurato alla parte (personalmente o per il tramite di altri) l’esito della stessa, non importa se in base ad un corredo di suggerimenti giuridici oppure limitandosi soltanto, come detto, ad una esortazione rispetto all’intrapresa dell’iniziativa giudiziaria o alla resistenza ad essa.
Il “consiglio”, rilevante ai fini dell’integrazione della ragione di ricusazione, deve, però, cadere necessariamente sulla materia oggetto di cognizione nella causa e presuppone una concreta e non generica conoscenza dei relativi fatti rilevanti, così da non potersi reputare tale quello che venga dato in base alla precognizione di generiche e astratte informazioni sulla controversia.
Coordinate, queste, che trovano corrispondenza, del resto, nello stesso orientamento espresso dalle sezioni penali di questa Corte – e dal ricorrente richiamato a sostegno – per cui “non può integrare il motivo di ricusazione dell’avere il giudice espresso, fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie, un parere sull’oggetto del procedimento, la formulazione di affermazioni del tutto generiche, prive di riferimenti anche superficiali al possibile esito del processo, ritenuto ineludibile, con specifico riguardo alle contestazioni ed agli imputati” (Cass. pen., 25 giugno 2013, n. 27813).
Così delineati i termini della fattispecie legale di riferimento, la riconduzione ad essa dei fatti emergenti ex actis – che, come detto, è giudizio complessivo che spetta direttamente a questa Corte per la natura, processuale, del vizio denunciato e, quindi, da scrutinare ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), (a prescindere dalla motivazione adottata dal Giudice disciplinare in sede di procedimento incidentale di ricusazione), anche sotto il profilo dell’error in iudicando de iure procedendi, che pur sempre integra una violazione di rito consente di reputare comunque corretta la decisione di rigetto dell’istanza (per non aver il Dott. D. “mai prestato consigli sull’oggetto del procedimento”) e, quindi, esente da vizi la sentenza definitiva.
Dalle stesse prove dedotte dal ricorrente in sede di procedimento di ricusazione (riportate in ricorso agli allegati n. 1 e n. 2: dichiarazioni del Dott. F. del 13 (recte: 6) novembre 2019 e del Dott. A. del 2 luglio 2020) emerge che l’interlocuzione del cons. D. con il Dott. F., avvenuta in occasione di un pranzo tenutosi a fine febbraio/primi di marzo 2019 presso un ristorante romano, cui prese parte anche il cons. A., si è esaurita nel far presente, allo stesso Dott. F., che le “divergenze di vedute” all’interno della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma e, in particolare “i possibili conflitti di interesse… tra il Procuratore ed alcuni indagati” – rappresentati dal medesimo Dott. F. e, poi, fatti oggetto dell’esposto presentato al C.S.M. – assumevano i connotati di una “vicenda di indubbia rilevanza e che meritava approfonditi accertamenti da parte del C.S.M.”.
Posto che, come detto, il “consiglio… nella causa” deve rivolgersi alla parte ed essere alimentato da una concreta base informativa per, poi, esprimersi sugli esiti della specifica controversia, sia pure senza assumere i caratteri di un responso dalla particolare valenza tecnica, va escluso che il “fatto” rappresentato nei documenti anzidetti possa essere sussunto in seno all’ipotesi di cui all’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4.
Nella specie, il colloquio del cons. D. è avvenuto con una persona che né all’epoca dei fatti, né successivamente ha rivestito la qualità di parte nel procedimento disciplinare.
Nell’ambito del medesimo colloquio, inoltre, il cons. D. fu soltanto destinatario del racconto del Dott. F. e le sue dichiarazioni, nella loro palese genericità, si collocano su un piano di mera acquisita conoscenza di una porzione soltanto di fatti, quelli oggetto dell’esposto del medesimo Dott. F., peraltro decontestualizzati dal tenore effettivo del capo di incolpazione (sub Y), ossia dalla strategia di discredito, programmata dal Dott. P., nei confronti, in particolare, del Dott. I..
Del resto, le stesse fonti informative neppure danno evidenza del grado di approfondimento di detta acquisita conoscenza da parte del cons. D., indugiando esse, piuttosto, su altri aspetti che hanno connotato la discussione conviviale, del tutto estranei alla vicenda disciplinare.
Infine, le dichiarazioni del medesimo cons. D. non si configurano in nessun caso come esternazione con la quale, in relazione a quanto conosciuto, vengono prefigurati possibili esiti (ma nemmeno sviluppi intermedi) del procedimento disciplinare a carico dello stesso incolpato.
7.3. – Ne’ giovano alle ragioni del ricorrente gli ulteriori documenti allegati al ricorso (distinti dal n. 3 e dal n. 4), in forza dei quali si intende corroborare quanto dedotto in ordine alla sussistenza del motivo di ricusazione.
Si tratta, oltre che delle già precisate dichiarazioni del 28 luglio 2020, delle dichiarazioni rese davanti all’Autorità giudiziaria sia dal cons. A., che dal cons. D. successivamente (rispettivamente il 3 novembre 2020 e il 19 ottobre 2020) alla definizione del procedimento di ricusazione e dello stesso giudizio disciplinare (la cui decisione è stata assunta nella camera di consiglio del 9 ottobre 2020).
Tali dichiarazioni, formatesi all’esterno del processo, costituiscono fatti storici sopravvenuti che, all’evidenza, non sono equiparabili allo jus superveniens (cfr. supra p. 4.1.) e che, in ogni caso, non danno immediata contezza della sussistenza di un vizio processuale del procedimento incidentale di ricusazione comportante la nullità della sentenza impugnata, in quanto da esse non risulta che il cons. D. abbia dato “consiglio… nella causa”.
Invero, le anzidette dichiarazioni – per quanto interessa in questa sede – costituiscono elementi (peraltro, sostanzialmente confermativi di quanto già emergente dalla documentazione versata nel procedimento incidentale di ricusazione) dei quali, anche per la loro natura dichiarativa, occorre apprezzare l’efficacia probatoria nel contesto delle emergenze istruttorie già raccolte dal giudice di quel procedimento incidentale, così da integrare gli estremi della “nuova prova” che – alla luce dei principi già enunciati (cfr. supra p. 4.1.) – non può trovare ingresso in sede di legittimità.
Ad analoghe conclusioni – anche a prescindere dalla assoluta genericità del richiamo operato a p. 8 del ricorso (dunque, in violazione del principio di autosufficienza: cfr. supra p. 5) – deve giungersi in riferimento alle dichiarazioni (anch’esse di tenore sostanzialmente sovrapponibile a quelle documentate in sede di procedimento di ricusazione) rilasciate dal cons. D. “all’udienza disciplinare del 28 luglio 2020”.
7.3.1. – In relazione, poi, alla documentazione allegata al primo dei “motivi nuovi” (doc. n. 0: articoli di varie testate giornalistiche del 4 maggio 2021) occorre considerare che essa è inammissibile ai sensi dell’art. 378 c.p.c., poiché è prodotta a supporto di “fatti ulteriori”, seppure “direttamente collegati a quelli oggetto di incolpazione”, ossia a quelli “inerenti all’esposto del Dott. F.” (p. 3 dei motivi nuovi), che non è consentito introdurre con la memoria illustrativa, tenuto conto dei principi illustrati al precedente p. 3.
In ogni caso, la suddetta documentazione è inammissibile anche ai sensi dell’art. 372 c.p.c., in quanto documentazione depositata nel corso del giudizio già pendente dinanzi a queste Sezioni Unite e costituente “nuova prova” alla stregua di quanto illustrato al precedente p. 4.1.
Va, comunque, sottolineata anche l’estrema genericità delle deduzioni di parte ricorrente, le quali, senza mettere in risalto fatti e circostanze puntuali emergenti dalla documentazione anzidetta, si limitano ad asserire, ancora una volta, la rilevanza di quei “fatti ulteriori”, non fornendo, però, una plausibile ragione di come l’asserita intima correlazione con i fatti “oggetto di incolpazione” trovi effettivo riscontro rispetto alla sostanza dell’addebito disciplinare sub Y.
Deve, infine, aggiungersi che il richiamo, presente ancora nel primo “motivo nuovo”, alle “gravi ragioni di convenienza” – che, secondo il ricorrente, emergerebbero dalla documentazione allegata (doc. n. O) riguarda l’ipotesi legale di astensione facoltativa e non obbligatoria, la quale, ai sensi dell’art. 52 c.p.c., comma 1, non può dar luogo a motivo di ricusazione. Sul principio di tassatività delle ipotesi di astensione obbligatoria e, quindi, di ricusazione ci si soffermerà nel prosieguo di motivazione (cfr. infra p. 7.4.).
7.4. – Quanto al secondo profilo di censura (supra p. 6.1.), occorre ricordare, anzitutto, che questa Corte ha più volte ribadito (tra le tante: Cass., 4 giugno 2008, n. 14807; Cass., 4 gennaio 2010, n. 20; Cass., 21 giugno 2011, n. 13603; Cass., S.U., 22 luglio 2014, n. 16627; Cass., 29 dicembre 2014, n. 27403; Cass., 11 settembre 2017, n. 21094; Cass., 28 gennaio 2019, n. 2270; Cass., 26 agosto 2020, n. 17803) che la disciplina dettata in tema di astensione e ricusazione dalle norme processuali di cui agli artt. 51 e 52 c.p.c. (cui si aggiunge quella dell’impugnazione della decisione nel caso di mancato accoglimento della ricusazione) non contrasta con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e 6 della CEDU e, tramite il novellato art. 111 Cost., che ha espressamente incluso tra i principi del giusto processo quelli dell’imparzialità e terzietà del giudice, ha ricevuto un ulteriore rafforzamento a livello costituzionale, in connessione proprio con l’espansione internazionale del diritto di difesa.
Ed e’, in particolare, nel raffronto con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che la giurisprudenza di questa Corte, sopra richiamata, ha inteso escludere una possibile frizione tra la regolamentazione nazionale e la norma convenzionale dell’art. 6. Giurisprudenza sovranazionale che – in linea di principio – distingue l’imparzialità “soggettiva” da quella “oggettiva”, ossia, rispettivamente, il profilo che ha riguardo al foro interiore del giudice (alle sue convinzioni personali) e il profilo (maggiormente venuto all’esame della stessa giurisprudenza della Corte EDU) che attiene all’esistenza di garanzie sufficienti perché il giudice possa fugare ogni legittimo dubbio di parzialità (tra le tante: sentenza 26 febbraio 1993, Padovani c. Italia; sentenza 10 giugno 1996, Thomann c. Svizzera; sentenza 6 maggio 2003, Kleyn e altri c. Olanda; sentenza 12 aprile 2007, Martelli c. Italia).
Dunque, il diritto soggettivo ad un giudice terzo e imparziale è azionabile in base alla disciplina dettata dal legislazione processuale, la quale – come più volte affermato dalla Corte costituzionale (sentenze n. 298 del 1993, n. 387 del 1999, n. 78 del 2015; ordinanze n. 359 del 1998, n. 123 del 1999) e da questa stessa Corte di cassazione (cfr. le pronunce sopra citate, nonché adde: Cass., 16 marzo 2019, n. 7541; Cass., 24 giugno 2019, n. 16890; Cass., 5 febbraio 2020, n. 2720; Cass., 15 settembre 2020, n. 19117) – è improntata ad ipotesi tassativamente tipizzate e, quindi, di stretta interpretazione, in forza di giustificazioni rilevanti sul piano costituzionale, poiché gli istituti della astensione e della ricusazione incidono, comunque, sulla funzione dello jus dicere (artt. 101 e 104 Cost.) e consentono la sottrazione di una controversia al giudice “naturale” (art. 25 Cost.).
Ne consegue, altresì, che – sempre in forza dell’orientamento espresso dalle pronunce poc’anzi citate (alle quali possono aggiungersi: Cass., 12 novembre 2009, n. 23930 e Cass., 31 marzo 2011, n. 7545) -, in difetto di ricusazione, la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del giudice non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa.
Dunque, nei casi di inosservanza dell’obbligo di astensione (fonte di responsabilità disciplinare), l’unico strumento azionabile dalle parti è la ricusazione, a meno che sia rimasto dimostrato un interesse proprio e diretto del magistrato all’esito della causa, che, perciò stesso, ne nega in radice la natura di giudice.
In ogni altra ipotesi, la violazione dell’obbligo di astensione assume rilievo solo quale motivo di ricusazione, rimanendo esclusa, in difetto della relativa istanza, qualsiasi incidenza sulla regolare costituzione dell’organo decidente e sulla validità della decisione, con la conseguenza che la mancata proposizione di detta istanza nei termini e con le modalità di legge preclude la possibilità di far valere tale vizio in sede di impugnazione, quale motivo di nullità del provvedimento.
7.5. – E’, dunque, in armonia con siffatta complessiva impostazione che queste Sezioni Unite – con la sentenza n. 14214 del 6 luglio 2005 – hanno enunciato anche il principio secondo cui l’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, prevede l’obbligo di astensione solo per colui che, nella stessa causa da giudicare, abbia già deposto come testimone.
Contrariamente a quanto opinato dal ricorrente, questo precedente giurisprudenziale è del tutto pertinente all’ipotesi in esame. Con esso, infatti, si afferma che l’obbligo di astensione “e’ posto a carico di colui che abbia già reso testimonianza nella stessa causa che egli è chiamato a giudicare, fatto che, essendo antecedente al giudizio, è da lui necessariamente conosciuto”.
Del resto, la lettera dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, (“aver deposto”) è univoca nel senso della testimonianza già resa e non si presta, di per sé, a dubbi interpretativi.
Il chiaro tenore letterale della disposizione non consente un’interpretazione estensiva volta ad ampliarne l’ambito applicativo al di là dell’ipotesi tassativamente prevista in forza dei criteri teleologico e/o sistematico. L’attività ermeneutica deve, infatti, arrestarsi dinanzi al limite di tolleranza ed elasticità dell’espressione linguistica in cui si risolve l’enunciato normativo (tra le molte: Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144; Cass., S.U., 25 marzo 2019, n. 8311; Cass., S.U., 14 gennaio 2020, n. 413; Cass., S.U., 28 gennaio 2021, n. 2061; Cass., S.U., 30 marzo 2021, n. 8776).
E, del resto, in termini del tutto analoghi, in riferimento alla praticabilità della c.d. interpretazione adeguatrice, la Corte costituzionale ha affermato che essa non può oltrepassare il confine dell’univoco tenore della disposizione impugnata” (tra le tante: sentenze n. 191 del 2014, n. 240 del 2016, n. 268 del 2017 e n. 270 del 2019).
Invero, l’anzidetta formulazione della disposizione di cui all’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, rinviene una propria giustificazione non affatto arbitraria e, anzi, armonica rispetto all’esigenza di tutelare anche interessi di rango costituzionale ulteriori rispetto a quello della terzietà del giudice, che, con la norma de qua, si intende salvaguardare attraverso il divieto di precognizione dei fatti di causa ottenuta privatamente.
Secondo quanto già evidenziato da queste Sezioni Unite (Cass., S.U., 22 settembre 2020, n. 19893; Cass., S.U., 29 aprile 2021, n. 11295), qualora si anticipasse l’incompatibilità tra l’ufficio di testimone e quello di giudice prevista dall’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, fin dalla mera indicazione come testi, si “provocherebbe un insolubile corto circuito per cui ogni parte di qualsiasi processo potrebbe potestativamente determinare ad libitum tale incompatibilità e paralizzare all’infinito il processo dal quale (e non nel quale) voglia difendersi, con conseguente violazione dell’art. 24 Cost., comma 1, e art. 111 Cost., comma 2”.
7.6. – Va, peraltro, osservato che esigenze di garanzia dei principi costituzionali appena ricordati – oltre che dei principi del “giudice naturale” (art. 25 Cost.), di indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale (artt. 101 e 104 Cost.), nonché di buon andamento dell’amministrazione della giustizia (art. 97 Cost.) – in qualche modo analoghe a quelle prese in considerazione dall’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, nella disposizione che qui interessa, sono state ritenute di specifico rilievo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 298 del 1993, in riferimento all’ipotesi di astensione obbligatoria di cui al n. 3 del citato art. 51 (pendenza di una causa tra il giudice adito e la parte od il suo difensore).
Nell’occasione, il Giudice delle leggi – chiamato a decidere sulla questione di costituzionalità dell’anzidetta norma, “nella parte in cui non prevede la possibilità di valutare la manifesta inammissibilità o la manifesta infondatezza della domanda proposta nei confronti di un giudice prima che sia operante per questo l’obbligo di astensione” – ha ritenuto che potesse tradursi in un vulnus degli anzidetti principi costituzionali il profilo, affatto particolare, “della causa manifestamente infondata” in quanto frutto di “una artificiosa preordinazione della pendenza della lite proprio al fine di predisporre un’ipotesi di automatica astensione (e quindi anche di possibile ricusazione) di un determinato giudice non gradito”.
Tuttavia, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la sollevata questione di costituzionalità, poiché l’ordinanza di rimessione aveva richiesto “una pronuncia additiva che non si presenta affatto a rime obbligate essendo plurime le ipotesi di disciplina del meccanismo di preventiva valutazione della causa manifestamente infondata, preordinata a precostituire un motivo di astensione o ricusazione del giudice”.
Orbene, con la formulazione della disposizione di cui al n. 4 dell’art. 51 c.p.c., (aver il giudice “deposto in essa (nella causa) come testimone”) il legislatore ha inteso evitare, evidentemente, un “rischio di strumentalizzazione” (così la citata sentenza n. 298 del 1993) di ancor più consistente concretezza rispetto all’ipotesi della artificiosa proposizione di una causa “manifestamente infondata” contro il giudice non gradito.
7.7. – In ogni caso, ove pure si ipotizzasse – in termini solo astratti – che il bilanciamento operato dalla norma del n. 4 dell’art. 51 c.p.c., ponesse in posizione recessiva il principio di terzietà e, quindi, il contemperamento rispettoso dei valori fondamentali implicati richiedesse una soluzione, equilibratrice, come quella a suo tempo prospettata nell’incidente di costituzionalità deciso dalla sentenza n. 298 del 1993, occorrerebbe, in vista di una eventuale (ipotetica) rimessione della questione alla Corte costituzionale – atteso che la giurisprudenza più recente della stessa Corte ha superato l’ostacolo preclusivo dell’esame nel merito rappresentato dalla prospettazione a “rime obbligate” (sentenze n. 236 del 2016, n. 179 del 2017, n. 222 del 2018, n. 152 e n. 252 del 2020, n. 48 del 2021) – scrutinare, anzitutto, la sussistenza della rilevanza della questione stessa.
Nella specie, la rilevanza è da escludere.
Quanto il ricorrente deduce sulla necessità di astensione, e quindi sulla ricusazione, del cons. D. – al fine anche di voler dissipare i dubbi su una indicazione del testimone dettata “da una postuma ed opinabile strategia difensiva, quanto, piuttosto, dal tenore formale della contestazione” (p. 11 del ricorso) -, attiene ai “fatti dell'*****”, siccome ritenuti interferenti sulla scelta consiliare del Procuratore della Repubblica di Roma e, quindi, sulla discussione svoltasi in Quinta Commissione del C.S.M. e sul voto ivi espresso, il 23 maggio 2019, dai relativi componenti, tra cui il cons. D..
Anche a voler prescindere dalla irrilevanza del tema di prova rispetto alla consistenza dell’illecito disciplinare contestato (non essendo necessario che la condotta integrante la grave scorrettezza si traduca in un evento pregiudizievole; dunque, nella specie, nell’effettivo condizionamento del voto espresso in sede consiliare) è assorbente rilevare che si tratta, però, di fatti che non sono stati posti a base della ragione di ricusazione a suo tempo fatta valere con le istanze (di identico tenore, sia dell’incolpato, che del suo difensore, datate 17 luglio 2020; istanze presenti in atti e conoscibili per la natura, processuale, del vizio dedotto con il motivo in esame) di invito alla astensione e di ricorso alla ricusazione del cons. D..
Dette istanze – dopo aver tratteggiato i contenuti delle dichiarazioni rese dai dottori F. e A. (le stesse di cui ai documenti allegati al ricorso n. 1 e n. 2) – rappresentavano che “(p)roprio tali risultanze probatorie” (id est: dette dichiarazioni) avevano “indotto… a richiedere” alla Sezione disciplinare del CSM, ai sensi dell’art. 468 c.p.p., “l’autorizzazione alla citazione – quale teste a discarico dell’incolpato – del Cons. D…., costituendo le circostanze suddette fatti idonei a dimostrare l’infondatezza degli addebiti, in particolare, di cui al capo 1) lett. Y nn. 1), 2), 3) e 4)”.
Con il ricorso, dunque, si allegano, per la prima volta dinanzi a queste Sezioni Unite, fatti del tutto diversi da quelli dedotti a sostegno della ragione di astensione/ricusazione a suo tempo fatta valere e che, invece, avrebbero dovuto (e potuto) essere, nei modi e termini imposti dall’art. 52 c.p.c., prospettati, e provati, dinanzi al giudice del procedimento incidentale di ricusazione.
Sicché, un siffatto profilo di censura è palesemente inammissibile alla luce dei principi di diritto sopra ricordati (p. 7.4.), non potendo dedursi unicamente in sede di impugnazione la violazione dell’obbligo di astensione per ragioni non allegate con l’istanza di ricusazione. In quanto tale, esso è insuscettibile di determinare la nullità della sentenza impugnata in questa sede, con la conseguenza che non troverebbe applicazione, a vantaggio dello stesso ricorrente, la norma così come, in via di mera ipotesi, potrebbe essere modulata all’esito dell'(eventuale) intervento additivo del Giudice delle leggi.
Ciò, peraltro, senza considerare, come innanzi rilevato (cfr. supra p. 7.2.), anche la estrema genericità della asserita precognizione privata del Dott. D. proprio sui fatti che avrebbero dovuto – in base alle istanze di astensione/ricusazione anzidette – dare luogo alla assunzione della sua deposizione testimoniale, avente ad oggetto soltanto talune circostanze decontestualizzate dal tenore effettivo del capo di incolpazione sub Y (dal n. 1 al n. 4), ossia dalla strategia di discredito nei confronti, in particolare, del Dott. I. programmata dal Dott. P..
Le considerazioni sopra svolte (supra p.p. da 7.4. a 7.7.), in punto di compatibilità costituzionale della norma sulla astensione obbligatoria (e, quindi, sulla ricusabilità) del giudice per “aver deposto in essa (nella causa) come testimone” e, comunque, di irrilevanza di un’eventuale ed ipotetica proposizione di incidente di costituzionalità riguardante la medesima norma sotto il profilo da ultimo illustrato, consentono sin d’ora di non dare seguito alla sollecitazione del ricorrente (avanzata a conclusione del ricorso: p. 85) di rimettere al Giudice delle leggi la questione di costituzionalità (anche) dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 52 c.p.c., per aver il Giudice disciplinare “consentito ad uno stesso soggetto indicato come testimone (il Dott. D.P.) di mantenere il proprio ruolo di giudice dell’incolpato, con evidenti conseguenze sulla terzietà ed imparzialità del Primo nel giudicare il Secondo”.
7.8. – Quanto, infine, al terzo profilo di doglianza (supra p. 6.2.), esso è infondato, anzitutto, là dove pone come sua indefettibile premessa il ripudio del principio di tassatività delle cause di astensione obbligatoria e, dunque, di ricusazione, che – come detto (supra p. 7.4.) – queste Sezioni Unite hanno affermato e ribadito in numerose occasioni.
Questo principio, del resto, trova piena riaffermazione anche in ambito di giudizio penale, ove si è affermato che “i motivi di astensione obbligatoria generale (e, conseguentemente, di ricusazione) sono tassativamente indicati dall’art. 36 c.p.p., ed in quanto determinanti una deroga al principio del giudice naturale, vanno necessariamente considerati di stretta interpretazione” (Cass. pen. 27813/2013, citata).
Non rinviene, dunque, alcuna collocazione puntuale nell’ambito delle ipotesi tipizzate dal legislatore e, tantomeno, in quella di cui all’art. 51 c.p.c., n. 4, (cioè, il giudice che “ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico”), il generico riferimento al caso del giudice “dotato di maggiori informazioni” sulla vicenda oggetto di decisione (p. 14 del ricorso).
7.9. – Ciò premesso, il ricorrente evoca, altresì, come specifica ragione di ricusazione del cons. D., rinteresse proprio, anche di natura morale, nel procedimento” del componente della Sezione disciplinare del CSM (p. 17 del ricorso), richiamando a tal fine anche la giurisprudenza di questa Corte che è giunta ad individuare una determinata e ulteriore causa di astensione obbligatoria rilevante proprio in materia di illeciti disciplinari dei magistrati (segnatamente, cfr. Cass., S.U., 13 novembre 2012, n. 19704; orientamento esteso anche al di fuori di detta materia da Cass., 13 gennaio 2021, n. 457).
A tal riguardo si è affermato che l’inosservanza, consapevole, dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge, punito disciplinarmente a norma del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c), non è limitato alle sole ipotesi previste dall’art. 51 c.p.c., comma 1, e dagli artt. 36 e 37 c.p.p., ma è configurabile in tutti i casi nei quali sia ravvisabile un interesse proprio del magistrato o di un suo prossimo congiunto. Ciò in quanto l’art. 323 c.p., fonda un dovere generale di astenersi, ove sussista un conflitto, anche solo potenziale, di interessi, che possono essere anche non patrimoniali, in quanto la previsione costituisce modalità di attuazione del principio di imparzialità, cui deve ispirarsi tutta l’attività dei pubblici ufficiali a norma dell’art. 97 Cost., ed il richiamo della disposizione ai requisiti della patrimonialità e dell’ingiustizia del danno attiene non all’interesse, ma all’evento del reato.
Ne consegue – secondo l’indirizzo giurisprudenziale sopra ricordato – che, con riferimento al giudice civile, la facoltà di astenersi per gravi ragioni di convenienza deve ritenersi abrogata per incompatibilità e sostituita dal corrispondente obbligo, in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto. La diversa soluzione esporrebbe la norma di cui all’art. 51 c.p.c., comma 2, al dubbio di costituzionalità, per disparità di trattamento rispetto al giudice penale, su cui incombe l’obbligo di astenersi ai sensi dell’art. 36 c.p.p., comma 1, lett. h), e a tutti i dipendenti della pubblica amministrazione, gravati di identico dovere per effetto del D.M. n. 28 novembre 2000, art. 6.
In tale ottica, però, è proprio la stessa prospettazione estensiva del ricorrente che, anche in questo caso, in forza dei principi di diritto rammentati al precedente p. 7.4, rende la doglianza palesemente inammissibile. Con essa, infatti, si deduce, per la prima volta soltanto in sede di impugnazione dinanzi a queste Sezioni Unite, la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del cons. D. come motivo di nullità della sentenza da lui emessa nel giudizio disciplinare fondata su una ragione di ricusazione – l’interesse del giudice nel procedimento, pur se non di interesse diretto e proprio, tale da porlo nella qualità di parte del procedimento stesso (ipotesi che neppure viene adombrata dal ricorrente), ai sensi dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 1, – che non era stata fatta valere, con l’originario ricorso, “nelle forme e nei termini fissati dall’art. 52 c.p.c.”, ossia, come già detto, tramite la tempestiva allegazione dei fatti integranti una specifica causa tra quelle previste dall’art. 51 c.p.c., comma 1.
Con il ricorso a suo tempo proposto l’istante aveva, infatti, dedotto unicamente due specifiche ragioni di ricusazione del cons. D., entrambe riconducibili (indirettamente e direttamente) all’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, ossia quella di aver dato “consiglio… nella causa” e di aver “deposto in essa come testimone”.
7.10. – Il ricorrente, sempre nella parte conclusiva del ricorso (pp. 83-85), ha chiesto che, oltre all’eccezione di legittimità costituzionale (già scrutinata nella parte di interesse dell’articolato primo motivo di ricorso in esame), sia proposta anche “(d)omanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea delle disposizioni contenute nell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 52 c.p.c., nonché nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e), art. 12, comma 5, artt. 20 e 22, come interpretate dalle ordinanze e dalla sentenza” impugnate.
Secondo il ricorrente, sussisterebbe la violazione dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), che, pur basandosi sulle previsioni dell’art. 13 CEDU, “ne estende la tutela fino a garantire all’incolpato il diritto ad un ricorso effettivo di fronte al giudice designato”, essendo “dimostrato come almeno uno dei componenti il collegio giudicante che ha irrogato al dottor P. la sanzione della rimozione mancasse completamente dei requisiti di terzietà che ciascun giudice deve possedere al fine di non porre nel nulla il principio di effettività della tutela giurisdizionale”, con ciò privando l’incolpato “di essere giudicato all’interno di un processo che avesse effettivamente le caratteristiche di un evento giudiziario”, come delineato dalla giurisprudenza della Corte EDU (Corte EDU, 28 novembre 2002, Lavents c. Lituania)”.
Viene proposto, quindi, il seguente quesito da sottoporre, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, alla Corte di Giustizia UE: “se possa essere considerato terzo ed imparziale un collegio giudicante del quale faccia parte almeno un giudice che – al di fuori e prima del compiersi del relativo dibattimento – abbia espresso la propria opinione non favorevole nei confronti di un incolpato e ne abbia preventivamente censurato i comportamenti sui quali è stato successivamente chiamato ad esercitare funzioni giurisdizionali”.
La difesa del ricorrente sostiene che la domanda di rinvio pregiudiziale sia “non manifestamente infondata” – per la ritenuta evidente incompatibilità tra il principio di imparzialità del giudice e l’aver questi espresso opinioni prima e al di fuori del processo sulla colpevolezza del soggetto al quale l’illecito è stato addebitato -, nonché “rilevante” al fine di stabilire se la sanzione della rimozione sia stata irrogata in un processo “giusto ed equo”.
Non può darsi seguito alla proposta domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE, in quanto essa e’, anzitutto, irrilevante nel presente giudizio.
Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, sebbene obbligatorio per i giudizi di ultima istanza, presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale ed alle norme interne che lo disciplinano (Cass., S.U., 2 aprile 2007, n. 8095; Cass., S.U., 10 settembre 2013, n. 20701; Cass., S.U., 7 giugno 2018, n. 14828; Cass., S.U., 16 aprile 2021, n. 10107).
Dunque, la “rilevanza della questione pregiudiziale” viene a configurarsi come influenza sul giudizio a quo, assumendo la veste di rimedio giuridico che non è esperibile automaticamente a sola richiesta delle parti, spettando unicamente al giudice stabilirne la necessità.
In tal senso, l’indirizzo consolidato della giurisprudenza di questa Corte mutua i propri contenuti dai principi enunciati dalla stessa Corte di Giustizia, che, da sempre, ha affermato che la ratio del rinvio pregiudiziale non consiste nell’esprimere pareri consultivi su questioni generiche o ipotetiche, ma risponde all’esigenza di dirimere concretamente una controversia (CGUE, 16 dicembre 1981, Fin C244/80; CGUE, 12 giugno 2008, in C-458/06; CGUE, 28 marzo 2017, in C-72/15; CGUE, 10 dicembre 2018, in C-621/18).
Sicché, non trova ingresso il giudizio su questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, ove sia evidente che l’interpretazione richiesta non ha rapporto con l’effettività o con l’oggetto del giudizio principale.
E proprio a tal fine, posto che “la domanda di pronuncia pregiudiziale funge da fondamento per il procedimento dinanzi alla stessa Corte”, si rende “indispensabile che in tale domanda il giudice nazionale chiarisca, in particolare, il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale” (CGUE, 28 maggio 2020, in C-17/20, la quale richiama, segnatamente, l’art. 94, del regolamento di procedura della Corte di giustizia – rubricato “Contenuto della domanda di pronuncia pregiudiziale” – che richiede, tra l’altro, “un’illustrazione sommaria dell’oggetto della controversia nonché dei fatti rilevanti, quali accertati dal giudice del rinvio o, quanto meno, un’illustrazione delle circostanze di fatto sulle quali si basano le questioni”).
Ciò posto, va osservato che è risultata esclusa, in forza di quanto evidenziato in sede di scrutinio delle ragioni di censura mosse alla sentenza impugnata con il primo motivo di ricorso, la premessa di fatto su cui si fonda la richiesta di rinvio pregiudiziale, ossia che il ricusato cons. D. abbia espresso la propria opinione non favorevole sull’incolpato, censurandone i comportamenti.
Nessuna influenza sul presente giudizio, incidentale, potrebbe, dunque, avere la decisione interpretativa della Corte di giustizia, che rimarrebbe risposta solo ipotetica, ma senza effetti concreti sulla controversia disciplinare e, dunque, priva della necessaria rilevanza rispetto al thema decidendum.
E tanto si pone come preliminare, e già assorbente, ostacolo a dare seguito al sollecitato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, che, in ogni caso, sarebbe impedito anche in ragione dell’ulteriore rilievo, evidenziato pure nelle conclusioni scritte del procuratore generale, della mancata individuazione, da parte del ricorrente, di un criterio di collegamento (ad es., controversia avente ad oggetto norme di attuazione del diritto dell’Unione Europea ovvero norme incidenti indirettamente sull’efficacia del medesimo diritto sovranazionale) tra la fattispecie regolata dal diritto interno – ossia la disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari e del relativo procedimento giurisdizionale, di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006 – e il diritto dell’Unione Europea.
La carenza di un criterio di collegamento non consente di richiedere l’intervento interpretativo della Corte di Lussemburgo evocando a sostegno l’art. 47 CDFUE, giacché, ai sensi dell’art. 6, par. 1, TUE e art. 51, par. 2, CDFUE, l’efficacia delle disposizioni della stessa Carta e, quindi, dei diritti fondamentali da essa contemplati rimane pur sempre all’interno del perimetro applicativo del diritto dell’Unione (tra le altre: CGUE, 15 novembre 2011, in C-256/11; CGUE, 6 marzo 2014, causa C-206/13; CGUE, Grande Camera, 19 novembre 2019, in cause riunite C-585/18, C-624/18 e C-625/18; CGUE, 4 giugno 2020, n. C-32/20; Corte Cost., sentenze n. 63 del 2016, n. 194 del 2018, n. 254 del 2020 e n. 30 del 2021; Cass., S.U., 20 giugno 2020, n. 10130; Cass. pen., 17 ottobre 2014, n. 43453; Cass., 4 febbraio 2020, n. 2467). Il precedente richiamato in ricorso (CGUE, 1 luglio 2008, in cause riunite C-341/06 e C-342/06) non risulta, invece, pertinente, in quanto riguarda una controversia nei confronti della Commissione dell’Unione Europea.
Il secondo motivo di ricorso.
8. – Con il secondo mezzo è prospettata la “erronea applicazione della legge processuale per l’inosservanza delle disposizioni concernenti l’utilizzabilità delle intercettazioni compiute attraverso captatore informatico (c.d. trojan horse)”, nonché la “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza e dell’ordinanza depositata in udienza il 2 ottobre 2020”, lamentandosi, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma, 1, lett. c) ed e), la violazione degli artt. 191,268 e 270 c.p.p., in relazione anche agli artt. 15,24,68 e 111 Cost., “relativamente al divieto di utilizzazione delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge ed in particolare dei colloqui avvenuti con i parlamentari”.
8.1. – Sotto un primo profilo, la difesa del ricorrente deduce la “omessa motivazione sul decreto autorizzativo del Gip di Perugia del 27 (recte: 22) marzo 2019 (allegato n. 5 al ricorso) e, in ogni caso, l’illegittimità della (diversa) motivazione adottata”.
In particolare, si sostiene che l’ordinanza del 2 ottobre 2020, così come poi la sentenza impugnata, non avrebbero tenuto conto della questione, sollevata dalla difesa, relativamente al contenuto motivazionale dell’anzidetto decreto autorizzativo, là dove – con ampie argomentazioni in tema di successione di leggi nel tempo e anche alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata in forza dell’art. 15 Cost., volto a tutelare la libertà e la segretezza delle comunicazioni quale “valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente” (Corte Cost., sent. n. 366 del 1991) -, si dava conto delle ragioni (che sono ribadite con il ricorso) per cui la disciplina della L. 9 gennaio 2019, n. 3, non poteva applicarsi alla vicenda del Dott. P., ossia alle intercettazioni con “Trojan” da disporre tra il 31 gennaio 2019 e il 1 settembre 2020 (e, quindi, alla data del 22 marzo 2019).
In particolare, non sarebbe stato applicabile l’art. 1, comma 4, lett. a), che ha esteso ai più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione l’ambito dell’art. 266 c.p.p., comma 2 bis, e cioè della norma che già consentiva “sempre” l’intercettazione con captatore informatico per i reati di cui all’art. 51 c.p.p., commi 3 bis e 3 quater, essendo detta disciplina divenuta operativa solamente con l’effettiva entrata in vigore dell’art. 266 c.p.p., comma 2 bis, introdotto dal D.Lgs. n. 216 del 2017, art. 4. Dunque, a seguito di più differimenti di efficacia del citato art. 4, non prima della citata data del 1 settembre e, pertanto, “ben dopo il provvedimento che ha autorizzato il ricorso al trojan horse anche nei confronti del Dott. P.”.
8.2. – Sotto un secondo profilo è dedotta la “contraddittoria motivazione sulla mancata indicazione della programmazione delle registrazioni”, che, peraltro si assumono concordate con il PM unicamente in base alle dichiarazioni “meramente assertive” e prive di riscontro del teste D.B..
Il ricorrente lamenta che si paleserebbe “assolutamente contraddittorio” l’assunto, fatto proprio dalla Sezione disciplinare richiamando a sostegno l’orientamento ascritto alla citata Cass. pen. 38009/2019 (peraltro, nel diverso caso delle intercettazioni della messaggistica con i dispositivi Blackberry), per cui con il termine “modalità” il legislatore abbia inteso riferirsi non già alle operazioni tecnico-manuali, bensì “alla scelta del tipo tra quelli previsti dalla norma regolatrice, alla individuazione del soggetto passivo e dell’ambiente ove il procedimento dovrà svolgersi”.
Infatti, il precedente giurisprudenziale citato richiederebbe un provvedimento autorizzatorio del giudice allorquando – come nella specie, venendo in rilievo colloqui con parlamentari e luoghi di privata dimora – si tratta di individuare il soggetto passivo e l’ambiente. Di tanto darebbe, poi, conferma il fatto che, solo dopo l’incontro del 9 maggio presso l'*****, il pubblico ministero di Perugia, “con provvedimento del 10 maggio 2019, intimava alla PG operante di “sprogrammare” le registrazioni laddove fossero presenti parlamentari”.
8.3. – Sotto un terzo profilo si denuncia la “omessa e manifestamente illogica motivazione della sentenza sulla insussistenza delle ragioni di urgenza nel provvedimento del Gip (recte: PM) di Perugia del 27 marzo 2019”.
La difesa del ricorrente sostiene che la sentenza impugnata (nel soffermarsi unicamente sulla “problematica” – “mai messa in discussione della difesa” – “della legittimità delle operazioni di intercettazione presso altro impianto, diverso da quello della Procura della Repubblica”) non abbia affatto preso posizione – e, dunque, sia viziata per omessa motivazione – sulle questioni relative “alla tematica della inutilizzabilità delle intercettazioni per la insussistenza delle ragioni di urgenza”, che “il provvedimento del PM di Perugia del 27 marzo 2019” aveva addotto, “per giustificare la possibilità di utilizzare gli impianti esistenti presso la Procura di Roma, anziché quelli in loco”, “sul presupposto “della riscontrata cautela utilizzata da almeno alcuni fra i soggetti controllati nel circolare e nell’incontrarsi””.
Tali questioni erano state poste all’attenzione del Collegio con memoria difensiva del 15 settembre 2020 (allegato n. 6 al ricorso), come, del resto, confermato dalle domande rivolte sul punto al teste M. dal componente del Collegio stesso, cons. D..
Con la stessa memoria si era diffusamente argomentato che “le uniche ragioni di urgenza… erano dettate dalla necessità di monitorare le discussioni sulle future nomine di uffici direttivi tra il Dott. P. e l’on. F. (già entrato nel perimetro delle indagini e tuttavia non iscritto) e non l’ipotizzato reato di cui all’art. 319 c.p. tra lo stesso Dott. P. da una parte ed A., C. e L.” dall’altra (per il quale veniva successivamente disposto lo stralcio e richiesta l’archiviazione: allegato 7 al ricorso), con conseguente inutilizzabilità dei risultati delle operazioni di intercettazione per violazione del disposto di cui agli artt. 268 e 271 c.p.p., “a causa della indebita utilizzazione di impianti esterni alla Procura di Perugia”.
Inoltre, la sentenza impugnata sarebbe anche viziata per manifesta illogicità della motivazione là dove ha reputato “valida ragione di urgenza” del provvedimento dell’Autorità giudiziaria di Perugia la “”riscontrata cautela utilizzata da almeno alcuni fra i soggetti controllati” (vale a dire, il Dott. P. e quanti, diversi dall’on. F., rientravano secondo la Sezione nel “perimetro dell’indagine” condotta) “nel circolare e nell’incontrarsi””, così da legittimare la allocazione, presso i locali della Procura della Repubblica di Roma, delle operazioni di intercettazioni al fine di dar luogo alla “immediata predisposizione di servizi di pedinamento”, ovvero alla “effettuazione di ogni altro atto d’indagine urgente, sulla base delle “emergenze” che fossero state, per l’appunto, ricavate dalla captazione delle loro conversazioni”.
Tuttavia, ad avviso del ricorrente, tali ragioni di urgenza sarebbero smentite dalle deposizioni testimoniali acquisite in atti e, segnatamente, dall’esame del teste M. il quale ha riferito che l’ascolto delle conversazioni captate non era “possibile effettuarlo in diretta”, essendo “quindi l’ascolto… posticipato”.
Donde, la dedotta manifesta illogicità della motivazione sul punto.
8.4. – E’ poi prospettata – come quarto, articolato, profilo di denuncia – la “violazione di legge e la contraddittorietà e omessa motivazione in merito alla inutilizzabilità delle intercettazioni a causa della illecita captazione delle conversazioni presso l'***** (RIT 175/19 sessione 7 del 9 maggio 2019) sotto il profilo della avvenuta violazione dell’art. 68 Cost.”, nonché la “errata applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, e comunque l’assenza di motivazione, in relazione al profilo della verifica della “direzione degli atti d’indagine” che coinvolsero l’on. F.C.”.
Si sostiene, in primo luogo, che la motivazione della sentenza impugnata – là dove si dà conto che, in base alle acquisizioni in atti (verbale di trascrizione; deposizioni dei testi D.B. e D.P.), “l’ascolto” della intercettazione della conversazione telefonica dell’8 maggio 2019, precedente di alcune ore l’incontro poi captato con l’on. F., pur preventivamente acquisita dagli investigatori, “e’ avvenuto soltanto dopo (a mezza mattinata del giorno successivo) che l’incontro, e la relativa captazione informatica, erano avvenuti” – sarebbe smentita da altre acquisizioni documentali e dagli accertamenti difensivi.
In tal senso il ricorrente assume che dal progressivo n. 187 del 7 maggio 2019 ore 23:19 RIT 175/19, trojan-sessione 5 (esistente “agli atti”: p. 32 ricorso), classificato come “molto importante” (allegato n. 8 al ricorso), relativo a conversazione tra il Dott. P. ed il Dott. S. nella quale si faceva riferimento a ” L.” e a ” C.”, sarebbe risultata – a seguito di accertamenti tecnici difensivi, consistiti in estrazione di informazioni da “file di log” (allegato 9 al ricorso: relazione Dott. M. del 28 gennaio 2021) – “ascoltata dalla Guardia di Finanza, nella persona del M.llo G., alle 18:42 dell’8 maggio 2019 e, quindi, 5 ore e 25 minuti prima dell’incontro all'*****, iniziato il 9 maggio 2019 alle ore 00:07:29”.
Tali “nuove emergenze difensive” verrebbero a smentire, in particolare, l’informativa del 17 maggio 2019 n. 235503/2019, “dove, in relazione a quanto disposto dal P.M. di Perugia con provvedimento del 10 maggio 2019” (allegato 10 al ricorso), “non è in alcun modo menzionata l’indicata conversazione del 7 maggio, 23:19”. Con l’ulteriore conseguenza che, all’udienza disciplinare del 23 settembre 2020, la difesa dell’incolpato, non essendo nella disponibilità del dato del previo ascolto (alle 18:42 dell’8 maggio 2019), successivamente acquisito, nessuna domanda sulla predetta conversazione del 7 maggio 2019 ha potuto porre al teste D.B..
Inoltre, la parte ricorrente soggiunge che, come risulta da una relazione del 25 luglio 2019 della società ***** (fornitrice del captatore informatico trojan), l’8 maggio 2019 il M.llo D., della Guardia di Finanza, provvedeva a “reiterate modifiche della programmazione della registrazione”, con ciò, da un lato, confermando quanto dichiarato dal teste D.B. sulla possibilità di modificare la programmazione della registrazione solo prima del suo inizio e, dall’altro, rendendo evidente che nessuna indagine veniva svolta, sia in sede penale che in sede disciplinare, su “questa intensa attività di riprogrammazione nell’arco di poche ore” e sulla “mancata riprogrammazione dopo le 18:42, ovvero all’esito dell’ascolto della conversazione in cui veniva programmato con ” C.” ( F.) e ” L.” ( L.) l’incontro presso l'*****”.
Dalla stessa relazione della ***** emergerebbe, altresì, che il software trojan consente non solo la riprogrammazione, ma anche “la immediata interruzione della registrazione in corso, adoperando le funzionalità (o comandi) “Remove” o “Replace To””.
Ne consegue, ad avviso della difesa del ricorrente, che la stessa sentenza delle Sezioni Unite del 15 gennaio 2020, n. 741 avrebbe pronunciato “sulla base di presupposti di fatto erronei, indotti dalla nota della G.d.F. del 17.5.2019”, giacché, essendo stata la conversazione del 7 maggio 2019, alle 23:19, “smarcata e ascoltata” l’8 maggio 2019 alle ore 18:42, oltre cinque ore prima della riunione notturna, ben poteva essere riprogrammato il trojan in modo tale da evitare di intercettare le conversazioni del parlamentare. Non essendo stato fatto ciò, risulterebbe palese la violazione dell’art. 68 Cost., e della L. n. 140 del 2003, art. 4.
La parte ricorrente deduce ulteriormente – sulla premessa, ampiamente argomentata, della necessità di una verifica “particolarmente stringente”, da parte dell’autorità giudiziaria, “sul carattere (realmente) “casuale” dell’intercettazione di un deputato o un senatore” – che la motivazione della sentenza impugnata è viziata per “l’elusione del “thema probandum” posto dalla difesa del Dott. P. sulla base delle risultanze (allora) in suo possesso” (memoria del 15 settembre 2020), nonché per “la carenza di “specifici momenti esplicativi”, in relazione alle censure da essa sollevate circa il “carattere non fortuito delle conversazioni captate””.
Nel ricorso si evidenzia che, in sede disciplinare, l’incolpato ha posto in evidenza che l’on. F.C., deputato, “fosse entrato “nel perimetro delle indagini” molto tempo prima della captazione del 9 maggio 2019", in tal senso mettendo in luce, tra gli altri elementi, la circostanza “(p)articolarmente significativa” tratta dalla richiesta di autorizzazione alle attività di captazione telematica mediante “trojan horse” avanzata dalla Procura di Perugia il 22 marzo 2019 (analoga ad altre richieste del 21 febbraio 2019), nella quale, dalle dichiarazioni dell’avv. C., emergeva “che i riferimenti di A. al CSM erano P. e F.” e che l’on. F. sarebbe stato per l’avv. A. “un riferimento non solo abituale ma addirittura diretto”.
Queste dichiarazioni, sebbene “successivamente smentite dai fatti”, sono state recepite dal G.I.P. di Perugia nel provvedimento del 27 marzo 2019 e, dunque, reputate attendibili ai fini della concessione della anzidetta autorizzazione.
Inoltre, l’assenza di casualità delle intercettazioni indirette nei confronti dell’on. F. emergerebbe anche sotto un profilo “temporale”, ossia dalle numerosissime intercettazioni telefoniche (indicate alle pp. da 46 a 48 del ricorso) riguardanti conversazioni tra lo stesso deputato e il Dott. P., captate nel febbraio 2019 sull’utenza del Dott. P. (RIT 120/2019) e avvenute prima della attivazione delle intercettazioni telematiche effettuate mediante trojan, nel maggio 2019 (RIT 175/2019).
Pertanto, secondo la difesa del ricorrente, nel perimetro delle indagini “non poteva non rientrare anche il nominativo dell’on. F., nonostante la sua mancata iscrizione nel registro degli indagati”, con la conseguenza che, nella specie, “le intercettazioni che lo hanno riguardato appaiono avere carattere indiretto e, come tali, in assenza della preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza, devono ritenersi del tutto inutilizzabili”.
Per escludere il carattere “indiretto” di dette intercettazioni, la Sezione disciplinare si sarebbe limitata a richiamare le deposizioni dei finanzieri delegati per le indagini a carico dell’incolpato, senza vagliarne ed attestarne la legittimità dell’operato, con ciò fornendo una motivazione solo “apparente”, priva di ogni verifica sul possibile “mutamento di obiettivi investigativi”, quale l’indice sintomatico “della “direzione degli atti di indagine” poste in essere dagli inquirenti” e, dunque, criterio rivelatore “del carattere, solo all’apparenza “fortuito”, dell’avvenuta captazione di conversazioni del parlamentare”.
8.5. – Con il secondo dei “motivi nuovi” (cfr. da p. 1.1. a p. 1.5., pp. 4-14), il ricorrente, richiamando il principio – enunciato dalla sentenza n. 9390 del 9 febbraio 2021 di queste Sezioni Unite – della inutilizzabilità nel procedimento disciplinare delle intercettazioni illegittimamente disposte in sede penale, si sofferma sul “tema” della “puntuale individuazione del “fatto reato” indagato”, al fine della verifica della presenza nei provvedimenti autorizzativi delle intercettazioni delle comunicazioni captate nei confronti del Dott. P. della “necessaria adeguata e specifica motivazione, vuoi, in ordine alla sussistenza della cd. gravità indiziaria, vuoi, relativamente alla assoluta indispensabilità” dell’accertamento “ai fini della prosecuzione delle indagini”.
E ciò sul presupposto che l’utilizzazione degli esiti dell’intercettazione vanno circoscritti “ai fatti-reato che all’autorizzazione stessa risultino riconducibili” (perché quest’ultima non si trasformi in una “autorizzazione in bianco”), con l’eccezione rappresentata “dall’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni (per l’accertamento giudiziale di reati diversi da quelli riconducibili al provvedimento autorizzatorio motivato, ossia) per l’accertamento dei reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.
La memoria muove dalla considerazione del provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Perugia del 21 settembre 2020 (doc. n. 1 allegato ai “motivi nuovi”), conclusivo del sub-procedimento di acquisizione delle registrazioni e dei verbali di intercettazione autorizzate nei confronti del Dott. P. per l’ipotesi di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio nella qualità di componente (all’epoca dei fatti) del Consiglio Superiore della Magistratura (poi derubricato in quella di corruzione per l’esercizio della funzione, “con riferimento ai rapporti ritenuti illeciti con l’imprenditore C.F., connotati da scambio di utilità”).
In detto provvedimento – deduce il ricorrente – si chiarirebbe, “retrospettivamente”, che il “contesto storico-fattuale” delle indagini era, per un verso, quello dei rapporti tra gli avvocati A. e C. e il C. “e di quest’ultimo con P.L. in relazione ai fatti rappresentati da L.G.” e, per altro verso, “le risultanze investigative circa la percezione da parte di P.L. di utilità corrisposte dall’imprenditore C.”. Nello stesso si conclude, poi (“in modo non chiaro quanto problematicamente”), che, nel tempo intercorrente fra l’autorizzazione e l’avvio delle operazioni, non erano “emersi elementi concreti sulla cui base poter ritenere che la direzione dell’atto di indagine sia nel prosieguo parzialmente mutata nell’intendimento degli inquirenti”.
La difesa del ricorrente sostiene, quindi, che il decreto autorizzativo delle intercettazioni telefoniche del 22 febbraio 2019, in linea con la richiesta del P.M., aveva ad oggetto “come unico formale addebito quello relativo alla cd. vicenda ” L.” e su di esso si incentra la motivazione – per vero, vaga e di stile – in ordine alla “gravità – sufficienza indiziaria”, come in ordine alla “indispensabilità” del ricorso allo strumento dell’intercettazione”, là dove, del resto, l’iscrizione del fatto-reato relativo ai rapporti tra il Dott. P. e il C. sarebbe intervenuta soltanto il 18 luglio 2019, in momento successivo all’attività captativa. Fondamento comune e, quindi, piena conformità vi sarebbe, secondo il ricorrente, tra il citato decreto del 22 febbraio 2019, il successivo del 22 marzo 2019 (e la previa richiesta del pubblico ministero del 15 marzo 2019) che avevano autorizzato le intercettazioni con captatore informatico.
Sicché, come verrebbe comprovato da ulteriori elementi (note della Guardia di Finanza dell’11 marzo 2019 e del 6 maggio 2019 (docc. n. 6 e n. 7 allegati ai “motivi nuovi”); richiesta di proroga delle intercettazioni (doc. n. 8 allegati ai “motivi nuovi”); provvedimento di cessazione delle intercettazioni (doc. n. 9 allegato ai “motivi nuovi”)), le conversazioni-comunicazioni del Dott. P. “”oggetto” di varia intercettazione” sarebbero “estranee… all’oggetto” delle ipotesi accusatoria formulata e della autorizzazione dell’attività di intercettazione” e ciò in relazione allmepisodio corruttivo (l’unico appunto) in contestazione”.
Di qui, soggiunge il ricorrente, la “mobilità” della contestazione in conflitto “con la necessaria “fissità” del fatto-reato oggetto dell’autorizzazione del (giudice) al ricorso del mezzo di ricerca della prova”, là dove, poi, con “l’impiego trasversale delle registrazioni” vi sarebbe una lesione dell’art. 15 Cost., in quanto l’utilizzazione ultra sedem farebbe “venire meno la garanzia del previo “atto motivato dell’autorità giudiziaria” sul diverso fatto, sul quale è mancato il controllo giurisdizionale in ordine all’esistenza di “gravi indizi di reato” e all’indispensabilità” dell’intercettazione”.
Nella specie, infatti, sarebbe necessario “accertare la sussistenza di un “legame sostanziale” tra il reato in relazione al quale l’autorizzazione è stata emessa e l’imputazione (ad oggi) “emersa” anche grazie ai risultati dell’intercettazione”.
Del resto, il divieto posto dall’art. 270 c.p.p., comma 1, “punterebbe proprio a saldare questo legame, escludendo che gli elementi emersi dall’intercettazione possano essere impiegati per fini processuali diversi da quelli perseguiti dall’autorità giudiziaria procedente”.
In questa prospettiva, peraltro, si porrebbe anche il principio enunciato dalle Sezioni Unite penali con la sentenza n. 51 del 2020, ric. “Cavallo”, che esclude la diversità tra il procedimento per reato per il quale l’autorizzazione all’intercettazione è stata concessa e il procedimento relativo al reato accertato in forza dei risultati dell’intercettazione solo in ragione dell’esistenza di una connessione ex art. 12 c.p.p. da intendersi come “sostanziale” e non già, come nel caso di specie, “occasionale”, quale può essere quella derivante da un collegamento delle indagini ai sensi dell’art. 371 c.p.p., o dalla “appartenenza ad un medesimo contesto investigativo”.
9. – Il motivo, come sopra complessivamente articolato, è in Parte inammissibile e in parte infondato.
Giova osservare, preliminarmente, che le censure che investono la tematica delle intercettazioni delle comunicazioni riguardanti l’incolpato compiute tramite captatore informatico (c.d. Trojan Horse), muovono (al pari delle doglianze sviluppate con il terzo e quarto motivo di ricorso) da una premessa che trova fondamento nel principio di diritto (su cui si ritornerà nel prosieguo di motivazione: cfr. infra, segnatamente, p. 11.4. e seguenti sottoparagrafi) ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (Cass., S.U., 12 giugno 2017, n. 14552; Cass., S.U., 15 gennaio 2020, n. 741; Cass., S.U., 8 aprile 2021, n. 9390), secondo cui, nel procedimento disciplinare a carico di magistrati, sono inutilizzabili i risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non legalmente disposte, per mancanza o illegalità dell’autorizzazione, o non legalmente effettuate nel procedimento penale dal quale sono state acquisite.
Dunque, la delibazione di eventuali v.zioni processuali verificatesi nell’ambito del giudizio penale a quo ha carattere incidentale e in termini di verifica dell’idoneità delle v.zioni stesse ad inficiare la validità della sentenza disciplinare (anche per effetto, se del caso, della ridondanza dei vizi dell’ordinanza istruttoria adottata nel corso del procedimento disciplinare) che abbia deciso in forza di intercettazioni altrimenti inutilizzabili.
9.1. – E’ infondato il primo profilo di censura (supra p. 8.1.), da scrutinare soltanto come deduzione di un vizio di violazione di legge (processuale), essendo irrilevante (alla stregua di quanto già precisato: cfr. supra p. 5.3.) la denuncia di un vizio di (omessa o contraddittoria) motivazione allorquando, come nella specie, l’asserito errore attiene ad una questione di diritto e non di fatto, ben potendo, poi, questa Corte, ove sia corretto il dispositivo, provvedere a rettificare la motivazione ai sensi dell’art. 619 c.p.p., – è infondato.
Nella specie, è rispondente a diritto il dispositivo adottato dal Giudice disciplinare (il quale, peraltro, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, ha comunque esaminato la questione) nel ritenere consentite le intercettazioni tra presenti tramite captatore informatico disposte per il delitto di corruzione oggetto del procedimento penale iscritto a carico dell’incolpato (n. 6652/2018 R.G.N. R.) pendente dinanzi all’Autorità giudiziaria di Perugia. Il principio di diritto al quale si deve fare riferimento come regula iuris e che il Collegio intende riaffermare, con le precisazioni che seguono è quello enunciato da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 741 del 15 gennaio 2020 (richiamato anche dalla sentenza impugnata, sebbene poi la relativa motivazione abbia trovato svolgimento anche, e soprattutto, in forza di diversa argomentazione giuridica), a mente del quale:
“nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati sono utilizzabili le intercettazioni effettuate in un procedimento penale, anteriormente al 1 gennaio 2020, con captatore informatico (cd. trojan horse) su dispositivo mobile nella vigenza ed in conformità della disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 216 del 2017, art. 6, (che ha parzialmente esteso ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, la disciplina delle intercettazioni prevista per i delitti di criminalità organizzata dal D.L. n. 152 del 1991, art. 13, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 203 del 1991, ed integrato con D.L. n. 306 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 356 del 1992) e dalla L. n. 3 del 2019, art. 1, comma 3, (la quale, abrogando il citato D.Lgs. n. 216 del 2017, art. 6, comma 2, ha eliminato la restrizione dell’uso del captatore informatico nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., così consentendo l’intercettazione in tali luoghi anche se non vi è motivo di ritenere che vi si stia svolgendo attività criminosa), atteso che la prima di tali norme, non rientrando tra quelle per le quali il medesimo D.Lgs. n. 216 del 2017, art. 9, ha disposto il differimento dell’entrata in vigore, è efficace dal 26 gennaio 2018, mentre la seconda (a differenza di altre disposizioni della medesima legge per le quali il legislatore ha differito l’entrata in vigore al 1 gennaio 2020) è efficace dal decimoquinto giorno dalla pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 16 gennaio 2019”.
9.2. – A tale riguardo giova ribadire e precisare quanto segue.
Il D.Lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, in attuazione della delega recata dalla L. n. 103 del 2017, ha riformato la materia delle intercettazioni di comunicazioni e conversazioni anche in riferimento all’impiego di captatore informatico (c.d. Trojan Horse o “agente intrusore”), ossia, più in generale (come evidenziato dalla stessa relazione illustrativa del decreto, secondo una ricostruzione peraltro già indicata in giurisprudenza; così, tra le altre, Cass. pen., S.U., 1 luglio 2016, n. 26889 “Scurato”), all’utilizzo di un “maiware” che, a distanza e in modo occulto, viene inoculato in un dispositivo del tipo target (un computer, un tablet o uno smartphone) al fine, tra le altre attività che il virus informatico è in grado di svolgere, di acquisirne tutto il traffico dati e (tramite l’attivazione del microfono) i colloqui che si svolgono nello spazio che circonda il soggetto che ha la disponibilità materiale del dispositivo stesso, ovunque egli si trovi, per poi trasmettere in tempo reale o ad intervalli prestabiliti, tramite la rete internet, quanto captato ad altro sistema informatico in uso agli investigatori.
La disciplina di cui al citato D.Lgs. n. 216 del 2017, in forza di una consapevole scelta legislativa – legata essenzialmente alla rilevante capacità intrusiva del predetto mezzo tecnologico e, quindi, della sua invasività rispetto alla sfera privata individuale -, ha riguardato unicamente l’uso del captatore informatico per le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni tra presenti (altrimenti dette, con espressione atecnica, “ambientali”) su dispositivi mobili (smartphone o tablet) e non su dispositivi fissi, rispetto ai quali è rimasta applicabile la regolamentazione ordinaria dettata dal codice di rito penale.
9.3. – Tuttavia, ancor prima dell’intervento legislativo del 2017, la giurisprudenza di legittimità aveva già ritenuto possibile l’intercettazione di comunicazioni e conversazioni tra presenti mediante l’impiego del “Trojan” su dispositivi mobili e, quindi, coerentemente alle modalità tecniche di funzionamento, quale strumento di indagine dalla “natura itinerante” e, di per sé, incompatibile con “la pretesa di indicare con precisione e anticipatamente i luoghi interessati dall’attività captativa”, che, invece, si imponeva in base al dato normativo codicistico – art. 266 c.p.p., comma 2, – in riferimento alle intercettazioni da effettuarsi nei luoghi di privata dimora (art. 614 c.p.), richiedendosi in tal caso anche che vi fosse un “fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”.
La necessaria convergenza tra la regolamentazione normativa legittimante l’attività di intercettazione e i presupposti fattuali di operatività del fenomeno normato è stata rinvenuta dalla citata sentenza delle Sezioni Unite penali n. 26889 del 2016, ric. “Scurato”, nella disciplina, derogatoria dell’art. 266, comma 2, c.p.p., dettata dal D.L. n. 152 del 1991, art. 13, comma 1, (convertito, con modificazioni, nella L. n. 203 del 1991), come modificato dal D.L. n. 306 del 1992, art. 3 bis, (convertito, con modificazioni, nella L. n. 356 del 1992), per i reati di “criminalità organizzata” (cioè per quelli elencati, anzitutto, nell’art. 51 c.p.p., commi 3 bis e 3 quater). Soltanto in relazione ad essi è stata ritenuta consentita l’intercettazione di comunicazioni tra presenti che avvenga nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p.”, pur in assenza di motivi per ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa.
Peraltro, gli effetti derogatori della disciplina ordinaria ad opera del citato art. 13 investono anche quanto stabilito dall’art. 267 c.p.p., giacché la disposizione speciale prevede che: a) l’intercettazione sia “necessaria per lo svolgimento delle indagini” (e non “indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”); b) sussistano “sufficienti” (e non gravi) indizi di reato; c) la durata delle operazioni non possa superare i “quaranta giorni” prorogabile per “periodi successivi di venti giorni” (e non, dunque, i quindici giorni prorogabili per periodi successivi di quindici giorni).
Tale approdo ermeneutico è da reputare coerente – come affermato dalla stessa sentenza “Scurato” (pp. 20-23) – sia con i principi costituzionali, che con quelli sovranazionali interferenti con la materia delle intercettazioni di comunicazioni e conversazioni tra presenti mediante utilizzo di “Trojan” regolata dal D.L. n. 152 del 1991, art. 13.
Quanto ai primi, si è messo in risalto lo “specifico bilanciamento” e “l’accurato contemperamento di valori e interessi” operato dal legislatore tra “una più pregnante limitazione” della segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.), della riservatezza (art. 2 Cost.) e della tutela del domicilio (art. 14 Cost.) e la “eccezionale gravità e pericolosità, per la intera collettività, dei (particolari) reati oggetto di attività investigativa per l’acquisizione delle prove”, trovando, peraltro, pieno rispetto, nella formulazione derogatoria del citato art. 13, anche il principio della riserva di legge.
Si tratta, del resto, di interpretazione già consolidata in precedenza, alla luce del principio (cfr. Cass. pen., 30 dicembre 2005, n. 47331; Cass. pen., 18 ottobre 2007, n. 38716; Cass. pen., 21 maggio 2013, n. 21644) secondo cui le intercettazioni di comunicazioni sono un mezzo di ricerca della prova funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., con il quale il principio di inviolabilità del domicilio previsto dall’art. 14 Cost., e quello di segretezza della corrispondenza e di qualsiasi forma di comunicazione previsto dall’art. 15 Cost., devono coordinarsi, subendo la necessaria compressione.
Quanto, poi, al piano sovranazionale e, in particolare, a quello della Convenzione Europea dei diritti umani, si è escluso che possano rinvenirsi nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo interpretativa dell’art. 8 della stessa Convenzione (sentenza del 4 dicembre 2015, Grande Camera, Zakharov c. Russia; sentenza 23 febbraio 2016, Capriotti c. Italia) “preclusioni riguardanti le intercettazioni effettuate mediante “captatore informatico” in procedimenti per delitti di criminalità organizzata”, in quanto:
a) è stato rispettato il “principio di proporzione tra la forza intrusiva del mezzo usato e la calibrata e motivata compressione dei diritti fondamentali delle persone che ne deriva, avendo inteso il legislatore raggiungere lo scopo di una efficace tutela delle esigenze dei singoli e della collettività in relazione a reati di particolare gravità”;
b) non risulta necessario “che nel provvedimento autorizzativo delle intercettazioni siano indicati i luoghi in cui le stesse devono svolgersi, purché ne venga identificato chiaramente il destinatario”.
9.4. – Ciò premesso, il D.Lgs. n. 216 del 2017, nella sua originaria formulazione, nel novellare l’art. 266 c.p.p., ha innanzitutto stabilito (art. 4) che l’intercettazione tra presenti “può essere eseguita anche mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile” (art. 266, comma 2) e che la stessa “e’ sempre consentita nei procedimenti di cui all’art. 51, comma 3 bis e 3 quater” (art. 266, comma 2 bis).
Inoltre, e per quanto più direttamente interessa in questa sede, il medesimo D.Lgs. n. 216, art. 6, nel dare attuazione alla L. n. 103 del 2017, art. 1, comma 84, lett. d), – e segnatamente al criterio direttivo che imponeva al legislatore delegato di “prevedere la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione” – ha esteso (comma 1) ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni le disposizioni di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 13, come detto recanti deroghe agli artt. 266 e 267 c.p.p.
Tuttavia, il comma 2, del medesimo art. 6, ha inteso restringere la portata dell’estensione operata dal comma 1, stabilendo che, in riferimento ai menzionati reati contro la pubblica amministrazione, “l’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività criminosa”.
Pertanto, in base alla disciplina originaria del D.Lgs. n. 216 del 2017, art. 6, ai fini dell’operatività o meno del presupposto dello svolgimento di attività criminosa nei luoghi di privata dimora, il discrimine è stato individuato nel tipo di dispositivo su cui viene inoculato il virus informatico, rilevando detto presupposto solo per i dispositivi portatili e non per quelli fissi.
Il D.Lgs. n. 216 del 2017, ha, quindi, previsto, con disposizione transitoria (per quanto qui interessa: art. 9, comma 1), che le disposizioni di cui agli artt. 2, 3, 4, 5 e 7 si applicassero “alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo il centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto” (cioè il 26 gennaio 2018).
La citata disposizione transitoria è stata più volte modificata (dal D.L. n. 91 del 2018 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 108 del 2018), dalla L. n. 145 del 2018, dal D.L. n. 53 del 2019 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 77 del 2019), dal D.L. n. 161 del 2019 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 7 del 2020) e, da ultimo, dal D.L. n. 20 del 2020 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 70 del 2020)).
Ogni volta è stata prorogata, senza soluzione di continuità, la data di efficacia delle disposizioni di cui agli anzidetti artt. 2, 3, 4, 5 e 7, da ultimo prevedendosi (con formulazione mutata già in base al D.L. n. 161 del 2019) che le stesse disposizioni possono trovare applicazione “ai procedimenti penali iscritti dopo il 31 agosto 2020”.
E ciò essenzialmente per dar modo agli uffici giudiziari di provvedere alla piena realizzazione delle necessarie misure organizzative relative alla “nuova modalità di custodia del materiale intercettativo”, cioè agli archivi informatici (così la relazione illustrativa del D.Lgs. n. 216 del 2017, e, analogamente, le ragioni delle proroghe esplicitate dai vari decreti-leggi succedutisi nel tempo).
9.5. – La disciplina del D.Lgs. n. 216 del 2017, è stata, però, ulteriormente modificata in termini significativi, anzitutto, con la L. 9 gennaio 2019, n. 3, (recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”), la quale ha dettato misure, sul piano sostanziale, investigativo e processuale, per assicurare una maggiore incisività all’azione di contrasto del “fenomeno endemico” dei reati contro la pubblica amministrazione e, in particolare, della corruzione, (cfr. in tal senso la relazione illustrativa e la annessa relazione tecnica del disegno di L. n. 1189, A.C. XVIII legislatura, presentato il 24 settembre 2018).
La citata relazione illustrativa – nel richiamare il preambolo della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 (Convenzione di Me’rida), firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata ai sensi della L. 3 agosto 2009, n. 116 – evidenzia che proprio il reato di corruzione, in particolare, costituisce una minaccia “per la stabilità e la sicurezza delle società, minando le istituzioni ed i valori democratici, i valori etici e la giustizia e compromettendo lo sviluppo sostenibile e lo stato di diritto” e che desta, altresì, preoccupazione l’esistenza di “nessi” tra la corruzione stessa “ed altre forme di criminalità, in particolare la criminalità organizzata e la criminalità economica, compreso il riciclaggio di denaro”.
In tale prospettiva, tra le adottate misure di carattere investigativo e processuale, la L. n. 3 del 2019, art. 1, comma 3, ha disposto l’abrogazione del D.Lgs. n. 216 del 2017, art. 6, comma 2, mentre lo stesso art. 1, comma 4, lett. a) ha esteso la previsione dell’art. 266 c.p.p., comma 2 bis, ai “delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni”.
Con il D.L. n. 161 del 2019, innanzi citato, è stato nuovamente modificato l’art. 266, comma 2 bis, la cui portata applicativa è stata estesa anche ai procedimenti per i delitti degli incaricati di un pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con pena non inferiore a cinque anni.
9.6. – Il quadro così tratteggiato pone in evidenza, da un lato, che il D.Lgs. n. 216 del 2017, non ha sottoposto ad alcuna proroga di efficacia la disposizione dell’art. 6, che (nella sua originaria formulazione) è entrata in vigore, dunque, il 26 gennaio 2018 e, dall’altro, che la L. n. 3 del 2019, ha abrogato, dal momento della sua entrata in vigore (31 gennaio 2019, ossia il decimoquinto giorno dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale), il D.Lgs. n. 216 del 2017, medesimo art. 6, comma 2.
Dunque, alla data del 31 gennaio 2019 (ben prima del provvedimento autorizzativo delle intercettazioni tramite captatore informatico sul dispositivo cellullare dell’incolpato, emesso il 22 marzo 2019 dal G.I.P. del Tribunale di Perugia) l’assetto normativo allora vigente consentiva di effettuare le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni con l’impiego di captatore informatico su dispositivi portatili anche in luoghi di privata dimora, senza che dovesse esservi motivo per ritenere lo svolgimento in atto di attività criminosa, pure per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con pena non inferiore a 5 anni di reclusione e ciò in base a sufficienti indizi di reato e alla necessità delle intercettazioni per lo svolgimento delle indagini, con durata delle operazioni non superiore a quaranta giorni, prorogabile per più periodi di venti giorni.
E tanto era consentito in ragione, precipua, della autosufficienza applicativa della disposizione di cui al D.Lgs. n. 216 del 2017, art. 6, comma 1, a partire dall’abrogazione del suo comma 2 (per l’appunto, dal 31 gennaio 2019), alla luce del rinvio pieno e completo che essa, dettata per i più gravi delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, operava, quindi, al D.L. n. 152 del 1991, art. 13, ossia alla norma in forza della quale poteva procedersi, nei termini sopra descritti, ad intercettazioni con captatore informatico per i reati di “criminalità organizzata” sin da prima dell’emanazione del D.Lgs. n. 216 del 2017, (come chiarito dalla citata sentenza delle Sezioni Unite “Scurato”).
Del resto, ad opinare diversamente (ossia in base alla tesi sostenuta dal ricorrente), una volta differita l’efficacia del D.Lgs. n. 216 del 2017, art. 4, al 1 settembre 2020 (nei modi e per le ragioni innanzi evidenziati) e, dunque, dell’art. 266 c.p.p., comma 2 bis, non si sarebbero potute disporre, medio tempore, le intercettazioni tra presenti con l’impiego del “Trojan” neppure per i reati di cui all’art. 51 c.p.p., commi 3 bis e 3 quater, e, quindi, anche per quelli di “criminalità organizzata”. Ciò che, invece, la giurisprudenza delle Sezioni penali di questa Corte ha fermamente escluso, in armonia, peraltro, con l’approdo nomofilattico rappresentato dalla sentenza n. 741 del 2020 delle Sezioni Unite civili (cfr., Cass. pen., 18 novembre 2020, n. 32428 e Cass. pen., 9 dicembre 2020, n. 35010).
Occorre, pertanto, ribadire il principio enunciato dalla citata sentenza n. 741 del 2020 di queste Sezioni Unite (cfr. sopra p. 9.1.) e, di conseguenza, rettificare la motivazione della sentenza impugnata, che fa leva, piuttosto, sull’immediata operatività dell’estensione della portata applicativa dell’art. 266 c.p.p., comma 2 bis, ai più gravi delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e ciò in forza dell’efficacia sin dal 31 gennaio 2019 della novella recata dalla L. n. 3 del 2019, art. 1, comma 4, lett. a).
A tale intervento legislativo si deve, invece, ascrivere, nel suo complesso, soltanto natura ricognitiva di un assetto regolativo già presente nell’ordinamento di settore, secondo la direttrice ad esso impressa dalle Sezioni Unite penali con la sentenza “Scurato” (come è stato evidenziato anche nelle conclusioni scritte del procuratore generale, che richiamano a sostegno le argomentazioni della più recente giurisprudenza delle Sezioni penali di questa Corte: cfr., tra le altre, Cass. pen., 25 novembre 2020, n. 33138; Cass. pen., 9 dicembre 2020, n. 35011; Cass. pen., 16 dicembre 2020, n. 36061. E a dette pronunce possono aggiungersi: Cass. pen. 32428/2020 e Cass. pen. 35010/2020, citate).
Sulla base delle considerazioni sinora svolte, non colgono nel segno le doglianze di parte ricorrente, che non forniscono argomenti idonei a scalfire l’impianto ermeneutico seguito dal Collegio in adesione al principio enunciato dalla citata sentenza n. 741 del 2020. Non possono, infatti, essere considerati tali quelli (ulteriori rispetto al pur non concludente riferimento alla motivazione in iure dell’ordinanza del G.I.P. di Perugia del 22 marzo 2019) che accennano soltanto, in senso critico, ad un “mix tra giurisprudenza creativa” (la sentenza “Scurato”) “ed una fonte normativa” (la L. n. 3 del 2019).
La lettura della normativa in precedenza delineata, inoltre, si presenta armonica rispetto ai principi costituzionali e convenzionali posti a presidio dei diritti fondamentali nella specie rilevanti (artt. 2,14 e 15 Cost., e art. 8 CEDU) e ciò anzitutto nell’ottica di “proporzionalità” tra la peculiare capacità intrusiva del mezzo di indagine e la compressione dei medesimi diritti assicurata dallo scopo perseguito dal legislatore di una efficace, e immediata, tutela contro reati (la corruzione e gli altri reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni) anch’essi di particolare gravità, come in modo assai significativo messo in risalto dai sopra richiamati lavori preparatori della L. n. 3 del 2019 (cfr. Cass. n. 32428/2020 e le altre pronunce già richiamate al p. 9.3).
9.7. – Quanto al secondo profilo di censura (cfr. supra p. 8.2.), è anzitutto inammissibile la doglianza che, in termini affatto generici, si appunta sulla mancanza di riscontri in ordine alle dichiarazioni rese dal teste D.B. circa la determinazione analitica degli orari di attivazione delle captazione presa in accordo con l’Autorità Giudiziaria di Perugia, giacché, per un verso, non viene messa in discussione l’attendibilità del teste e, per altro verso, non è attinta da alcuna critica la deposizione del teste M. (cui si riferisce nel medesimo contesto la sentenza impugnata: p. 37) che conferma le dichiarazioni del D.B..
Di qui, l’inconsistenza dell’ulteriore profilo di doglianza, posto che l’anzidetto accertamento della Sezione disciplinare si salda coerentemente con l’orientamento giurisprudenziale richiamato in sentenza (Cass. pen. 38009/2019), dichiaratamente in linea con indirizzo per cui le “modalità… delle operazioni” di intercettazione, di cui all’art. 267 c.p.p., non riguardano le “operazioni tecnico-manuali”, ma la “scelta del tipo tra quelli previsti dalla norma regolatrice” (nonché l’individuazione “del soggetto passivo e dell’ambiente ove il procedimento dovrà svolgersi”), così da eccettuare dal perimetro delle “modalità” gli orari delle captazioni, del resto correlati, anche per ragioni tecniche, alle “evidenze progressivamente acquisite” (Cass. pen. 3510/2020).
Una conclusione del genere è suffragata dal rilievo che il sistema normativo complessivo predisposto in relazione all’istituto delle intercettazioni quale mezzo di ricerca della prova non consente la deducibilità, come questione di inutilizzabilità o nullità delle eventuali distonie applicative riscontrate nella fase esecutiva delle operazioni di intercettazione diverse da quelle contenute nell’art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, espressamente richiamate dall’art. 271 c.p.p..
E’ la stessa formulazione di quest’ultima disposizione che rende “chiuso” e tassativo il richiamo volto alla sanzione di inutilizzabilità dei contenuti dell’intercettazione, riferendolo alla sola inosservanza delle disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p., sui presupposti e le forme del provvedimento autorizzativo e, per quel che riguarda la fase esecutiva, dall’art. 268 c.p.p., commi 1 e 3.
Pertanto, la sanzione di inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni telefoniche o ambientali, anche tramite captatore informatico, stante il principio di tassatività, non può essere dilatata sino a comprendervi anche l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 89 disp. att. c.p.p., non espressamente richiamato dall’art. 271 c.p.p., (Cass. pen. 35010/2020; Cass. pen. 8836/2009; Cass. pen. 49036/2004).
La successiva evoluzione normativa di settore (in base agli interventi novellatori succedutisi dal 2017) non evidenzia un quadro regolativo distonico rispetto all’assetto precedente e tale da imporre, semmai, soluzioni differenti in coerenza con i criteri dell’interpretazione storico-sistematica.
Difatti, in forza dell’art. 267 c.p.p., comma 1, la “modalità” che deve trovare giustificazione nel decreto autorizzativo è quella della “intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile” (nel caso di specie espressamente autorizzata dal G.I.P.).
La stessa disposizione esclude, poi, proprio per i delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, e per quelli più gravi dei pubblici ufficiali (e incaricati di pubblico servizio) contro la pubblica amministrazione, che sia necessaria l’indicazione, nel medesimo decreto, dei “luoghi” e del “tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”, in tal modo sottraendo tale categoria di reati alla sanzione di inutilizzabilità di cui all’art. 271 c.p.p., comma 1 bis, nell’ipotesi di “dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto autorizzativo”.
Ne’, infine, il ricorrente muove alcuna critica all’ulteriore precisazione in diritto in forza della quale la sentenza impugnata ha ritenuto consentita la modifica delle modalità esecutive della captazione da parte del pubblico ministero senza intervento del G.I.P. (Cass. pen., 9 ottobre 2018, n. 45486). Principio giuridico, questo, che viene ad armonizzarsi con l’accertamento in fatto – avente ad oggetto il riscontro delle indicazioni progressivamente fornite dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria nel corso delle operazioni di intercettazioni effettuate nei confronti dell’incolpato – che opera da premessa nel complessivo ragionamento decisorio del Giudice disciplinare.
9.8. – In relazione al terzo profilo di censura (supra p. 8.3.), va osservato che – anche a prescindere dal rilievo che il ricorrente non contrasta affatto le argomentazioni in diritto della sentenza impugnata che si aggiungono a quelle, seppur sintetiche, in forza delle quali si dà atto dell’esistenza della motivazione a sostegno del provvedimento del pubblico ministero del 27 marzo 2019 – non e’, comunque, ravvisabile la dedotta violazione della norma processuale di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, assistita dalla sanzione della inutilizzabilità ai sensi dell’art. 271 c.p.p., giacché il decreto autorizzativo del pubblico ministero del 27 marzo 2019 risulta idoneamente sorretto dalle “eccezionali ragioni di urgenza” che, insieme con l’inidoneità tecnica degli impianti, ne dovevano legittimare l’adozione.
Il decreto autorizzativo ha esplicitato tali ragioni anche in aderenza al principio secondo cui esse devono avere concreto riferimento alle circostanze che caratterizzano il caso di specie (Cass. pen., 23 febbraio 2004, n. 7691).
E alla verifica di tale “fatto processuale” il Collegio può direttamente procedere ex actis, in base alla natura, di error in procedendo, del vizio denunciato (cfr. supra p. 5.1.).
Il decreto del pubblico ministero del 27 marzo 2019 – che in premessa richiama sia la richiesta di autorizzazione all’intercettazione con captatore informatico del 18 marzo 2019, sia il correlato decreto autorizzativo del G.I.P. del Tribunale di Perugia del 22 marzo 2019 – ha motivato l’utilizzo degli impianti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma in luogo di quelli della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia mettendo in rilievo:
a) la “inidoneità tecnica degli impianti” di quest’ultima Procura della Repubblica, mediante puntuale richiamo alle specifiche circostanze di fatto;
b) le “eccezionali ragioni di urgenza”:
b.1) per la “delicatezza dei fatti, i soggetti coinvolti, l’esigenza primaria di interrogare a breve gli indagati che già nell’ambito di altri procedimenti hanno reso dichiarazioni e poter captare i commenti”;
b.2) per la inidoneità dei locali di ascolto presso la Procura della Repubblica di Perugia, che non consentiva “la contemporanea presenza dell’elevato numero di investigatori da impiegare (in relazione al rilevante numero di linee intercettate e al luogo ove dimorano stabilmente gli indagati – Roma), né l’immediato coordinamento fra le attività di ascolto/registrazione/captazione e quelle di osservazione e pedinamento, vista la già riscontrata cautela (nel procedimento pendente a Roma di cui in atti) utilizzata da almeno alcuni fra i soggetti controllati nel circolare nell’incontrarsi con altre persone e la conseguente, prevedibile difficoltà per gli operanti di porre in essere efficaci attività di controllo sul territorio”.
Le critiche di parte ricorrente non investono, in primo luogo, le circostanze di fatto addotte nel decreto del pubblico ministero a sostegno delle ragioni di urgenza ex art. 268 c.p.p., (segnatamente, le circostanze di cui al punto b.2), prima parte), sicché, in difetto di specificità della doglianza, detto provvedimento rimane comunque rispondente alla base legale in relazione alle ragioni d’urgenza non censurate.
In ogni caso, là dove fatte oggetto di impugnazione, le eccezionali ragioni d’urgenza palesate dal decreto del 27 marzo 2019 (che e’, comunque, adottato in forza di una motivazione non certo apparente come allegato dal ricorrente) trovano pieno conforto nello stesso richiamato decreto del G.I.P. del 22 marzo 2019, ove – contrariamente a quanto assunto in ricorso – è ben evidenziata (in base alle emergenze istruttorie ivi ricordate: pp. 3/10) la correlazione tra le varie posizioni degli indagati per il reato di corruzione (ex art. 319 c.p.) allora pendente dinanzi all’Autorità giudiziaria di Perugia e, segnatamente, quelle degli avvocati A. e C., da un lato, e del Dott. P., dall’altro.
Correlazione resa concreta in forza dell’intermediazione dell’ing. C. in quanto, al tempo stesso, “intimo amico” del Dott. P. e persona con la quale gli avvocati A. e C. “interloquivano direttamente”, essendo costoro a conoscenza, dunque, che lo stesso Dott. P. era “un referente consolidato del C. nell’ambiente della rappresentanza della magistratura ordinaria”, in grado di “gestire i voti di Unicost” presso il C.S.M. (cfr., segnatamente, pp. da 6 a 11 del decreto G.I.P. del 22 marzo 2019).
Ne’, del resto, colgono nel segno le ulteriori doglianze che si appuntano sulla esigenza, valorizzata dal decreto del pubblico ministero ex art. 268 c.p.p., comma 3, di un coordinamento immediato delle indagini da effettuarsi in loco (a Roma, dove dimoravano gli indagati, e non a Perugia), che il ricorrente assume come fatto insussistente in forza della posticipazione dell’ascolto delle conversazioni intercettate mediante “Trojan” rispetto alla captazione.
Una siffatta critica si scontra, comunque, con il dato – emergente dalla stessa deposizione del teste M. resa nel giudizio disciplinare e trascritta nel ricorso (p. 30) -, che dà conto della reale concretezza delle eccezionali ragioni d’urgenza apprezzate dal pubblico ministero anche sotto il profilo in esame, giacché lo iato temporale tra il momento della captazione e quello dell’ascolto del materiale captato era correlato &rinvio dal server della Procura agli uffici dove è stata remotizzata”.
9.9. – Quanto al quarto profilo di censura (supra p. 8.4.), occorre muovere dallo scrutinio della prima articolata doglianza con esso veicolata.
Detta doglianza è inammissibile per più di una ragione.
Essa si fonda – come sostenuto a p. 32 del ricorso – su “nuove acquisizioni documentali” e sugli “accertamenti tecnici disposti” dalla difesa del ricorrente (“da questa difesa”, così alla citata p. 32 del ricorso) costituiti dalla relazione del Dott. M.F., allegata al ricorso (doc. n. 9), datata 28 gennaio 2021 e predisposta (come risulta dalla stessa relazione) su richiesta, però, dell’avv. P.A.P. e nell’ambito del procedimento penale a carico dell’on. F. (n. 128003/19 I R.G.N. R. Tribunale di Roma).
Il ricorrente assume che da detti accertamenti (ossia dall’analisi, compiuta dal consulente di parte, dei “file di log” e cioè da quei “file” dai quali si evincono tutte le informazioni relative al momento, preciso, della programmazione della captazione, della sua effettuazione e dell’ascolto, o “smarcatura”, dell’intercettazione mediante “Trojan”, RIT 175/19) emergerebbe che una conversazione, “Molto Importante”, intercorsa il 7 maggio 2019, alle ore 23,19, tra il Dott. P. e il cons. S. (nella quale veniva fissato un appuntamento per la sera del giorno seguente al quale avrebbe dovuto partecipare anche ” C.”: progressivo n. 187, doc. n. 8 allegato al ricorso) sarebbe stata ascoltata dagli investigatori (M.llo G. della Guardia di finanza) alle ore 18,42 dell’8 maggio 2019, ossia 5 ore e 25 minuti prima dell’incontro tenutosi presso l'*****.
La relazione del Dott. M. e’, tuttavia, atto non interno al presente processo, ma proveniente da altro procedimento e, in ogni caso, formatosi successivamente alla definizione del giudizio di merito dinanzi alla Sezione disciplinare del C.S.M., così da collocarsi al di fuori del perimetro entro il quale può, di regola, operare, ex actis, la delibazione dell’error in procedendo da parte di questa Corte di legittimità (cfr. supra p. 5.1.), anche rispetto al vizio (nella specie dedotto) della inutilizzabilità di intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge (art. 271 c.p.p., comma 1, in relazione all’art. 68 Cost., comma 3, e L. n. 140 del 2003, art. 4, sulla cui portata ci si soffermerà più oltre), rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (art. 192 c.p.p., comma 2).
Ne’ detta relazione può configurarsi (cfr. supra p. 4.1.) come documento ulteriormente producibile, in sede di legittimità, rispetto a quelli già presenti agli atti del giudizio di merito, giacché richiede comunque – per la sua anzidetta genesi e per la sua natura eminentemente valutativa – una attività di apprezzamento sia in ordine alla sua validità formale, sia sulla sua efficacia nel contesto del corredo probatorio già formatosi, non potendo neppure aspirare ad essere equiparato allo “jus superveniens” in guisa di “factum superveniens”, di quest’ultimo essendo del tutto privo della necessaria forza rappresentativa, espressa eminentemente dall’atto (con specifica attitudine certificativa o conformativa) proveniente dalla pubblica amministrazione (cfr. supra p. 4.2.).
E’, peraltro, evidente che, non essendo la relazione ” M.” atto del processo nel quale è stata pronunciata la sentenza impugnata in questa sede, non può neppure predicarsi – come, invece, altresì deduce parte ricorrente – un vizio di motivazione della sentenza stessa, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per non averne il Giudice disciplinare tenuto conto (quale elemento concorrente ai fini della complessiva valutazione della legittimità delle intercettazioni disposte nei confronti dell’incolpato) nella formazione del proprio convincimento e nella esternazione del conseguente ragionamento decisorio.
A tali rilievi di inammissibilità, già di per sé assorbenti, se ne aggiungono, però, altri.
In primo luogo, non vengono forniti dal ricorrente puntuali allegazioni e riscontri in merito alla circostanza di non aver potuto dedurre in sede di merito il “fatto” di cui darebbe contezza la relazione del Dott. M. e di non aver potuto far predisporre quest’ultima in quella stessa sede.
Nel ricorso (pp. 33 e 34) si assume che all’udienza del 23 settembre 2020 la difesa “non era nella disponibilità” del “dato acquisito dal Dott. M.” (conversazione ore 18,42 dell’8 maggio 2019) e che “(p)er inciso sino a quel momento non era neppure nella disponibilità della Procura della Repubblica di Perugia atteso che i file di log relativi agli ascolti sono stati prodotti da ***** S.p.A., molto dopo la conclusione delle indagini preliminari”.
Le affermazioni sono affatto generiche e si scontrano con le ulteriori asserzioni difensive (p. 40 del ricorso) in forza delle quali si sostiene che (solo) in sede di istruzione dibattimentale disciplinare (e non già nel procedimento cautelare) l’incolpato ha potuto far valere le risultanze tratte dalla “discovery” delle intercettazioni disposta in sede di udienza c.d. “stralcio”, ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 6, (nella formulazione ratione temporis vigente).
Ed invero, risulta – dal provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Perugia del 21 settembre 2020, acquisito nel procedimento disciplinare il 23 settembre 2020 – che, in prossimità dell’udienza del 30 luglio 2020, la difesa del Dott. P. depositava memoria (in data 27 luglio 2020) con la quale deduceva di aver provveduto ad un’analisi della “lista dei file di log” relativi alle intercettazioni RIT 175/19 (cfr. pp. 7 e 8 del citato provvedimento del G.I.P.).
Nondimeno, in quello stesso provvedimento giurisdizionale si dà atto (pp. 18, 19 e 22) dell’acquisizione, da parte della Procura della Repubblica presso la società ***** – e, quindi, del relativo esame ad opera dello stesso G.I.P. – di “un file di estrazione dal database delle informazioni relative al RIT 175/10”, nel quale erano presenti tutte le indicazioni utili per catalogare ciascun progressivo, tra cui (oltre a: data e ora di inizio, ora di registrazione sul server, identificativo dell’operatore che ha avuto accesso per la prima volta) anche la data e l’ora di prima visualizzazione da parte dell’operatore.
Trova, quindi, evidenza un contesto peculiare che depone senz’altro in senso contrario ad una impossibilità di dedurre tempestivamente, già in sede di giudizio disciplinare di merito, il fatto del previo ascolto della conversazione del 7 maggio 2019 e, semmai, di ivi produrre una perizia difensiva.
Ne consegue ulteriormente che, in assenza di una tempestiva e specifica richiesta di acquisizione della anzidetta documentazione probatoria nello stesso procedimento disciplinare (su cui parte ricorrente non fornisce indicazione alcuna; né, peraltro, risulta ex actis e, in particolare, dall’ordinanza della Sezione disciplinare del 2 ottobre 2020, che ha disposto l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni previa trascrizione delle stesse, che detta richiesta vi sia stata), non è consentito eccepire in questa sede – alla luce del principio di diritto enunciato da Cass., S.U., n. 9390/2021, citata – la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per difetto di acquisizione dei relativi supporti materiali.
Tali devono intendersi, in caso di intercettazione tramite captatore informatico, oltre ai nastri registrati, anche i supporti informatici dei “file di log” contenenti le indicazioni relative alle captazioni, alle registrazioni e al relativo ascolto.
9.10. – Inoltre, si rivela significativa anche la circostanza per cui nell’elaborato della relazione del Dott. M. del 21 gennaio 2021, allegato al ricorso, non emerge affatto quanto assunto dal ricorrente (e tantomeno quanto precisato al riguardo sulla durata dell’ascolto “dalle 18,42 alle 19,00" – nelle conclusioni scritte del procuratore generale: p. 36).
Le conversazioni del 7 maggio 2019 sono esaminate dalla p. 23 alla p. 26 di detta relazione e non risulta in esse indicata una conversazione alle ore 23:19 del 7 maggio (di cui al progressivo n. 187, la cui trascrizione in atti non riporta però data e orario dell’ascolto”: cfr. doc. n. 8 allegato al ricorso), né un “ascolto” (o meglio “spunta”) alle ore 18,42 dell’8 maggio.
Risultano invece riportati altri progressivi, tra cui il n. 188 e il n. 189, che rispondono, però, ad orari diversi – ore 23,24 e ore 23,29 del 7 maggio – ed entrambi ascoltati (da “rdacunto”), rispettivamente, il 9 maggio e l’8 maggio alle ore 10,00.
Ne’, del resto, il ricorrente ha prodotto, unitamente alla citata relazione ” M.”, la documentazione che in essa si indica come allegata (cfr. in particolare, l’allegato n. 4 “Smarcatura progr. RIT 175.2019”), presumibilmente versata nel (diverso) procedimento penale pendente dinanzi al Tribunale di Roma e dalla quale potrebbe (in ipotesi) aversi conoscenza del citato “file di log” e delle informazioni dallo stesso desumibili.
Ne deriva, altresì, per le medesime illustrate ragioni (attinenti ai predetti “file di log”), anche l’inammissibilità dei rilievi (alle pp. 38 e 39 del ricorso) in ordine all’orario (solo presumibile, dunque) dell’ascolto dei progressivi n. 186 e n. 188 del 7 maggio 2019, peraltro neppure indicati nella citata ordinanza del G.I.P. del 21 settembre 2020.
Il ricorso stesso, poi, evidenzia (senza contestarlo) che l’ascolto dei riportati progressivi dell’8 maggio 2019 relativi alle intercettazioni telefoniche – RIT 120/2019 – è avvenuto soltanto dopo l’incontro tenutosi presso l'*****.
Da ultimo, il ricorrente non spiega le ragioni per le quali i contenuti delle intercettazioni di cui ai citati progressivi n. 186 e n. 188 assumano rilievo decisivo di conversazioni “preparatorie”.
Proprio sotto il profilo da ultimo evidenziato deve porsi in risalto la circostanza che, seppure in via di mera ipotesi si potesse tenere conto del fatto del “previo ascolto” della conversazione del 7 maggio 2019, così come dedotto in ricorso, esso non costituirebbe prova decisiva, alla stregua di quanto si preciserà nel prosieguo di motivazione (cfr. infra p. 9.13.).
9.11. – La seconda doglianza (cfr. supra p. 8.4.) proposta con il quarto profilo di censura è infondata.
A seguito della revisione recata dalla legge costituzionale n. 3 del 1993, l’art. 68 Cost., nella formulazione vigente, contempla, in luogo della originaria autorizzazione a procedere per la sottoposizione del parlamentare a procedimento penale, un sistema di autorizzazioni, rimesse alla Camera di appartenenza del parlamentare stesso, riferite all’adozione, da parte dell’Autorità giudiziaria, di specifici provvedimenti inerenti al procedimento penale nei confronti di un membro del Parlamento, tra cui l’intercettazione di conversazioni e comunicazioni (art. 68 Cost., comma 3).
Anche per quest’ultima, come per le altre autorizzazioni ad acta, la garanzia costituzionale si atteggia a prerogativa della funzione e, pertanto, è posta a tutela non del parlamentare uti singulus, bensì delle Assemblee nel loro complesso, delle quali si vuole preservare la funzionalità, l’integrità di composizione e la piena autonomia decisionale, rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario, che potrebbe, attraverso l’ascolto di conversazioni riservate, condizionare la libera esplicazione del mandato elettivo.
In tale contesto si colloca, dunque, la disciplina della citata L. n. 140 del 2003, e, in particolare, dei suoi artt. 4 e 6, il cui diverso perimetro applicativo è stato chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 390 del 2007, n. 113 del 2010, n. 114 del 2010 e ordinanza n. 263 del 2010).
L’art. 4 prevede – in armonia con l’anzidetta norma costituzionale – che il giudice debba richiedere alla Camera di appartenenza del parlamentare un’autorizzazione preventiva all’intercettazione “tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione”.
A tal riguardo, ciò che è davvero rilevante al fine di rendere necessaria l’autorizzazione preventiva (in difetto della quale l’intercettazione è illegittima) è la direzione dell’atto indagine, siccome volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare e tanto a prescindere dal fatto che vengano sottoposti a controllo le utenze o i luoghi appartenenti allo stesso parlamentare o nella sua disponibilità (intercettazioni dirette) o, invece, le utenze o i luoghi di appartenenza o nella disponibilità di terzi nei cui confronti (soltanto od anche unitamente al parlamentare) si riferisca il procedimento penale (intercettazioni indirette).
Non beneficia, invece, della garanzia assicurata dall’art. 68 Cost., la norma della L. n. 140 del 2003, art. 6, pertinente al diverso ambito, comune alla generalità dei consociati, della riservatezza (art. 15 Cost.), a tutela della quale prevede, tuttavia, una specifica regolamentazione.
Pertanto, nella sua formulazione vigente (all’esito della declaratoria di illegittimità costituzionale recata dalla sentenza n. 390 del 2007), il citato art. 6 impone al giudice di richiedere, ove intenda farne uso, un’autorizzazione, successiva al compimento dell’atto di indagine, alla Camera di appartenenza del parlamentare le cui comunicazioni siano state in modo occasionale intercettate, unitamente a quelle dei terzi nei cui confronti le intercettazioni stesse erano state disposte. Tale autorizzazione non si rende, però, necessaria qualora le intercettazioni debbano essere utilizzate soltanto nei confronti di terzi.
La disposizione in esame, quindi, trova applicazione unicamente nell’ipotesi di intercettazioni, per l’appunto, occasionali ovvero casuali o fortuite, rispetto alle quali, stante il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare, l’autorità giudiziaria non potrebbe, in ogni caso, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza.
La verifica della casualità, o meno, delle intercettazioni nei confronti del parlamentare è rimessa al prudente apprezzamento del giudice da esercitarsi in base ad una griglia di criteri, enucleati dalla stessa giurisprudenza costituzionale (innanzi citata) ed affinati da quella di questa Corte, che ha avuto modo di ribadire e precisare quali siano i parametri, necessari, di riferimento, che devono orientare uno scrutinio particolarmente stringente, sulla scorta degli elementi di fatto acquisiti.
In siffatta prospettiva, si è quindi fatto riferimento al tipo dei rapporti intercorrenti tra il parlamentare e il terzo sottoposto a controllo telefonico, all’attività criminosa oggetto di indagine, al numero delle conversazioni intercorse tra il terzo e il parlamentare, all’arco di tempo entro il quale tale attività di captazione è avvenuta, anche rispetto ad eventuali proroghe delle autorizzazioni e al momento in cui sono sorti indizi a carico del parlamentare (Cass. pen. 34244/2010, citata; Cass. pen., 14 luglio 2017, n. 34552; Cass. pen., 4 marzo 2020, n. 8795; Cass., S.U., n. 741/2020, citata).
Detti criteri, quindi, rappresentano per il giudice la lente focale per discernere se l’intercettazione, sebbene disposta nei confronti di un terzo e non del parlamentare, possa ritenersi, invece, frutto di “una concreta ed attuale prospettiva di intrusione nella sua sfera comunicativa” (Corte Cost., sentenza n. 390/2007, citata), tale, dunque, da configurarsi come atto di indagine caratterizzato da una precisa “direzione”, ossia quella di acquisire, surrettiziamente, le conversazioni e le comunicazioni del membro del Parlamento, con conseguente violazione della L. n. 140 del 2003, art. 4, e dell’art. 68 Cost., in assenza della previa autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare fatto oggetto di intercettazione “indiretta”.
9.12. – Tanto premesso, le censure di parte ricorrente sono volte ad accreditare un vizio motivazionale della sentenza impugnata nella delibazione che ha condotto la Sezione disciplinare a ritenere “casuali” le intercettazioni delle conversazioni e comunicazioni, disposte nei confronti del Dott. P., intercorse tra quest’ultimo e l’on. F.C., all’epoca membro del Parlamento.
In effetti, il sindacato di legittimità che, nella specie, attivano le anzidette doglianze è da svolgere proprio alla luce del paradigma di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), giacché, seppure la denuncia abbia di mira una violazione processuale (ai fini della inutilizzabilità della prova ex art. 191 c.p.p., perché asseritamente non conforme al paradigma costituzionale), la fattispecie legale che deve trovare applicazione è costruita – come appena illustrato – in base ad un modello non rigidamente predeterminato, che richiede al giudice di merito di assumere la propria decisione procedendo ad una valutazione complessiva e globale del materiale probatorio allo scopo rilevante, tale, dunque, che non può questa Corte che arrestare il proprio scrutinio alla congruità ed adeguatezza del ragionamento decisorio espresso nella motivazione del provvedimento adottato (cfr. supra p. 5.1.).
Ciò premesso, le censure non colgono nel segno.
Il Giudice disciplinare non ha eluso le argomentazioni difensive veicolate con la memoria del 15 settembre 2020.
La sentenza impugnata e’, infatti, sorretta da un completo e coerente apparato argomentativo, che si confronta anche con il provvedimento del G.I.P. di Perugia del 21 settembre 2020, reso all’esito dell’udienza c.d. stralcio ex art. 268 c.p.p., comma 6, acquisito agli atti del giudizio disciplinare e prodotto pure dallo stesso ricorrente, sebbene omettendo le pp. da 2 a 8 e parte della p. 9. Essa ha fatto corretta applicazione dei criteri selettivi che devono guidare, in modo particolarmente stringente – alla luce della illustrata interpretazione che il “diritto vivente” ha dato del combinato disposto della L. n. 140 del 2003, artt. 4 e 6, -, la valutazione sulla natura fortuita, o meno, delle intercettazioni delle conversazioni del parlamentare.
Per contro, sono le doglianze di parte ricorrente a manifestare, invece, una sensibile deviazione rispetto al paradigma del vizio evocato (cfr. supra p. 5.3.), operando (e al tempo stesso sollecitando il Collegio a) una rivalutazione delle emergenze probatorie, non consentita in questa sede di legittimità.
Con riferimento alla parte del motivo suscettibile di utile scrutinio, il Collegio osserva preliminarmente che la difesa (contrariamente a quanto sostenuto con la citata memoria del 15 settembre 2020) non insiste sul rilievo da ascrivere alla telefonata intercettata l’8 maggio 2019, c.d. “predittiva” della partecipazione dell’on. F. all’incontro tenutosi, poche ore dopo, presso l'*****; intercettazione che, tuttavia, è stata, incontestatamente, ascoltata dagli investigatori soltanto la mattina del 9 maggio, successivamente a detto incontro.
Gli elementi di fatto dei quali il ricorrente lamenta la mancata o l’inadeguata valutazione hanno, invece, trovato congrua e idonea considerazione nel tessuto motivazionale della decisione disciplinare.
In primo luogo, la Sezione disciplinare (cfr. sintesi sub p. 5.3.4. dei “Fatti di causa” e pp. 42-50 della sentenza, che, come detto, richiama l’ordinanza del G.I.P. del 21 settembre 2020) ha evidenziato, anche in forza delle deposizioni testimoniali (non contrastate da circostanze di fatto contrarie, acquisite ritualmente agli atti), l’assenza di “attenzione investigativa” nei confronti dell’on. F. durante l’indagine penale per il reato di corruzione a carico del Dott. P. (proc. n. 6652/18 R.G.N. R. dinanzi all’Autorità giudiziaria di Perugia).
In tal senso, ha escluso – in modo assolutamente non contraddittorio – che potessero essere rilevanti le dichiarazioni rese nel procedimento penale a carico del Dott. P. dall’avv. C. (indagato nell’ambito del medesimo procedimento), sui rapporti, diretti e indiretti, intrattenuti da un ulteriore indagato (avv. A.) con gli stessi on. F. e Dott. P., in assenza di qualsiasi indizio di reità a carico dell’on. F., peraltro mai iscritto – prima, durante o dopo le operazioni di intercettazione – nel registro delle persone sottoposte ad indagine, come del resto sottolineato dalla citata ordinanza del G.I.P. di Perugia (p. 15), che osserva testualmente che i predetti rapporti afferiscono “ad un contesto relazionale distinto, rispetto a quello che aveva determinato l’iscrizione del Dott. P. per ipotesi di corruzione, non definito nei contorni fattuali e ancor meno in termini di illiceità penale”.
Quanto poi alla frequentazione tra il Dott. P. e l’on. F. (che il ricorrente sostiene essere stata “abituale e programmata” in ragione delle “numerose intercettazioni telefoniche” dal marzo 2019), la sentenza impugnata, coerentemente con le emergenze in atti (di cui il ricorso stesso dà contezza: pp. 46-48), qualifica come “minimale” la frequenza dei contatti nel contesto dell’arco temporale delle intercettazioni, sia telefoniche, che tramite “Trojan”. Essa, infatti, evidenzia che, nel periodo 12 marzo/8 maggio 2019, risultano sedici conversazioni, tali da non deporre per una interlocuzione “abituale”, ossia connotata da quotidianità o, comunque, da radicata consuetudine e stretta prossimità, e, inoltre (come messo in risalto dalla citata ordinanza del G.I.P. del 21 settembre 2020, p. 17), che i contenuti di quelle telefonate concernevano, segnatamente, l’attività associativa e consiliare, e non mettevano in luce elementi in relazione ai fatti di reato oggetto del procedimento penale a carico del Dott. P..
Trovano, altresì, adeguata e logica valutazione nella motivazione resa a sostegno della decisione del Giudice disciplinare anche le seguenti ulteriori circostanze, valorizzate dal ricorrente (pp. 43-49 del ricorso) ai fini della tesi difensiva circa la direzione dell’atto di indagine nei confronti dell’on. F.:
a) le telefonate antecedenti all’incontro presso l'***** intercorse tra l’incolpato e il parlamentare l’8 maggio 2019 (progressivi n. 8498, n. 8521, n. 8522, RIT 120/19), ascoltate dagli investigatori solo dopo l’incontro anzidetto (cfr. anche ordinanza del G.I.P., pp. 18 e 19);
b) i rapporti tra il Dott. P. e l’on. F. esulanti dal contesto associativo della magistratura e relativi “ad altri contesti connotati da elementi di opacità” (come rilevato nell’informativa del 10 aprile 2019 del GICO della Guardia di Finanza, citata nella sentenza impugnata, insieme alle testimonianze di D.B. e M., che hanno chiarito il significato di tale frase: cfr. p. 5.3.4., lett. e, dei “Fatti di causa”) e le ragioni dell’accertamento effettuato sulla data di nascita del figlio dell’on. F. (cfr. p. 5.3.4., lett. c, dei “Fatti di causa”);
c) la telefonata “WA” (WhatsApp) dell’8 maggio 2019 (progressivo n. 82 RIT 175/19) nella quale il Dott. P., nell’organizzare per la sera un incontro presso il CSM, “fa riferimento esplicito alla presenza di C.” (anch’essa oggetto di ascolto soltanto dopo l’incontro presso l'*****).
Di tutte le ricordate emergenze probatorie il Giudice disciplinare dà congrua e plausibile spiegazione, sia valutandole singolarmente, che nel loro complesso, per poi pervenire alla conclusione, anch’essa supportata da logica argomentazione, in ordine alla casualità delle intercettazioni delle conversazioni dell’on. F..
Ma e’, poi, la ponderazione complessiva, e non atomistica, delle varie circostanze fattuali acquisite agli atti a rendere la motivazione della sentenza impugnata definitivamente esente dai vizi logici denunciati dal ricorrente e, al contempo, corrispondente a diritto là dove opera la sussunzione del fatto accertato (la “casualità” dell’intercettazione a carico del parlamentare) nel paradigma legale di cui alla L. n. 140 del 2003, art. 6, con conseguente correttezza del giudizio sulla legittimità dell’utilizzo dei risultati delle intercettazioni disposte ed effettuate nei confronti dell’incolpato.
L’apprezzamento della Sezione disciplinare si sottrae, dunque, alle critiche di parte ricorrente, in quanto dà conto, attraverso la evidenziata complessiva valutazione delle emergenze probatorie, di come, rispetto all’ipotesi accusatoria mossa nei confronti del Dott. P. in sede penale (cioè, originariamente quella per il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio in qualità, all’epoca dei fatti, di componente del C.S.M.), non vi sia stata preordinazione alcuna, da parte dell’Autorità giudiziaria procedente, nell’indirizzare le intercettazioni stesse ad acquisire, in modo indiretto, ma surrettizio, anche nel corso delle operazione di captazione già autorizzate, le conversazioni dell’on. F. (tantomeno quelle dell’on. L.L., che lo stesso ricorrente, del resto, non assume a fondamento di alcuna censura), essendo lo stesso on. F. sempre rimasto estraneo all’orizzonte investigativo anzidetto.
In altri termini, la motivazione del Giudice disciplinare si snoda secondo un iter logico coerente e plausibile che dà evidenza di come gli elementi di prova acquisiti non depongano affatto per una iniziale o successiva predisposizione dell’atto di indagine secondo una concreta ed attuale prospettiva di intrusione nella sfera comunicativa del parlamentare, ciò che eliderebbe irrimediabilmente la natura “casuale” o “fortuita” dell’intercettazione.
E proprio l’assenza di quei caratteri di concretezza ed attualità della direzione investigativa verso il parlamentare, tramite il mezzo di ricerca della prova costituito dall’intercettazione di conversazioni e di comunicazioni, che (secondo l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato) deve emergere in modo significativo dal compendio probatorio, affinché si possa ritenere l’atto di indagine sussumibile nel perimetro della norma di cui alla L. n. 140 del 2003, art. 4, e, dunque, dell’art. 68 Cost., comma 3.
Del resto, non è sufficiente a tal fine neppure una “elevata probabilità” di intercettare indirettamente il parlamentare stesso (cfr. sentenza n. 390/2007, citata).
Di questo, come detto, si dà conto nella sentenza impugnata e tanto consente di ritenere che l’impianto argomentativo della stessa resista anche a fronte del rilievo critico di parte ricorrente basato sul tenore del provvedimento del pubblico ministero di Perugia del 10 maggio 2019, che intimava agli operatori di polizia giudiziaria di “non attivare il microfono” là dove fosse emerso con certezza, dalle conversazioni intercettate, che il Dott. P. fosse “prossimo ad incontrare un parlamentare” (cfr. allegato n. 10 al ricorso).
Difatti, tale disposizione, assunta dal pubblico ministero all’esito dell’incontro tenutosi presso l'***** nelle ore notturne dei giorni 8 e 9 maggio 2019, trova fondamento, piuttosto, in un intento meramente precauzionale che, tuttavia, prescinde – come emerge dal provvedimento medesimo – da elementi fattuali obiettivamente espressivi di un cambio di direzione delle indagini penali, siccome orientate anche verso il parlamentare.
Di ciò si trae conferma dal fatto che, nella medesima direttiva, il pubblico ministero ribadisce l’esigenza di mantenere attivo il “microfono” nel caso della presenza di parlamentari “rilevata concretamente ed (in) maniera imprevedibile e casuale”.
Una sollecitazione, dunque, che può spiegarsi, secondo logica e diritto (e cioè alla luce delle coordinate giuridiche innanzi illustrate: cfr. supra p. 9.11.), unicamente se, in quel momento, l’indagine penale non avesse avuto comunque di mira anche un parlamentare, poiché altrimenti quella condotta (di mantenere “attivo” il microfono) avrebbe certamente dato luogo alla illegittimità delle operazioni di intercettazione, siccome riguardanti, in ogni caso, intercettazioni “indirette”.
9.13. – Le considerazioni svolte consentono, altresì, di ritenere come innanzi accennato (cfr. supra p. 9.9.) – comunque priva di decisività la (ipotetica) prova costituita dal previo ascolto, rispetto all’incontro dell'*****, della conversazione intercettata il 7 maggio 2019 alle 23,19 tra il Dott. P. e il cons. S., la quale sarebbe stata ascoltata dal M.Ilo G. della Guardia di Finanza alle ore 18,42 dell’8 maggio 2019, ossia 5 ore e 25 minuti prima di detto incontro.
Come inizialmente precisato (cfr. supra p. 5.3), la decisività della prova il cui esame sia stato omesso (art. 606, comma 1, lett. e, c.p.p.) è tale allorquando essa è in grado, in quanto potenzialmente capace di sovvertire il valore degli altri elementi probatori utilizzati o ancora utilizzabili, di inficiare e compromettere, in modo radicale, la tenuta logica e l’intera coerenza dell’impianto argomentativo, non più idoneo, quindi, a sorreggere il provvedimento impugnato.
Nella specie, dunque, quella prova, per essere decisiva, dovrebbe essere elemento destrutturante della motivazione della sentenza disciplinare in punto di “casualità” delle intercettazioni delle conversazioni dell’on. F., in quanto verrebbe ad evidenziare, con certezza non già soltanto una “elevata probabilità”, ma una concreta ed attuale prospettiva di intrusione nella sfera comunicativa del parlamentare stesso, ossia una direzionalità specifica delle indagini verso quest’ultimo, ciò che, per l’appunto, determinerebbe l’applicazione del diverso regime delle intercettazioni “indirette” (art. 68 Cost., comma 3, e L. n. 140 del 2003, art. 4) e, di conseguenza, l’illegittimità delle intercettazioni nella specie effettuate e, quindi, l’inutilizzabilità dei relativi risultati.
Tuttavia, quella conversazione (cfr. ricorso pp. 32 e 33 e doc. allegato n. 8) muove da accenni al Dott. I. e all’avv. A., per poi soffermarsi, in poche battute, sulla fissazione di un incontro – del quale non viene comunque specificata la ragione – per la sera di giovedì, al quale avrebbe dovuto partecipare anche ” C.” (oltre a ” L.” – che si sarebbe successivamente rivelato l’on. L. – e ai consiglieri del C.S.M. S., M. e L.), per, quindi, snodarsi, lungamente, su un “terzo argomento”, quello della nomina di vertice della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, dove l’interlocuzione ha riguardo alle presumibili o divisate posizioni di voto di vari consiglieri del C.S.M., senza ulteriori accenni alla persona di ” C.”.
L’intercettazione è definita “Molto Importante” dall’operatore che ha trascritto la conversazione, che, peraltro, risulta evidenziata in grassetto (come risulta dal citato doc. n. 10) unicamente nella parte in cui sono evocati il Dott. I. e l’avv. A..
In un siffatto contesto e considerata, altresì, la circostanza che si sarebbe trattato dell’unico ed isolato ascolto “predittivo” dell’incontro tenutosi all'***** (essendo successivi a tale incontro gli ascolti delle registrazioni dell’8 maggio 2019, come sopra evidenziato: p. 9.12.), la conversazione del 7 maggio 2019, ore 23,19, si rivela elemento che – nel quadro complessivo delle emergenze probatorie già valutate dal giudice di merito come confermative della natura “casuale” dell’intercettazioni (sempre p. 9.12.) – è ben lungi dall’assumere carattere di (ipotetica) prova decisiva come richiesto dall’art. 606 c.p.p., lett. e), non fornendo, sia in sé considerata, che unitamente alle ulteriori emergenze processuali, quella necessaria concretezza ed attualità di una prospettiva investigativa volta ad ampliare il perimetro delle indagini penali anche nei confronti del parlamentare.
9.14. – E’, poi, inammissibile la censura sviluppata nel contesto del secondo dei “motivi nuovi” (cfr. supra p. 8.5.) per le ragioni di cui si darà conto in sede di scrutinio del quarto motivo di ricorso (cfr. infra p. 12), il quale postula la soluzione di questioni intrinsecamente connesse con l’anzidetta doglianza.
Il terzo motivo di ricorso.
10. – Con il terzo mezzo è dedotta la “erronea applicazione della legge processuale per l’inosservanza delle disposizioni concernenti l’utilizzabilità delle intercettazioni compiute attraverso captatore informatico (c.d. trojan horse)”, nonché la “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza e dell’ordinanza depositata in udienza il 2 ottobre 2020”, denunciandosi, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma, 1, lettere c) ed e), la violazione dell’art. 191 c.p.p., art. 268 c.p.p., comma 3, “in ragione della prospettata verosimiglianza di un’attività intercettiva compiuta non (solo) attraverso l’impiego esclusivo di impianti installati nella Procura della Repubblica, ma anche attraverso apparecchiature esterne”.
10.1. – Le motivazioni a sostegno dell’ordinanza del 2 ottobre 2020 e, quindi, della sentenza impugnata (che le avrebbe “riprese in maniera pedissequa”) – secondo cui l’ipotesi ricostruttiva presente nella nota tecnica del Dott. M. (con la quale, sulla scorta di elaborato tecnico proveniente dalla ***** S.p.A., “si ipotizzava la comunicazione con server diverso da quello, autorizzato, presente nei locali della Procura della Repubblica di Roma”) “ha trovato totale smentita nelle deposizioni testimoniali acquisite e, in modo speciale la compiuta descrizione tecnica del sistema di funzionamento del captatore informatico quale descritta dall’Ing. B.D., responsabile della Società (*****) affidataria del servizio” – troverebbero, a loro volta, piena smentita in base alla “perizia integrativa della nota tecnica a firma del Dott. M. realizzata dal Dott. Reale” del gennaio 2021 (allegato 11 al ricorso), le cui conclusioni (riportate alle pp. da 53 a 55 del ricorso, che rinviano alla p. 35 di detta perizia) sono:
a) l’indagine tecnica è stata effettuata “su una copia della stessa versione della app (Carrier) estratta da un altro telefono infetto”;
b) l’indirizzo IP, tramite il quale “il captatore era in grado verosimilmente sia di reperire il calendario di attivazione/disattivazione del microfono, che la trasmissione dei dati di registrazione audio raccolte dal dispositivo”, era il n. *****, gestito dalla società Fastweb e localizzato presso “la sede ***** sita a Napoli, quindi in un luogo geograficamente diverso da quello indicato nello schema rappresentato sulla relazione depositata da ***** (Procura di Roma)”;
c) “(a)llo stato attuale non è possibile individuare ulteriori elementi che permettano di verificare che lo stesso IP ***** all’epoca dei fatti fosse quello utilizzato anche sul telefono del Dott. P.”, sebbene esista “un’altissima probabilità che l’App Carrier (…) avesse il medesimo server di riferimento, è quindi il medesimo indirizzo IP”.
La difesa del ricorrente, quindi, sostiene che sarebbero prive di fondamento le dichiarazioni dell’ing. B., poiché sarebbe stato “necessario approfondire tecnicamente il funzionamento del captatore informatico e, in particolare, se la comunicazione fosse esclusivamente diretta al server della Procura di Roma ovvero ad altro server come riscontrato”, con conseguente difetto di motivazione. Quest’ultima, in ogni caso, sarebbe illogica e contraddittoria, per aver la Sezione disciplinare validato l’utilizzabilità delle intercettazioni “non sulla base di accertamenti tecnici, ma esclusivamente sulla base di assertive dichiarazioni poi del tutto smentite”.
10.2. – La difesa osserva che sono, comunque, inutilizzabili, ai sensi del combinato disposto dell’art. 268 c.p.p., comma 3, e art. 271 c.p.p., le intercettazioni realizzate mediante captatore informatico con utilizzo di server esterno sia alla Procura della Repubblica di Perugia, che di quella di Roma.
In subordine, il ricorrente sostiene che sarebbe stato violato l’art. 187 c.p.p., comma 2, giacché il giudice disciplinare “ha assunto che tali circostanze non potessero essere oggetto di prova” e, in presenza di “articolata eccezione di inutilizzabilità non ha dato luogo, come richiesto, alla prova decisiva in merito alla illegittimità delle operazioni di captazione”.
10.3. – Ulteriori considerazioni che si legano a quelle innanzi illustrate sono sviluppate dal ricorrente con il secondo dei “motivi nuovi”.
A tal riguardo si deduce che sarebbero emersi nel corso del procedimento penale pendente dinanzi al Tribunale di Perugia ulteriori elementi che proverebbero la nullità patologica delle intercettazioni effettuate nei confronti dell’incolpato.
In particolare, a seguito di quanto rappresentato dalla perizia effettuata dall’ing. R., il Dott. P. ha presentato denuncia querela nei confronti dell’ing. B. per i reati di falsa testimonianza, falso per induzione e frode nelle pubbliche forniture. Da quanto dichiarato dall’ing. B. in sede di interrogatorio del 22 aprile 2021, reso dinanzi alla Procura di Firenze procedente, e di sommarie informazioni rese il 3 maggio 2021 al Giudice dell’udienza preliminare – di seguito anche G.U.P. – del Tribunale di Perugia nel procedimento penale n. 6652/2018 (docc. n. 14 e n. 15 allegati ai “motivi nuovi”) sarebbe emersa una rappresentazione della “architettura del sistema di captazione informatica del tutto diversa” da quella descritta dinanzi alla Sezione disciplinare all’udienza del 30 settembre 2020, come ulteriormente confermato dai periti di parte ing. R. e Dott. M. (anch’essi sentiti nel corso della predetta udienza del 3 maggio 2021).
Ciò avrebbe determinato la sospensione immediata dell’affidamento ad ***** S.p.A. dei servizi di intercettazione (cfr. circolare del 4 maggio 2021 del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli: doc. n. 20 allegato ai “motivi nuovi”) e, quindi, la effettuazione di accertamenti sui server CSS e HDM di proprietà di ***** S.p.A. (cfr. successiva ispezione congiunta del 12 maggio 2021: doc. n. 21 allegato ai “motivi nuovi”) della Procura di Napoli e di quella di Firenze (che in data 27 aprile 2021 assumeva anche sommarie informazioni, sulla struttura e il funzionamento dell’architettura di *****, da L.A.: doc. n. 19 allegato i “motivi nuovi”).
Ad avviso del ricorrente sarebbe “emerso, in maniera del tutto pacifica, che, contrariamente a quanto autorizzato dalla Procura della Repubblica di Perugia, il server di gestione del captatore informatico fosse allocato non presso la Procura della Repubblica di Roma, ma all’interno di uffici della ***** S.p.A. siti in *****”, con conseguente sussistenza della violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, e quindi inutilizzabilità di tutte le intercettazioni disposte, in assenza di controllo degli inquirenti, che “non conoscevano l’esistenza di ben due server di trasmissione dei dati”, non essendovi “alcuna prova che tali impianti siano stati noleggiati dalla procura di Napoli ovvero sottoposti al suo controllo, costante ed efficace”.
Tanto verrebbe a costituire factum superveniens, equiparabile allo jus superveniens e tale da potersi dedurre in sede di legittimità, in quanto idoneo ad incidere sull’oggetto della causa in ragione “della circostanza che le captazioni informatiche mediante trojan horse sono state l’unico elemento di prova posto a base dell’affermazione della responsabilità disciplinare nei confronti del Dott. P.”.
10.4. – In correlazione alle anzidette censure il ricorrente – come detto (cfr. supra p. 6 dei “Fatti di causa” e supra p. 1.2.) – ha presentato, e reiterato, istanza di differimento dell’udienza pubblica, depositando a sostegno ulteriore documentazione.
In particolare, sono stati prodotti in questa sede: l’atto di trasmissione, da parte della Procura Generale della Corte di cassazione alla Sezione disciplinare del C.S.M., del decreto di ispezione del 12 maggio 2021; il verbale d’udienza del 4 giugno 2021 dinanzi al G.U.P. del Tribunale di Perugia e la pedissequa ordinanza del medesimo G.U.P. con la quale è stata disposta – all’esito degli accertamenti ispettivi di cui al citato decreto del 12 maggio 2021 – l’acquisizione di copia informatica, al fine di verificarne il contenuto, dei file relativi al captatore informatico inoculato sullo smartphone del Dott. P. ancora presenti sul server CSS della società ***** S.p.A. ubicato presso i locali della Procura della Repubblica di Napoli.
10.5. – L’istanza di differimento della discussione in udienza pubblica e le censure veicolate con il motivo di ricorso non Possono essere accolte per le ragioni di seguito evidenziate.
L’error in procedendo denunciato dal ricorrente investe la corretta applicazione della norma di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, là dove prescrive, ai fini delle esecuzioni delle operazioni di intercettazione, che “(l)e operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica”.
Si assume – in ricorso e, poi, con i “motivi nuovi” e con le stesse istanze di differimento dell’udienza di discussione – che dette “operazioni” sarebbero state effettuate fuori dei locali della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, contrariamente a quanto accertato nella sentenza impugnata (confermativa dell’ordinanza del 2 ottobre 2020) sulle base delle dichiarazioni testimoniali dell’ing. B., descrittive del funzionamento della complessiva architettura del sistema tecnologico utilizzato per effettuare, sul dispositivo mobile (smartphone) del Dott. P., le intercettazioni delle sue conversazioni e comunicazioni mediante l’impiego del captatore informatico.
Dunque, il “fatto processuale”, oggetto della cognizione rimessa a questa Corte ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), verte sulla localizzazione effettiva delle “operazioni” di intercettazione in ragione di quanto stabilito – a pena di inutilizzabilità dei risultati probatori (art. 271 c.p.p., comma 1) – dall’art. 268 c.p.p., comma 3.
A tal riguardo, occorre precisare, alla luce dell’orientamento consolidato di questa Corte (Cass. pen., S.U., 23 settembre 2008, n. 36359; Cass. pen., 29 aprile 2014, n. 17879; Cass. pen., 17 febbraio 2015, n. 6846; Cass. pen., 16 novembre 2017, n. 52464), che il legislatore, là dove ha previsto che le operazioni possono compiersi esclusivamente “per mezzo” degli impianti installati nella procura della Repubblica, ha inteso riferirsi al “momento decisivo” (così la citata Cass. pen., S.U., n. 36359/2008) della registrazione delle intercettazioni, quale segmento di tale più complessa attività di ricerca della prova.
Sicché, per quanto specificamente rileva in questa sede, va ribadito il principio secondo cui condizione necessaria per l’utilizzabilità delle intercettazioni è che l’attività di registrazione – che, sulla base delle tecnologie attualmente in uso, consiste nella immissione dei dati captati in una memoria informatica centralizzata – avvenga nei locali della Procura della Repubblica mediante l’utilizzo di impianti ivi esistenti.
A supporto della denunciata violazione processuale (e della correlata istanza di differimento d’udienza) il ricorrente non indica alcun atto già acquisito al presente processo, nel grado di merito, che possa dare contezza del dedotto error in procedendo, ma si affida a documentazione formatasi, tutta, successivamente alla pubblicazione (in data 21 dicembre 2020) della sentenza impugnata, come di seguito precisato.
Si tratta, in primo luogo, della perizia dell’ing. R. del gennaio 2021, che è atto investigativo di parte avente, in sé, natura eminentemente valutativa dei fatti ivi rappresentati, intervenuto nel procedimento disciplinare n. 93/2019, concernente la posizione dell’on. F..
Peraltro, va osservato che di detta perizia sono riportate, nel ricorso (pp. 53-55, parte in corsivo), le conclusioni (che sarebbero presenti, ad avviso del ricorrente, a “pag. 35”), le quali, tuttavia, corrispondono solo in parte a quelle presenti nell’elaborato allegato al ricorso come doc. n. 11.
Il richiamo alla p. 35 è erroneo, perché riguarda il “verbale di consegna ed acquisizione dispositivo mobile”. Il rinvio deve, pertanto, intendersi alla p. 32 della medesima perizia.
Tanto premesso, va sottolineato che nelle conclusioni non è presente alcun riferimento ad indicazioni fornite da Fastweb che “hanno consentito di risalire alla localizzazione di questo IP (*****) presso la sede ***** sita a *****, quindi in un luogo geograficamente diverso da quello indicato nello schema rappresentato sulla relazione depositata da ***** (Procura di Roma)”, contrariamente a quanto invece riportato a p. 54 del ricorso, in cui sono altresì trascritte ulteriori considerazioni finali del perito che, del pari, non risultano affatto nel testo della perizia depositata con il ricorso.
Ben altre sono le conclusioni sul punto del perito Ing. R. (p. 32). Quest’ultimo afferma preliminarmente, ai fini della identificazione dell’indirizzo/i IP con il/i quale/i il trojan installato sullo smartphone in esame riceveva o trasmetteva dati e/o informazioni)”, che “tramite l’analisi dell’app Carrier effettuata tramite tecniche di reverse engineering su una copia della stessa versione estratta da un altro telefono infetto, detto IP appare essere il *****, che risulta essere un indirizzo gestito dalla società *****”. Quindi, il consulente di parte precisa che “(n)ell’ambito delle indagini difensive non è possibile determinare dove si possa collocare questo server IP” e che “tuttavia queste informazioni sono facilmente recuperabili nel caso vengano effettuate le opportune richieste da parte dell’Autorità Giudiziaria. Per tale ragione si suggerisce al Committente di valutare la richiesta di tale approfondimento all’AG, in modo da poter completare la ricostruzione del transito di questi dati e le relative corrispondenze o meno rispetto a quanto asserito da *****”.
Inoltre, vengono prodotte dal ricorrente le dichiarazioni rese, il 22 aprile e il 3 maggio 2021, dall’ing. B. all’Autorità giudiziaria (rispettivamente, di Firenze e di Perugia), anch’esse rappresentative di fatti, inerenti all’architettura del sistema di intercettazione con captatore informatico utilizzato nei confronti dell’incolpato, che, come tali (in quanto provenienti da prova dichiarativa) richiedono un apprezzamento, ad ampio spettro (a partire dal profilo dell’attendibilità del dichiarante), nell’ambito delle complessive circostanze fattuali acquisite al processo.
Peraltro, va comunque evidenziato (in estrema sintesi) che da esse emerge, in ogni caso, che, in base alla citata architettura informatica (un server CSS, un server HDM (soltanto fino ad una certa data) e un server IVS), il server CSS gestiva i dati in ingresso dei captatori, il server HDM li smistava al server IVS che era il server di destinazione finale, ossia di registrazione (o memorizzazione) dei dati, il quale era collocato presso la Procura della Repubblica di Roma (cfr. i documenti allegati ai “motivi nuovi”: doc. n. 14, p. 3; doc. n. 15, pp. 11, 46, 47, 56, 57).
Questa architettura non trova smentita nelle dichiarazioni rese dai periti di parte ing. R. e Dott. M. nella stessa udienza del 3 maggio 2021 (doc. n. 15 allegato ai “motivi nuovi”) ed è confermata dalle dichiarazioni rese, come persona informata sui fatti, dal tecnico L.A. alla Procura della Repubblica di Firenze (verbale del 27 aprile 2021, doc. n. 20 allegato ai “motivi nuovi”).
Ed ancora sono stati prodotti dalla difesa del ricorrente – oltre alla circolare del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli di sospensione dell’affidamento alla ***** S.p.A. dei servizi di intercettazione telematica (doc. n. 21 allegato ai “motivi nuovi”) – vari atti delle Autorità giudiziarie di Firenze, Napoli e Perugia concernenti lo scambio di informazioni (docc. n. 12, n. 13 e n. 19 allegati ai “motivi nuovi”; doc. del 3 giugno 2021, trasmissione alla Procura della Repubblica di Perugia di “delega ed avviso di accertamenti tecnici non ripetibili”, allegato all’istanza difensiva del 4 giugno 2021) e/o l’impulso investigativo (decreto di ispezione del 12 maggio 2021, doc. n. 22 allegato ai “motivi nuovi”) e/o l’istruzione probatoria (verbale di udienza e pedissequa ordinanza del G.U.P. del Tribunale di Perugia del 4 giugno 2021, allegato all’istanza difensiva del 4 giugno 2021) in riferimento al tema di indagine della ubicazione dei dispositivi tecnici del sistema di intercettazione mediante captatore informatico utilizzato nei confronti del Dott. P. e al relativo funzionamento.
Allo stesso tema di indagine appartiene anche l’atto depositato in udienza dal pubblico ministero, ossia la relazione sulla attività ispettiva, disposta con il citato decreto del 12 maggio 2021, compiuta il 24 maggio 2021 dal Servizio di polizia postale e delle comunicazioni (C.N. A.I.P.I.C.), nella quale si dà atto, tra l’altro, della funzione del server IVS, installato “da ***** in ogni Procura della Repubblica con cui opera” e “deputato alla stabile memorizzazione dei dati intercettati e alla loro consultazione da parte delle P.G. autorizzate” (cfr., segnatamente, pp. 9 e 11).
Peraltro, nella relazione del C.N. A.I.P.I.C. si dà conto, altresì, del rinvenimento nel server CSS sito presso i locali della Procura di Napoli di 20 file relativi al RIT 175/19 di cui al proc. penale n. 6652/2018, pendente dinanzi all’Autorità giudiziaria di Perugia, quale emergenza da cui è derivata la citata ordinanza del 4 giugno 2021 con la quale il G.U.P. ha disposto la acquisizione dei suddetti 20 file, al fine di verificarne il contenuto.
10.6. – Sulla base di quanto sinora esposto è evidente che i documenti prodotti in questa sede si collocano all’esterno del perimetro entro cui, di regola, è tenuta questa Corte a delibare l’error in procedendo e, là dove essi esprimono una vocazione probatoria, si configurano, invece, per natura e contenuti, come “nuova prova” e non sono rappresentativi, comunque, di un factum superveniens, equiparabile allo jus superveniens, così da risultare inammissibili nel presente giudizio di cassazione (cfr. i principi enunciati supra p.p. 4.1., 4.2. e 5.1.; nonché, per analogia di argomentazioni, supra p. 9.9., anche in riferimento alla non pertinenza dell’evocazione del vizio motivazionale di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e)).
Invero, con la documentazione allegata per la prima volta nel giudizio di legittimità, il ricorrente, a sostegno della denuncia inutilizzabilità delle intercettazioni mediante impiego del captatore informatico per violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, sollecita questa Corte, in contrasto con i compiti ad essa assegnati dall’ordinamento, ad accertare, con valutazioni tipiche del giudizio di merito, non costrette, quindi, in predeterminati moduli procedurali, ma implicanti una ponderazione complessiva e coordinata del compendio probatorio, nonché mediante una non consentita attività istruttoria, i fatti storici presupposti dal thema probandum e che attengono alla verifica della effettiva localizzazione delle operazioni di intercettazione; ossia, come detto, della registrazione o memorizzazione delle conversazioni intercettate, quale segmento di attività che unicamente rileva ai fini del rispetto della citata previsione di legge processuale.
I documenti prodotti non provano con la necessaria immediatezza rappresentativa il “fatto processuale” contrastante con l’accertamento operato dal giudice di merito e in grado di dimostrare il denunciato error in procedendo, ossia che la registrazione delle intercettazioni non avveniva sul server della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Pertanto, essi non scalfiscono la valenza probatoria degli elementi su cui la sentenza impugnata ha basato l’accertamento e ha rigettato l’eccezione di inutilizzabilità.
L’accertamento del Giudice disciplinare si è formato sui dati processuali acquisiti (ossia, ex actis) non certo equivoci in punto di rappresentazione del fatto che le operazioni di registrazione delle intercettazioni (e soltanto queste, come voluto da Cass. pen, S.U., n. 36359/2008 e dalla successiva giurisprudenza conforme) siano state compiute per mezzo di impianti installati presso la Procura della Repubblica di Roma.
Posto, dunque, che, a fronte di siffatto inequivoco accertamento ad opera della sentenza impugnata, sono proprio le ulteriori e ad essa successive acquisizioni processuali che non forniscono un riscontro effettivo di una differente realtà materiale (ossia, quella ipotizzata dal ricorrente), ne consegue, altresì, che, al fine di sostenere la ricorrenza nel caso di specie dell’inutilizzabilità “patologica” per violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, non è neppure pertinente il richiamo (avvenuto in sede di discussione orale) alla sentenza di questa Corte n. 40209 del 29 settembre 2014, giacché in tale pronuncia il predetto vizio ha trovato rilievo, ex actis, in ragione della diversa ipotesi di obiettiva incertezza sul luogo di effettivo svolgimento delle operazioni di registrazione, nonché sugli impianti concretamente utilizzati.
10.7. – Del resto, il ricorrente non sarebbe privo di tutela qualora dovesse, in ipotesi, risultare in seguito che le registrazioni delle intercettazioni non siano state effettuate presso gli impianti installati presso la Procura della Repubblica di Roma.
In tale ipotesi, allo stato priva di qualsiasi evidenza, ben potrebbe attivare il rimedio della revisione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 25.
Quest’ultimo contempla sia la fattispecie (comma 1, lett. a), della incompatibilità dei “fatti posti a fondamento della sentenza… con quelli accertati in una sentenza penale irrevocabile ovvero in una sentenza di non luogo a procedere non più soggetta ad impugnazione”, sia la fattispecie (comma 1, lett. b) della sopravvenienza o della scoperta, dopo la decisione, di “nuovi elementi di prova, che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento disciplinare, dimostrano l’insussistenza dell’illecito”.
10.8. – Alla luce delle complessive considerazioni che precedono, per un verso, non può darsi seguito all’istanza di differimento dell’udienza pubblica di discussione del ricorso e, per altro verso, vanno dichiarate inammissibili le censure svolte con il motivo in esame e con la memoria ex art. 378 c.p.c., denominata “motivi nuovi”.
Il quarto motivo di ricorso.
11. – Con il quarto mezzo è dedotta “(m)otivazione mancante illogica in ordine all’eccezione sollevata dalla difesa quanto alla inutilizzabilità delle conversazioni registrate con il captatore informatico nel procedimento disciplinare”; e’, quindi, prospettata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lettere c) ed e), la violazione dell’art. 8 CEDU, e art. 270 c.p.p., comma 1 bis, nonché denunciata “la omessa motivazione sulla questione della inutilizzabilità in procedimenti diversi delle conversazioni registrate con il captatore informatico” e viene, altresì, avanzata eccezione di legittimità costituzionale del citato art. 270, comma 1 bis.
11.1. – La difesa del ricorrente deduce, anzitutto, che la sentenza impugnata non avrebbe affatto motivato sulla questione (sollevata con la memoria depositata all’udienza dell’8 ottobre 2020) della utilizzabilità delle conversazioni registrate con il captatore informatico in procedimenti diversi, ai sensi dell’art. 270 c.p.p., comma 1 bis, (come modificato dalla L. n. 7 del 2020, in sede di conversione del D.L. n. 161 del 2019), tale dovendosi ritenere anche il procedimento disciplinare.
Viene, al riguardo, richiamata la sentenza del 2 gennaio 2020, n. 51 delle Sezioni Unite penali, secondo la quale, al di fuori di limitatissime eccezioni (accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza; reati connessi ex art. 12 c.p.p. e solo se per tali reati l’intercettazione sia ammissibile ex artt. 266 e 267 c.p.p.), la “regola” della inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni deve “trovare impiego relativamente a fattispecie di reato… diverse da quelle per le quali sono state disposte”.
Una siffatta ottica “restrittiva” rispetto all’utilizzo dei risultati delle operazioni captative – si sostiene in ricorso – “non può non valere, a fortiori, per procedimenti diversi di natura extra penale, quale appunto quello disciplinare, peraltro relativo a fatti ulteriori nonché estranei e qualitativamente differenti rispetto al fatto-reato alla base dell’attività captativa autorizzata dal giudice”.
Nel procedimento disciplinare, invece, vengono in rilievo diritti fondamentali che impongono il rispetto anche delle garanzie convenzionali e, tra queste, quelle dell’art. 8 CEDU, che “richiede la sussistenza di una “base legale” quale presupposto per l’ingerenza statale nella vita privata e familiare del soggetto attinto dall’intercettazione, individuando al contempo la proporzionalità come limite a tale compressione” (in tal senso, Corte EDU 7 giugno 2016, Karabeyoglu c. Turchia).
Secondo il ricorrente, sarebbe erronea l’affermazione della Sezione disciplinare secondo la quale le intercettazioni sono utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante magistrati, in quanto l’art. 270 c.p.p., concerne “procedimenti penali altri” e non già “procedimenti tipologicamente diversi da quello penale”, come quello disciplinare. Sarebbe, infatti, assente una specifica “base legale” che disciplini l’utilizzabilità delle intercettazioni nel procedimento disciplinare, soprattutto dopo che il legislatore del 2020 ha riscritto in termini ancor più restrittivi l’art. 270 c.p.p., là dove il “diritto giurisprudenziale” come pure rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 230 del 2012 – non potrebbe, comunque, “surrogare” la mancanza di una “previsione legislativa” in ambito penalistico, spettando il potere di normazione in tale ambito al solo Parlamento.
11.2. – Nell’eventualità che venisse confermato l’indirizzo giurisprudenziale per cui “l’utilizzazione delle intercettazioni in sede disciplinare non soffre i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p.”, il ricorrente solleva eccezione di legittimità costituzionale del medesimo art. 270, nell’interpretazione accolta dal “diritto vivente”, per contrasto con l’art. 15 Cost., e – per il tramite del parametro interposto di cui all’art. 117 Cost., comma 1, – con l’art. 8 CEDU, “difettando tanto la “base legale” della (pretese illimitata) ingerenza statale, quanto la proporzione tra la grave compressione dei diritti individuali e la portata offensiva dell’illecito disciplinare che dovrebbe giustificarla”.
Una tale conclusione – si sostiene ancora nel ricorso – varrebbe ancor più nel caso di specie, in cui le intercettazioni utilizzate nel procedimento disciplinare “nulla hanno a che vedere con l’indagine penale da cui originano” (procedimento penale n. 321/2019 iscritto il 17 gennaio 2019 nei confronti di P., A., C. e L. per il reato di cui all’art. 319 c.p.), giacché con un provvedimento del 3 aprile 2020 sono venute meno le ipotesi accusatorie.
Pertanto, se la compressione del diritto inviolabile alla libertà e segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.) può pure aversi a fronte di un determinato reato, “ma non a detrimento di chi sia autore di reati di minor gravità, o che non abbiano alcun rapporto di connessione con quello in relazione al quale l’intercettazione sia stata autorizzata, a maggior ragione non sarà possibile consentire il sacrificio in relazione a vicende – di dichiarato rilievo extra penale – che non hanno alcuna connessione con quelle del procedimento penale “genetico””.
11.3. – Con la memoria ex art. 378 c.p.c., denominata “motivi nuovi”, nel contesto del secondo motivo (cfr. p. 2 e relativi p.p. da 2.1. a 2.6., pp. 15-25), la difesa del ricorrente argomenta, ulteriormente, sulla “(n)ullità della sentenza per la ritenuta piena utilizzabilità nel giudizio disciplinare degli esiti dell’attività di intercettazione disposta nel procedimento penale”, adducendo, in primo luogo, che i cinque criteri delineati dalla Corte costituzionale (sent. n. 49 del 2015) con i quali pone dei limiti al potere vincolante dei principi forniti dalla giurisprudenza della Corte EDU al giudice interno non sarebbero in linea con la sentenza della stessa Corte di Strasburgo 28 giugno 2018, GIEM s.r.l. e altri c. Italia, che avrebbe criticato il preteso requisito del “diritto consolidato”, evidenziando che “le sue sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico”.
Peraltro, si sostiene ancora nella memoria, sarebbe comunque “diritto consolidato” quello della Corte EDU in tema di “ingerenza” nel diritto universale alla riservatezza, tutelato dall’art. 8 CEDU, trovando equiparazione, quanto allo strumento dell’ingerenza, “l’intercettazione di conversazioni, e-mail e comunicazioni via internet (ovvero il cd. “contenuto interno” della comunicazione), l’acquisizione dei dati esterni alle comunicazioni, la sorveglianza strategica e la sorveglianza via GPS (ovvero il cd. “dato esterno”, come la “data retention”), che costituiscono, in egual misura e indipendentemente dal grado di ingerenza, violazione del diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza, qualora non limitate secondo i principi di proporzionalità per il contrasto con altri diritti fondamentali contrapposti”.
La equiparazione dei diversi livelli di ingerenza, dalle intercettazioni alla mera “data retention”, con la necessità di estendere la disciplina maggiormente rigorosa delle prime alla seconda, trova conforto nella sentenza della Corte EDU 13 settembre 2018, Big Brother Watch c. Regno Unito; pertanto, là dove la stessa Corte si riferisce soltanto alla mera “data retention” deve intendersi che i medesimi principi valgano, in senso estensivo, anche alle intercettazioni.
In ogni caso, il diritto formatosi in tema di equiparazioni delle intercettazioni alla “data retention” in termini di vincolo per il giudice interno alle pronunce della Corte EDU discenderebbe dal riconoscimento del diritto alla riservatezza da parte dell’art. 8 della Carta Europea dei diritti fondamentali (Carta di Nizza), in forza di quanto disposto dall’art. 52, comma 3, della stessa Carta. Alla luce dell’anzidetta equiparazione andrebbe letta la sentenza della Corte di giustizia del 2 marzo 2021, in C-746/2018, per cui anche per le intercettazioni andrebbero valutati i parametri di legittimità individuati dalla CGUE negli “obiettivi di lotta contro le forme gravi di criminalità o della prevenzione di gravi minacce per la sicurezza pubblica” e ciò “soprattutto nelle ipotesi di utilizzo delle intercettazioni autorizzate nel procedimento penale, verso altri procedimenti” e, segnatamente, quello disciplinare a carico dei magistrati.
Del resto, tale interpretazione si rinverrebbe già in seno all’art. 270 c.p.p., poiché “ogni intrusione alla riservatezza deve apparire giustificata da un controinteresse di eguale spessore che limita ragionevolmente l’utilizzabilità delle intercettazioni per reati diversi da quello oggetto di autorizzazione e da quelli adesso connessi, tutelando il diritto alla riservatezza attraverso il divieto di una propagazione senza limiti del contenuto dei colloqui captati”.
Sicché, sebbene con riguardo ai procedimenti extra penali non si rinvengano norme limitative analoghe all’art. 270 c.p.p., “e’ altrettanto vero che i limiti imposti dall’art. 270 c.p.p., trascendono la natura del giudizio in cui i risultati captati vi siano riversati, in quanto garantiscono un diritto “inviolabile quale che sia la natura del procedimento nel quale i risultati vengono utilizzati””, assumendo detta disposizione il rango di “norma ricognitiva di un principio immanente all’ordinamento, e non quale norma attributiva di una originaria situazione soggettiva di tutela”.
Dunque, posto che la motivazione del decreto autorizzativo dell’intercettazione deve dare conto del giudizio di proporzionalità contemperante gli interessi in campo e che tale principio è richiamato dall’art. 267 c.p.p., là dove impone di autorizzare l’attività captativa solo se assolutamente indispensabile, ciò che viene a mancare nel procedimento disciplinare – ad avviso del ricorrente – “e’ proprio la valutazione della “assoluta indispensabilità”, non rilevando tanto l’assenza, nella disciplina, di un divieto probatorio come quello previsto nel processo penale dall’art. 270 c.p.p., quanto la violazione della stessa garanzia costituzionale, non essendo stato vagliato nuovamente e preventivamente dal giudice se sussistano anche per tale procedimento i presupposti per il rilascio del decreto di autorizzazione”, con conseguente inutilizzabilità dei risultati captati in violazione del diritto alla riservatezza.
11.4. – Il motivo, nel suo complesso, non può trovare accoglimento.
La censura che deduce la violazione dell’art. 270 c.p.p., è – alla stregua di quanto in precedenza illustrato (supra p. 1.3.3.4.; ma anche supra p. 3.2.1.) – da scrutinarsi soltanto come deduzione di un vizio di violazione di legge (processuale), essendo irrilevante la denuncia di un vizio di (omessa o contraddittoria) motivazione allorquando, come nella specie, l’asserito errore attiene ad una questione di diritto e non di fatto, ben potendo, poi, questa Corte, ove sia corretto il dispositivo, provvedere a rettificare la motivazione ai sensi dell’art. 619 c.p.p..
11.5. – Va, poi, rammentato – alla luce di un orientamento consolidato (cfr. Cass., S.U., 27 luglio 2018, n. 20028 ed ivi il richiamo ad altri precedenti anche delle Sezioni penali di questa Corte) – che non sussiste un obbligo di diretta applicazione delle norme della Convenzione da parte dei giudici nazionali, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.
La CEDU non crea, infatti, un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, configurandosi piuttosto come trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico nazionale in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme direttamente vincolanti per le Autorità interne.
Pertanto, non è ammissibile la diretta denuncia di violazione di una norma della Convenzione quale vizio rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., potendosi semmai invocare la norma convenzionale (come, del resto, è anche prospettato dal ricorso in esame) o come criterio interpretativo di una norma nazionale direttamente applicabile o quale norma interposta, ai sensi dell’art. 117 Cost., che giustifichi il dubbio di incostituzionalità della norma nazionale.
11.6. – Ciò premesso, il Collegio non ravvisa, negli argomenti che il ricorrente porta a sostegno dei motivi di doglianza, ragioni tali da imporre un mutamento di giurisprudenza riguardo ad un principio di diritto consolidato (Cass., S.U., 29 maggio 2009, n. 12717; Cass., S.U., 23 dicembre 2009, n. 27292; Cass., S.U., 24 giugno 2010, n. 15314; Cass., S.U., 12 febbraio 2013, n. 3271; Cass., S.U., 12 giugno 2017, n. 14552; Cass., S.U., 15 gennaio 2020, n. 741) e di recente ribadito con ampie considerazioni (Cass., S.U., 8 aprile 2021, n. 9390 e n. 9391), anche nella prospettiva della conformità convenzionale dell’interpretazione nomofilattica adottata.
Pertanto, il principio che occorre qui riaffermare è quello (come massimato dalla sentenza n. 9390/2021) secondo cui:
“in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, il rispetto delle regole del codice di procedura penale è prescritto nel D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 16 (per l’attività di indagine) e 18 (per il dibattimento), nei limiti della loro compatibilità col procedimento speciale, il quale è volto a garantire – sempre nel rispetto dell’inviolabile diritto di difesa dell’incolpato – l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari e, dunque, il più penetrante controllo del CSM sulla correttezza dei comportamenti dei magistrati; ne consegue l’inapplicabilità, nel procedimento disciplinare, dell’art. 270 c.p.p., riguardante i limiti di utilizzazione, nell’ambito del processo penale, dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali queste ultime sono state disposte”.
Le ragioni, sempre valide (che il Collegio intende ribadire e precisare), le quali hanno concorso a dare forza e vitalità a questa soluzione interpretativa, muovono, per l’appunto, dalla connotazione di specialità del procedimento disciplinare dei magistrati, la cui base legale (segnatamente, il D.Lgs. n. 109 del 2006, citati artt. 16 e 18) trova ispirazione nel principio fondamentale della ricerca della verità materiale (Corte Cost., sentenza n. 255 del 1992) – oggetto di limitazioni nel processo penale, in cui viene in gioco la libertà personale -, affinché quell’azione di contrasto demandata dalla Costituzione (art. 105) al C.S.M. riesca davvero efficace, in quanto volta a garantire il corretto funzionamento della giustizia.
E’, quindi, un’azione di contrasto che si rende funzionale alla tutela dei valori-principi espressi dal Titolo IV della Parte II della Costituzione e che giustifica, pertanto, anche nel contesto della responsabilità disciplinare dei magistrati (e non solo, dunque, in ambito penale, in forza dell’interesse pubblico primario alla repressione dei reati: Corte Cost., sentenze n. 366 del 1991 e n. 65 del 1994), la limitazione del diritto inviolabile alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.) in ragione del bilanciamento – sistemico e non frazionato, nonché privo di gerarchie (Corte Cost., sentenze n. 264 del 2012 e n. 85 del 2013) – tra valori-principi costituzionali.
Del resto, la tutela dei valori-principi di cui all’art. 101 Cost. e ss. – di cui pure si fa carico la complessiva disciplina sulla responsabilità disciplinare dei magistrati (D.Lgs. n. 109 del 2006) riguarda (secondo un’icastica espressione di sintesi) il prestigio dell’ordine giudiziario (così già Corte Cost., sentenza n. 145 del 1976), “che rientra senza dubbio tra i più rilevanti dei beni costituzionalmente protetti” (cfr. ancora la citata sentenza n. 145/1976), siccome volto a preservare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura nel suo complesso (art. 104 Cost.), quali principi cardine di un assetto di garanzie che non costituisce un privilegio personale del singolo appartenente all’ordine giudiziario, ma è “tassello indefettibile, al pari di altri, nella costruzione della forma repubblicana, che, ai sensi dell’art. 139 Cost., non può in nessun caso essere oggetto di revisione” (Cass., 3 gennaio 2014, n. 41).
La tutela di quei valori “si riverbera anche sulla non negoziabilità dei diritti che la Prima parte della Costituzione definisce inviolabili” e che rappresentano il substrato essenziale del tipo di ordinamento così delineato dal Costituente, “il cui presidio, in termini di tutela ed effettività, si rinviene, nel foro svolgersi storico, anche (seppur non solo) nell’esercizio stesso della giurisdizione (…) vale a dire l’applicazione imparziale e indipendente della legge” (così ancora Cass. n. 41/2014; in termini analoghi, più di recente, Corte Cost., sentenza n. 41 del 2021).
Pertanto, l’autentico significato che l’indipendenza della magistratura assume nel sistema costituzionale è proprio quello della garanzia dei diritti e delle libertà dei “cittadini” (secondo una ampia accezione del termine, poiché, là dove quei diritti e libertà sono proclamati inviolabili dalla Costituzione, spettano “ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”: Corte Cost., sentenza n. 105 del 2001) e in tal senso quell’indipendenza è un bene che appartiene all’intera collettività (Corte Cost., sentenza n. 497 del 2000).
Si tratta, del resto, di principi che sono patrimonio comune della tradizione giuridica Europea (e non solo), come la stessa Corte EDU ha avuto modo di ribadire, affermando che le “questioni che riguardano il funzionamento della giustizia, istituzione essenziale in qualsiasi società democratica, rientrano nell’interesse generale” e che l’azione del potere giudiziario, “garante della giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto,… ha bisogno della fiducia dei cittadini per prosperare (sentenza 9 luglio 2013, Di Giovanni c. la Repubblica italiana, p. 71).
11.7. – Un siffatto bilanciamento tra valori-principi costituzionali, inoltre, è reso possibile anche dal pieno rispetto del diritto inviolabile di difesa dell’incolpato (artt. 24 e 111 Cost.), che il procedimento disciplinare dei magistrati, pur nella sua connotazione di specialità, è tenuto ad assicurare, ed assicura, in ragione, anzitutto, della sua piena natura giurisdizionale (cfr. Corte costituzionale, sentenze n. 289 del 1992, n. 71 del 1995 e n. 497 del 2000; ordinanza n. 530 del 2000).
Tale natura è stata riconosciuta dalla stessa Corte EDU, la quale ha escluso che possa comportare una violazione dell’art. 6, p. 1, CEDU il fatto che sia un organo interno alla magistratura stessa a decidere in merito agli illeciti disciplinari, poiché la Sezione disciplinare del C.S.M. è un “organo giudiziario di piena giurisdizione” (Corte EDU, sentenza Di Giovanni, citata, p. 53).
In questo contesto generale, la clausola di compatibilità della regolamentazione del procedimento disciplinare con quella del rito penale non rende applicabile al procedimento disciplinare la previsione dell’art. 270 c.p.p.. Ciò, però, non impedisce il controllo giurisdizionale prescritto dall’art. 15 Cost., garantito dalla facoltà, riconosciuta al magistrato incolpato, di eccepire l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non legalmente disposte o non legalmente effettuate nel procedimento penale a quo (cfr. Cass., S.U., n. 9390 e n. 9391 del 2021, citate).
Queste garanzie difensive hanno trovato effettività nel presente procedimento disciplinare, in cui il Dott. P. ha potuto ampiamente sollevare nel giudizio dinanzi alla Sezione disciplinare e reiterare in questa sede di legittimità le predette eccezioni.
Alla luce di quanto sinora evidenziato e, segnatamente, dei principi enunciati dalle ricordate sentenze delle Sezioni Unite civili del 2021, consegue, pertanto, che è irrilevante nel presente procedimento disciplinare la questione dei limiti di utilizzabilità delle intercettazioni in base a quanto prescrive l’art. 270 c.p.p., anche tenuto conto dell’interpretazione fornita dalla sentenza delle Sezioni Unite penali n. 51 del 2020 “Cavallo”, che del disposto dell’art. 270 c.p.p., comma 1 bis, (introdotto dalla L. n. 7 del 2020) con specifico riferimento alle intercettazioni mediante captatore informatico, giacché le norme anzidette trovano applicazione ai soli procedimenti penali.
11.8. – Tale risultato ermeneutico priva di consistenza i dubbi di costituzionalità sollevati dal ricorrente, in riferimento ai parametri di cui all’art. 15 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, e, attraverso quest’ultimo, al parametro interposto dell’art. 8 CEDU.
La citata norma convenzionale va letta alla luce della giurisprudenza del suo interprete istituzionale, come, del resto, questa Corte (cfr., segnatamente, sentenze n. 9390 e n. 9391 del 2021) ha già messo in rilievo, senza sottrarsi, quindi, al dialogo con la Corte EDU, ma traendo proprio dalle pertinenti pronunce di quella Corte i principi che danno sostanza alla ritenuta conformità convenzionale della inapplicabilità dell’art. 270 c.p.p., al procedimento disciplinare dei magistrati. E tanto rende prive di fondamento giuridico anche le argomentazioni difensive, sviluppate in termini più generali nei “motivi nuovi”, sulla portata e sui vincoli derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU.
In particolare, con le citate sentenze n. 9390 e n. 9391 del 2021 (p.p. 35-39), queste Sezioni Unite hanno messo in rilievo come nella giurisprudenza della Corte EDU la dedotta violazione dell’art. 8 della Convenzione sia stata apprezzata, in riferimento ad intercettazioni di comunicazioni (di per sé costituenti “ingerenza” nella “vita privata”) disposte in un procedimento penale e poi utilizzate in un procedimento disciplinare (nei confronti di avvocati e/o di magistrati), sotto due profili:
a) la presenza, o meno, di una base legale per l’utilizzo delle intercettazioni nel procedimento (disciplinare) ad quem;
b) la possibilità di esercitare sulle intercettazioni, disposte nel giudizio (penale) a quo, un controllo efficace nel giudizio (disciplinare) ad quem.
Quanto al profilo sub a), le sentenze della Corte EDU “KarabeyoOlu” (del 7 giugno 2016) e “Emina0aoOlu” (del 9 marzo 2021), in vicende disciplinari riguardanti magistrati turchi, hanno accertano (in base al medesimo ragionamento) la violazione dell’8CEDU in quanto l’utilizzo delle intercettazioni doveva ritenersi contraria al diritto interno turco (in particolare, per quanto più interessa in questa sede, non essendo l’uso delle intercettazioni nei procedimenti disciplinari menzionato né nella Costituzione, né nel codice di procedura penale turchi) e, quindi, l’ingerenza nella vita privata dei ricorrenti risultava priva di base legale.
Tuttavia, come detto, nel nostro ordinamento, l’utilizzo nel procedimento disciplinare dei magistrati delle intercettazioni di comunicazioni e di conversazioni disposte nel procedimento penale trova la propria base legale nel D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 16 e 18. Si tratta di una base legale che risponde al criterio convenzionale, da ultimo ribadito dalla Corte EDU con la sentenza della Grande Camera del 25 maggio 2021, Big Brother e altri c. Regno Unito, in continuità con la sentenza della stessa Corte, Prima Sezione, del 13 settembre 2018 (le citazioni dalla sentenza del 25 maggio 2021 sono tratte dalla versione tradotta dal Ministero della giustizia).
In essa (p. 327) si rammenta (con richiamo a numerosi precedenti) che “(D’espressione “prevista dalla legge” significa che la misura controversa deve avere una base nel diritto interno (e non deve trattarsi soltanto di una prassi senza una specifica base legale…). La misura deve anche essere compatibile con la preminenza del diritto, espressamente menzionata nel preambolo della Convenzione e inerente all’oggetto e allo scopo dell’art. 8. La legge deve pertanto essere accessibile alla persona interessata e prevedibile per quanto riguarda i suoi effetti”.
In primo luogo, va osservato che la Corte EDU non dubita dell’esistenza di una base legale quanto all’ingerenza costituita dalle intercettazioni di comunicazioni e conversazioni, pure telematiche e informatiche, siccome disciplinate dall’art. 266 c.p.p. e ss., e dalla stessa L. n. 203 del 1991, nonché della prevedibilità ed accessibilità delle relative disposizioni normative, anche per come interpretate dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. sentenza del 10 aprile 2007, Panarisi c. Italia; decisioni del 30 aprile 2013, Cariello e altri c. Italia, dell’11 giugno 2013, D’Auria e Balsamo c. Italia, del 23 febbraio 2016, Capriotti c. Italia).
Il termine “legge” va letto nella sua accezione “materiale” e non “formale”, per cui “in un ambito coperto dal diritto scritto, la “legge” è il testo in vigore come i giudici competenti lo hanno interpretato” (decisione del 23 febbraio 2016, citata).
La nozione di prevedibilità dipende dal contenuto dello strumento in questione, dall’ambito che è destinato a coprire e dal numero e status dei destinatari (sentenza della Grande Camera del 4 dicembre 2008, S. e Marper c. Regno Unito).
Ciò posto, quanto all’utilizzo delle intercettazioni, così regolate, nell’ambito del procedimento disciplinare dei magistrati, risponde senz’altro all’esigenza della “previsione di legge” il disposto normativo dei citati D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 16 e 18, là dove attribuiscono, rispettivamente, al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione il potere di acquisire gli atti dei procedimenti penali “anche coperti da segreto investigativo” ed alla Sezione disciplinare il potere di disporre “la lettura delle prove acquisite nel corso delle indagini”, nonché “l’esibizione di documenti da parte del pubblico ministero, dell’incolpato e del delegato del Ministro della giustizia”.
Ne’ può dubitarsi che un magistrato ordinario abbia accesso alle norme anzidette e possa prevederne gli effetti, ossia l’utilizzazione nel procedimento disciplinare delle intercettazioni disposte in quello penale. Le norme ineriscono, infatti, ad un ambito materiale – quello della responsabilità per la violazione dei doveri che si impongono in ragione dello status professionale rivestito – che riguarda soltanto una categoria di persone, e cioè i magistrati stessi, i quali sono tenuti a conoscere principi e regole che disciplinano il proprio ordinamento di disciplina, anche (come, del resto, è consustanziale all’attività propria di quello status, ossia all’esercizio della giurisdizione) attraverso l’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità, sopra richiamata e ormai del tutto consolidata, ha dato, nei termini anzidetti, delle disposizione recate dai citati artt. 16 e 18.
Quanto al profilo sub b), con le sentenze “Versini-Campinchi et Crasnianskì c. Francia” (del 16 giugno 2016) e “Terrazzoni c. Francia” (del 29 giugno 2016), la Corte di Strasburgo ha escluso la sussistenza della dedotta violazione del diritto tutelato dall’art. 8 CEDU, in quanto (come già evidenziato nelle sentenze delle Sezioni Unite civili n. 9390 e n. 9391 del 2021, citate) alle ricorrenti era stato consentito di: chiedere l’esclusione dal procedimento disciplinare della trascrizione dell’intercettazione in quanto illegale (sentenza “Versini”); consultare la registrazione e la trascrizione dell’intercettazione, nonché spiegare dinanzi al Conseil Supe’rieur de la Magistrature la conversazione intercettata, ricevendo comunicazione di tutti gli atti e con la facoltà di chiedere, sempre nell’ambito del procedimento disciplinare, l’esclusione dagli atti della trascrizione controversa (cfr. sentenza “Terrazzoni”).
In definitiva, la Corte EDU ha ascritto decisiva rilevanza, ai fini del rispetto dell’art. 8 CEDU, alla possibilità di esercitare, nel giudizio ad quem, un controllo efficace sulle intercettazioni disposte nel giudizio a quo, ciò che trova pieno riscontro nella disciplina recata dal D.Lgs. n. 109 del 2006 (tramite gli artt. 16 e 18), che riconosce all’incolpato ampia facoltà di contestare in sede disciplinare i risultati di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non legalmente disposte o non legalmente effettuate nel procedimento penale a quo, di cui è necessario, su specifica e tempestiva richiesta, acquisire nel procedimento disciplinare i relativi supporti materiali, così da consentirne l’ascolto all’incolpato stesso.
11.9. – Il ricorrente richiama in ricorso anche il profilo della “proporzione” tra la compressione, grave, del diritto fondamentale tutelato dall’art. 15 Cost., e dall’art. 8CEDU e la “portata offensiva dell’illecito disciplinare che dovrebbe giustificarla”.
Con i “motivi nuovi” (cfr. sintesi sub p. 11.3.) argomenta anche sull’esigenza di una ancor più intensa tutela nei confronti delle intercettazioni mediante “Trojan Horse”, alla luce della giurisprudenza sovranazionale in materia di “data retention”, assumendo che sarebbe necessario, per fugare ogni dubbio di compatibilità costituzionale e convenzionale, che anche nel procedimento disciplinare venisse effettuata, da parte della Sezione disciplinare, la valutazione di “assoluta indispensabilità” che l’art. 267 c.p.p., impone nell’autorizzare l’attività captativa.
Anzitutto va rilevata la novità (e, dunque, l’inammissibilità) delle questioni legate al tema “data retention”, posto che con la memoria ex art. 378 c.p.c., (alla quale sono riconducibili i “motivi nuovi”) è consentito soltanto illustrare le ragioni di censura già veicolate con il ricorso e non, in contrasto con il diritto di difesa della controparte processuale, ampliare il thema decidendum anche attraverso nuove questioni di dibattito, neppure accennate in precedenza (cfr. supra p. 3).
In ogni caso, in questa sede interessa esaminare il fulcro del ragionamento su cui poggiano le difese del ricorrente e, quindi, verificare se il giudizio di “proporzionalità”, come postulato, valga ad impedire l’utilizzo in sede disciplinare delle intercettazioni disposte in sede penale.
E ciò al di là, dunque, delle problematiche, di ordine più generale, che derivano dall’equiparazione di tutela (anche se non di identità di regolamentazione) tra intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni e “dati di comunicazione associati” o “data retention” (e cioè i dati esterni alle comunicazioni, i quali permettono di acquisire molteplici informazioni personali, tra cui identità e localizzazione), che la Corte EDU (sentenza del 25 maggio 2021, citata) ha (ri)affermato (p. 358), pur rimarcando le differenze tra i due fenomeni e rilevando una maggiore capacità intrusiva nella “vita privata” del secondo.
Sul tema della “data retention” (art. 15 della direttiva 2002/58/CE) è intervenuta anche la Corte di Giustizia (da ultimo sentenza del 2 marzo 2021, in C-746/18), circondando di particolari garanzie, sostanziali e procedimentali, l’accesso ai dati del traffico e di localizzazione delle comunicazioni elettroniche (limitazione a gravi forme di criminalità e di minacce alla sicurezza pubblica, indipendentemente da durata e modalità di acquisizione dei dati; autorizzazione all’acquisizione non attribuibile al pubblico ministero che diriga il procedimento istruttorio penale ed eserciti poi l’azione penale).
Nel procedimento disciplinare a carico dell’incolpato non rilevano, però, i “dati di comunicazione associati”, ma solo le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni.
Alla luce delle considerazioni che precedono e di quanto appresso precisato, il Collegio ritiene di confermare la propria giurisprudenza in materia.
Il principio di proporzionalità nell’utilizzo nel procedimento disciplinare di intercettazioni che siano state già disposte ed effettuate nel procedimento penale, in rapporto alla gravità dei reati e in base a previa autorizzazione del giudice in forza di parametri certi (consistenza degli indizi di reato ed esigenze istruttorie), trova esplicazione essenzialmente nel bilanciamento tra valori costituzionali sopra illustrato e nel controllo, pieno, sulla legalità del procedimento autorizzatorio e sulla effettuazione delle operazioni di captazione (in base alla disciplina dettata dal codice di rito penale, cui rinvia il D.Lgs. n. 109 del 2006).
In quel bilanciamento, come detto, la compressione del diritto fondamentale alla libertà e segretezza delle comunicazioni ha quale termine di raffronto uno “tra i più rilevanti dei beni costituzionalmente protetti” (l’indipendenza della magistratura), là dove, poi, il peculiare atteggiarsi del divieto di trasmigrazione delle intercettazioni ex art. 270 c.p.p., nell’ambito del solo procedimento penale rinviene giustificazione anche in ragione del bene individuale che viene in rilievo, che è quello della libertà personale.
Del resto, come emerge dalla richiamata giurisprudenza della Corte EDU (segnatamente, p.p. 327-334 della sentenza della Grande Camera del 25 maggio 2021, Big Brother e altri c. Regno Unito, ed ivi ulteriori citazioni di precedenti), la verifica della legislazione che autorizza la “sorveglianza segreta” attiene al fatto che la misura sia “prevista dalla legge” e che risulti “necessaria in una società democratica”; in quest’ultimo caso che offra, cioè, “garanzie e salvaguardie sufficienti ed efficaci contro gli abusi”.
In particolare, poi, quanto alle intercettazioni di comunicazioni nell’ambito di indagini penali, la Corte EDU ha enucleato sei elementi “minimi” che la legge è tenuta a precisare al fine di “prevenire gli abusi di potere”: “i) la natura dei reati che possono dar luogo a un mandato di intercettazione; li) la definizione delle categorie di persone le cui comunicazioni possono essere intercettate; iii) il limite della durata di esecuzione della misura; /v) la procedura da seguire per l’esame, l’utilizzo e la conservazione dei dati raccolti; v) le precauzioni da prendere per la comunicazione dei dati ad altre parti; vi) le circostanze in cui i dati intercettati possono o devono essere cancellati o distrutti”.
Analoghe “garanzie minime” la Corte di Strasburgo ha ritenuto necessarie anche in relazione ad intercettazioni effettuate “per motivi di sicurezza nazionale”.
In riferimento, quindi, alla verifica se l’ingerenza sia “necessaria in una società democratica alla realizzazione di uno scopo legittimo”, la Corte sovranazionale ha reputato che l’ampio margine di discrezionalità delle autorità nazionali “per scegliere i mezzi per salvaguardare al meglio la sicurezza nazionale” ovvero “qualsiasi altro interesse nazionale essenziale” (p. 334) deve, comunque, far salve “garanzie adeguate ed effettive contro gli abusi”.
In tal senso, la valutazione spettante alla Corte EDU (per “accertare se le procedure di supervisione della decisione e di attuazione di misure restrittive siano tali da circoscrivere “l’ingerenza” a ciò che è “necessario in una società democratica””) “dipende da tutte le circostanze del caso, quali ad esempio la natura, la portata e la durata delle misure che possono essere adottate, i motivi necessari per ordinarle, le autorità competenti per consentirle, eseguirle e controllarle, e il tipo di ricorso fornito dal diritto interno”.
Orbene, come messo in luce dai precedenti specifici innanzi esaminati e concernenti l’utilizzo in procedimenti disciplinari di intercettazioni disposte nel contesto di indagini penali (cfr. supra p. 11.8.), la Corte di Strasburgo ha incentrato la propria verifica (conclusasi con l’esclusione della violazione dell’art. 8 CEDU) sui presupposti della misura “prevista per legge” (anche nell’ambito del procedimento disciplinare) e del controllo efficace sulle intercettazioni disposte nel giudizio a quo, al fine di saggiare se l’ingerenza fosse “necessaria in una società democratica” e, dunque, se vi fossero garanzie adeguate e sufficienti contro gli abusi.
La Corte EDU ha, altresì, reputato che lo scopo dell’ingerenza stessa, ossia di permettere l’accertamento delle verità nei procedimenti penali, fosse finalizzato alla salvaguardia dell’ordine pubblico e che lo stesso “scopo legittimo” fosse realizzato mediante l’estensione di questa ingerenza tramite l’uso della trascrizione della conversazione contestata nell’ambito del procedimento disciplinare contro la ricorrente (cfr., in particolare, p. 52 sentenza “Terrazzoni”: “La Cour estime que l’ingerence visait à permettre la manifestation de la verite’ tant dans le cadre de la procedure penale initiale mettant en cause F.L., que de la procedure penale incidente concernant la requerante (paragraphe 19 cidessus) et tendait donc à la defense de l’ordre. Elle considere que le prolongement de cette ingerence par l’utilisation de la transcription de la conversation litigieuse dans le cadre de la procedure disciplinaire conduite contre la requerante visait le meme but legitime”).
Se tali sono, dunque, le coordinate che orientano, in base all’ordinamento interno e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (interpretata dalla Corte di Strasburgo), il giudizio di “proporzionalità” anche nel procedimento disciplinare, va dichiarata, per tutto quanto sopra illustrato, la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.p.p., prospettata dal ricorrente in riferimento all’art. 15 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo parametro in relazione alla norma convenzionale interposta dell’art. 8 CEDU.
12. – Può ora darsi conto della inammissibilità della doglianza sviluppata nel contesto del secondo dei “motivi nuovi” (cfr. supra p. 3.1.5.) e che, pur correlandosi al tenore del secondo motivo di ricorso, muove da una premessa che postulava la previa soluzione della questione dell’applicazione, o meno, dell’art. 270 c.p.p., al procedimento disciplinare, esaminata, per l’appunto, in sede di scrutinio del quarto motivo di ricorso.
La censura, come detto, è inammissibile.
Anzitutto, in violazione del diritto di difesa della controparte (cfr. supra p. 3) amplia il thema decidendum – con allegazioni in fatto e questioni di diritto (che vanno ben oltre la sola illustrazioni di doglianze già proposte) – rispetto a quanto dedotto con il ricorso, là dove (proprio con il quarto motivo) vi è soltanto un accenno alla questione della inutilizzabilità delle intercettazioni in quanto autorizzate per il solo reato di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio e non già per quello, oggetto dell’unica imputazione (successivamente formulata) ancora in essere nei confronti del Dott. P., di corruzione per l’esercizio della funzione, che, asseritamente, sarebbe privo di connessione sostanziale con il primo reato.
In ogni caso e in via assorbente, è inammissibile poiché prospetta un tema di indagine che, nel caso di specie, non rientra nel perimetro della delibazione, interna al giudizio disciplinare, sulla legittimità, o meno, delle intercettazioni disposte in sede penale ai fini della loro utilizzabilità in sede disciplinare, in quanto rispetto a tale delibazione (per tutte le ragioni sopra evidenziate) è estranea la questione dei limiti di utilizzazione, nell’ambito del processo penale, dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali queste ultime sono state disposte, non trovando applicazione, nel procedimento disciplinare, l’art. 270 c.p.p..
Il ricorrente non contesta in alcun modo la legittimità dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche (decreto G.I.P. del 22 febbraio 2019) e di quelle mediante captatore informatico (decreto G.I.P. del 22 marzo 2019) disposte in relazione al fatto-reato originariamente contestato al Dott. P. (in concorso con altri), ossia di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio ex art. 319 c.p..
Assume, invece, che quei decreti autorizzativi non sarebbero idonei a rendere utilizzabili le medesime intercettazioni in relazione all’unica imputazione rimasta in essere (quella per il reato di corruzione per l’esercizio della funzione, ex art. 318 c.p.), in quanto ivi illegittimamente trasmigrate, ai sensi dell’art. 270 c.p.p., in assenza di connessione sostanziale tra il primo e il secondo reato.
Tuttavia, è principio consolidato quello per cui la legittimità di una intercettazione deve essere verificata al momento in cui la captazione è richiesta ed autorizzata, non potendosi procedere al controllo della sua ritualità sulla base delle risultanze derivanti dal prosieguo delle captazioni e dalle altre acquisizioni, sicché non rileva che all’esito delle indagini non sia stata confermata l’ipotesi di accusa per l’accertamento della quale era stato disposto tale mezzo di ricerca della prova (Cass. pen., 21 settembre 2005, n. 33751; Cass. pen., 11 maggio 2009, n. 19852; Cass. pen., 30 dicembre 2009, n. 50001; Cass. pen., 2 aprile 2021, n. 12749; Cass. pen., 11 giugno 2021, n. 23148).
Dunque, una volta legittimamente autorizzate, in base ai decreti del G.I.P. del Tribunale di Perugia del 22 febbraio e del 22 marzo 2019, le intercettazioni telefoniche e tramite captatore informatico per il reato (art. 319 c.p.) originariamente contestato al Dott. P. (aspetto, questo, che, come detto, non è affatto oggetto di contestazione da parte del ricorrente), non interessano, ai fini della utilizzabilità (sotto il profilo qui in esame) dei risultati di esse nel procedimento disciplinare, le ulteriori vicende attinenti a quell’imputazione.
Ne’, sotto altro profilo, come già rilevato nelle citate sentenze di queste Sezioni Unite n. 9390 e n. 9321 del 2021, possono assumere rilievo in sede disciplinare i giudizi formulati in merito all’utilizzabilità delle intercettazioni nell’ambito del procedimento penale in cui sono state acquisite ai sensi dell’art. 270 c.p.p., atteso che (come detto) tale norma non trova applicazione in ambito disciplinare.
Ai fini della sua utilizzazione nel procedimento disciplinare rileva soltanto la ritualità della intercettazione autorizzata ed eseguita nell’originario procedimento penale iscritto a Perugia a carico del Dott. P..
Giova, infatti, rammentare che, “(a)i sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20… l’azione disciplinare è promossa indipendentemente dalla “azione penale relativa allo stesso fatto”, salva l’efficacia di giudicato della sentenza penale in sede disciplinare; efficacia che peraltro, ove si tratti di sentenza di assoluzione, copre solo l’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso e non anche l’accertamento della illiceità penale del fatto”.
Tanto, dunque, a prescindere dalla effettiva concludenza della specifica prospettazione della proposta censura, dovendosi, tuttavia, evidenziare che la premessa da cui la stessa muove non trova corrispondenza nel provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Perugia del 21 settembre 2020 (se letto complessivamente e non per stralci decontestualizzati), poiché le considerazioni dello stesso G.I.P. – su cui si sofferma il ricorrente – attengono al tema della casualità delle intercettazioni rispetto alla posizione dell’on. F. e non già ai presupposti autorizzativi delle intercettazioni, telefoniche e mediante “Trojan”, disposte nei confronti del Dott. P..
Il quinto motivo di ricorso.
13. – Con il quinto mezzo è denunciata la “mancata assunzione di prove decisive con riferimento alle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico”, nonché la “contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza e dell’ordinanza depositata in udienza il 23 settembre del 2020”, lamentandosi, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), la violazione degli artt. 187,495 c.p.p. e ss., in riferimento anche agli artt. 24 e 111 Cost., e art. 6 CEDU, “relativamente alle richieste di ammissione delle prove testimoniali formulate nel corso dell’istruzione dibattimentale”.
a) Le plurime censure riguardano, anzitutto, la mancata ammissione delle deposizioni testimoniali dei dottori F., A. e B., nonostante che il Giudice disciplinare abbia dapprima affermato che oggetto dell’incolpazione e’, tra l’altro, “il fatto di avere discusso con terze persone – e precisamente, ancora, con l’on. L.L., il Consigliere S.L., il Dott. D.G.A., il Dott. F.S. strategie di discredito del Dott. I.P., procuratore aggiunto presso la Procura di Roma, nonché di avere discusso con il Dott. F.S. strategie di discredito dello stesso Procuratore di Roma, Dott. P.”. L’escussione dei predetti testi al fine di “escludere la sussistenza di una strategia di discredito nei confronti del Dott. I.P.” era, quindi, decisiva, là dove, poi, la deposizione del Dott. A. si palesava indispensabile, giacché, in un colloquio con l’incolpato, “vi era un esplicito riferimento alla bontà delle opinioni espresse dal Dott. F. nell’esposto”.
b) Inoltre, è censurata, sotto più profili, la decisione della Sezione disciplinare di ritenere inammissibili, in quanto non pertinenti e, comunque, irrilevanti rispetto all’oggetto delle contestazioni, “tutte le richieste di prova testimoniale intese ad asseverare, secondo la prospettazione difensiva dell’incolpato, l’esistenza di prassi consiliari di serrata interlocuzione con il mondo della politica, e, nondimeno, l’autonomia operativa dei componenti della Commissione consiliare e del Plenum del C.S.M., in ordine alla decisione finale sulle nomine”.
La difesa del ricorrente sostiene essere contraddittoria la motivazione adottata dal Giudice disciplinare, in primo luogo, in quanto contrastante con il provvedimento emesso da altro Collegio, in data 18 gennaio 2021, nell’ambito del procedimento disciplinare (n. 77/2019) promosso nei confronti degli altri partecipi all’incontro avvenuto presso l'*****, con il quale sono stati ammessi i testi richiesti dalla difesa, “tra cui il Dott. V. ed il Dott. C., figure oggetto delle discussioni nella notte tra l’8 ed il 9 maggio 2019, platealmente smentendo l’ingiustificata esclusione dei testi nel procedimento a carico del Dott. P.”.
La contraddittorietà della motivazione, nonché la violazione dell’art. 187 c.p.p., emergerebbe, altresì, in riferimento alla valutazione di “pertinenza” delle circostanze capitolate in ordine all’esistenza di “prassi consiliari” (“assurte, anzi, al rango, secondo la difesa del Dott. P., di vere e proprie consuetudini costituzionali”) contemplanti “interlocuzione, del tipo di quelle avvenute nel corso dell’incontro presso l’hotel “Champagne”, tra componenti in carica del CSM ed ex membri dello stesso, nonché tra i primi ed esponenti di rilievo del cd. “associazionismo giudiziario””.
Sarebbe, anzitutto, errata in diritto la valutazione della Sezione disciplinare di ritenere pertinente rispetto alle incolpazioni elevate al Dott. P. unicamente “il fatto storico della discussione (in un incontro tenutosi tra la notte dell’8 e 9 maggio 2019 presso l'*****) tra l’incolpato ed altri soggetti, e nessun altro fatto, giacché solo esso posto a base delle incolpazioni relative agli illeciti”.
Ciò in quanto, in base al citato art. 187 c.p.p. (secondo l’insegnamento di Cass. pen., 26 gennaio 2004, n. 2622), il giudice è chiamato a conoscere, comunque, “tutte le circostanze fattuali ritenute idonee a condurre all’accertamento della verità… anche al di là della condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice”, dovendosi estendere l’accertamento anche a quei fatti – la cui prova, pertanto, sarebbe stata, nella specie, illegittimamente non consentita – dotati di “rilevanza per la comprensione l’inquadramento della vicenda principale” e la ricostruzione del “contesto ambientale in cui essa si è sviluppata”.
La motivazione della sentenza impugnata sarebbe, poi, anche contraddittoria e illogica in modo manifesto, nonché carente là dove qualifica come “contra legem” la prassi che la difesa dell’incolpato intendeva provare.
Sarebbe carente poiché non si confronta con il rilievo secondo cui detta prassi “altro non è se non il riflesso dell’amplissima libertà di interlocuzione riconosciuto i componenti del CSM, come attesta la previsione normativa di cui alla L. 3 gennaio 1981, n. 1, art. 5, norma che ha previsto un immunità, in loro favore, per le opinioni espresse”, quale garanzia già ritenuta indispensabile dalla stessa Corte costituzionale (Corte Cost., sentenza n. 148 del 1983).
Sarebbe, poi, manifestamente illogica e contraddittoria, giacché, nel ritenere, per un verso, il carattere elastico della norma disciplinare di cui all’illecito previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), là dove richiede una condotta integrante “grave scorrettezza”, da valutare, dunque, in base a “parametri sociali di riferimento”, ha, poi, per altro verso, negato l’ingresso alla prova testimoniale che tendeva a provare l’esistenza delle anzidette “prassi abituali di interlocuzione” che avrebbero dato conto della “realtà sociale di riferimento alla quale parametrare la valutazione, in termini di correttezza (o meno) della condotta tenuta dal Dott. P.” e dagli altri partecipanti all’incontro presso l'*****”.
Peraltro, soggiunge il ricorrente, “anche ad ammettere che tali prassi… sia realmente contra legem” (sebbene sarebbe dato emergente anche dalla giurisprudenza amministrativa la “valenza di “politica giudiziaria” che hanno le deliberazione del CSM sul conferimento dell’incarichi direttivi e semidirettivi degli uffici giudiziari, e dunque anche le interlocuzioni, necessariamente ad ampio spettro, che le precedono”), “la sua dimostrazione sarebbe valsa, quantomeno ad orientare il giudice disciplinare nell’applicazione dei criteri di dosimetria della sanzione previsti dall’art. 133 c.p.”.
Sotto tale profilo verrebbe in rilievo anche una ulteriore violazione dell’art. 187 c.p.p., giacché tale norma individua come oggetto di prova pure i fatti che riguardano la determinazione della sanzione, la cui dimostrazione, dunque, ben avrebbe potuto incidere sulla relativa misura, nella specie irrogata nel massimo grado.
Ne conseguirebbe, pertanto, anche una violazione dell’art. 111 Cost., 6CEDU, 187 e 495 c.p.p., per la “plateale compressione dei diritti della difesa” e in particolare del “principio della parità delle armi”.
13.1. – Il motivo non può trovare accoglimento in nessuna delle sue articolazioni.
Giova premettere che il thema probandum nel giudizio penale è fissato, ai sensi dell’art. 187 c.p.p. (norma che trova applicazione nel giudizio disciplinare dei magistrati in forza del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18), in relazione, anzitutto, ai “fatti che si riferiscono all’imputazione” e, quindi, anche a quelli che attengono alla “determinazione della pena”.
Il legislatore ha, quindi, circoscritto l’oggetto della prova secondo il principio di pertinenza (ossia dell’inerenza del fatto da provare rispetto all’oggetto cui si deve riferire l’indagine probatoria; principio, questo, ribadito dall’art. 194 c.p.p., per la prova testimoniale), che costituisce un limite coessenziale all’ammissibilità della prova stessa (Cass. pen., 7 agosto 1996, n. 7721; Cass. pen., 20 gennaio 2003, n. 2622), cooperante con i criteri, previsti dall’art. 190 c.p.p., di non manifesta superfluità e rilevanza (che guardano, dunque, alla utilità e all’idoneità dimostrativa delle prove di cui è richiesta l’ammissione), oltre che con quello che impone di escludere le prove vietate dalla legge (Cass. pen., 1 dicembre 1999, n. 13792; Cass. pen., 6 ottobre 2005, n. 36341).
In siffatto contesto, il precedente citato in ricorso (Cass. pen. 2622/2014) – con l’estendere l’ammissibilità della prova a “fatti” e “situazioni” anche “di contorno” e “al di là della condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice” – non introduce un principio dissonante, essendo la relativa motivazione in linea con le suddette coordinate, giacché essa ruota intorno ai concetti di “necessarietà” di siffatto accertamento, di “inerenza” di detti fatti e situazioni “di contorno” al reato contestato e di “utilità” ai fini della “verifica dibattimentale delle ipotesi ricostruttive formulate dalle parti”.
Ne’ il potere-dovere, attribuito al giudice del dibattimento, di effettuare la valutazione di liceità e di rilevanza della prova viene meno a fronte del diritto della parte all’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico, giacché l’art. 495 c.p.p., comma 2, deve pur sempre essere letto in armonia con il disposto degli artt. 188,189 e 190 c.p.p., (Cass. pen., 1 settembre 1995, n. 9303; Cass. pen., 26 gennaio 2005, n. 2350).
Ciò posto, la valutazione sull’ammissione delle prove, pur necessariamente guidata dai criteri legali anzidetti, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito.
Infatti, il diritto alla prova riconosciuto alle parti, in conformità all’art. 111 Cost., e all’art. 6 CEDU, implica la corrispondente attribuzione del potere di selezionare l’ammissione delle prove in base ai criteri indicati dagli artt. 187 e 190 c.p.p., in forza di una verifica di esclusiva competenza del giudice di merito, che sfugge al sindacato di legittimità ove abbia formato oggetto di apposita motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. pen., 1 giugno 1994, n. 6422; Cass. pen., 15 giugno 2004, n. 26885; Cass. pen., S.U., 21 aprile 2010, n. 15208).
Del resto, anche in riferimento al parametro convenzionale di cui all’art. 6 CEDU, questioni quali la rilevanza attribuita dalle Corti nazionali a un determinato elemento di prova, ovvero le decisioni o le valutazioni effettuate a tale riguardo dai giudici nazionali, non sono soggette a sindacato da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo (così Cass., 31 luglio 2020, n. 16517), poiché, per l’appunto, spetta esclusivamente al giudice nazionale, in applicazione del regime processuale interno, compiere la valutazione di ammissibilità e rilevanza delle prove dedotte in giudizio (Cass., 20 settembre 2013, n. 21603; Cass., 27 giugno 2018, n. 17004).
Infatti, non può predicarsi, tanto alla stregua delle norme di rango, costituzionale, quanto ai sensi dell’art. 6 CEDU, un obbligo incondizionato del giudice di dar corso all’assunzione di qualsivoglia mezzo istruttorio articolato dalla parte, a prescindere da una valutazione di rilevanza dei fatti da provare.
Da un lato, infatti, l’art. 6 citato, pur garantendo il diritto ad un processo equo, non contiene alcuna disposizione riguardante il regime di ammissibilità delle prove o sul modo in cui esse dovrebbero essere valutate, trattandosi di questioni rimesse alla regolamentazione della legislazione nazionale; dall’altro, la necessità, da parte del giudice, di scrutinare la rilevanza ed ammissibilità dei singoli mezzi proposti dalla parte si coniuga ed è coerente con i principi della ragionevole durata del processo, con cui collide l’espletamento di attività processuali non necessarie o superflue ai fini della pronuncia (Cass. n. 16517/2020, citata; cfr., altresì, Corte EDU, sentenza del 12 luglio 1988, Schenk c. Svizzera, p. 46; Corte EDU, sentenza del 1 marzo 2007, Heglas c. Repubblica Ceca, p. 84; Corte EDU, sentenza del 17 ottobre 2019, Lopez Ribalda c. Spagna, p. 149).
Sotto diverso, ma connesso, profilo, va ribadito (cfr. supra p. 5.2.) che il vizio di mancata ammissione di prova decisiva, di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), sussiste allorquando l’elemento probatorio pretermesso abbia, di per sé, un contenuto tale da risolvere il thema decidendum.
Sicché, non può definirsi decisiva una prova che necessita di comparazione con altri elementi acquisiti in processo, non per negarne la efficacia dimostrativa, bensì per comportarne un confronto dialettico al fine di effettuare una ulteriore valutazione argomentativa per quanto oggetto del giudizio (Cass. pen., 12 marzo 1998, n. 3148; Cass. pen., 24 gennaio 2006, n. 2827).
Pertanto, la prova “decisiva”, che non è stata assunta in sede di giudizio di merito, deve avere ad oggetto un fatto certo nel suo accadimento e non può consistere in un mezzo di tipo dichiarativo, il cui risultato è destinato ad essere vagliato per effettuare un confronto con gli altri elementi di prova acquisiti, al fine di prospettare l’ipotesi di un astratto quadro storico valutativo favorevole al ricorrente (Cass. pen., 25 febbraio 2014, n. 9069; Cass. pen., 5 settembre 2019, n. 37195).
La Sezione disciplinare del C.S.M. si è attenuta, con la sentenza impugnata (che ribadisce l’ordinanza istruttoria del 23 settembre 2020), a tali principi di diritto e la motivazione che sorregge la decisione in punto di valutazione sull’ammissione delle prove testimoniali sfugge alle critiche, in parte anche inammissibili, del ricorrente, palesando un impianto argomentativo adeguato, logico e coerente.
13.2. – E’ inammissibile, in primo luogo, la censura che veicola un vizio di mancata ammissione di prova decisiva, ex art. 606 c..p.p., comma 1, lett. d), alla luce dei principi di diritto sopra rammentati, poiché le prove cui fa riferimento il ricorrente sono tutte prove testimoniali, ossia mezzi di tipo dichiarativo, che comportano una valutazione comparativa con gli altri mezzi di prova, tale, quindi, da confliggere con la nozione di “decisività” della prova, ai sensi della citata norma processuale, che richiede una idoneità della prova in questione a sovvertire sicuramente la decisione oggetto di gravame (Cass. pen. 9878/2020, citata).
13.3. – Vanno, quindi, scrutinate solo le ulteriori doglianze, con la precisazione che quelle volte a denunciare un vizio di motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), possono trovare ingresso nei termini in cui tale vizio è scrutinabile in sede di legittimità (cfr. sopra p. 5.3.).
Inoltre, deve ulteriormente precisarsi che, ai fini di detto scrutinio – il quale, alla luce dei ricordati principi di diritto, richiede necessariamente di avere ben presenti i fatti integranti gli illeciti disciplinari ascritti al Dott. P., in quanto sono anzitutto tali fatti a perimetrare il thema probandum -, non occorre qui riportare nuovamente il contenuto delle incolpazioni, ma è sufficiente rinviare alla descrizione dettagliata che di esse si rinviene alle pp. 2-7 della sentenza impugnata e alla sintesi di cui ai p.p. 2 e 3 dei “Fatti di causa”.
13.4. – Quanto alla doglianza sub p. 13, a), che denuncia la mancata ammissione della prova testimoniale riferita ai capitoli da 44 a 46, su cui avrebbero dovuto deporre i testi Dott. F., Dott. A. e Dott. B., non si ravvisa alcun vizio di carenza e, comunque, di contraddittorietà della motivazione, avendo la Sezione disciplinare (sentenza pp. 25/26; sintesi nei “Fatti di causa” al p. 5.2.1., a)) argomentato puntualmente e in modo coerente sulle ragioni dell’esclusione delle testimonianze in riferimento alle circostanze volte ad accertare le “modalità di presentazione” dell’esposto sostanzialmente, se in autonomia, oppure no – da parte del Dott. F., nonché “la conoscenza che terzi possono aver avuto” dell’intendimento del medesimo Dott. F., mettendo in rilievo la circostanza, congruamente ritenuta ostativa all’ammissione della prova, dell’essere la contestazione dell’addebito disciplinare pertinente non già all’aver “determinato o concorso a determinare la volontà del Dott. F. S., ma esclusivamente il fatto di aver discusso con il predetto… le circostanze descritte in tale esposto, al fine di programmare (da parte dell’incolpato) strategie idonee a screditare i Dottori I. e P.”.
Inoltre, il ricorrente, a sostegno della censura, si limita a richiamare l’esistenza di un colloquio tra il Dott. A. e il Dott. P. nel quale si sarebbe fatto “esplicito riferimento alla bontà delle opinioni espresse dal Dott. F. nell’esposto”.
Colloquio, tuttavia, la cui “registrazione” tramite il captatore informatico (come addotto in ricorso – p. 63 – senza, peraltro, che sia data alcuna contezza del contenuto effettivo) avrebbe reso comunque superflua la deposizione sul punto, là dove, poi, la stessa circostanza sulla quale si sarebbe incentrato conforterebbe, di per sé (non facendosi carico il ricorrente di chiarirne un diverso e ulteriore orientamento di senso), proprio la prospettiva che ha guidato la decisione di inammissibilità del Giudice disciplinare.
13.5. – Quanto alla ulteriore censura sub p. 13, b), non è dato, poi, apprezzare alcuna contraddittorietà della motivazione nel fatto che, diversamente da quanto disposto dall’ordinanza istruttoria del 23 settembre 2020 e ribadito nella sentenza impugnata, in diverso giudizio disciplinare, nei confronti degli altri partecipanti all’incontro dell’8 e 9 maggio 2019, siano stati ammessi i testi richiesti dalla difesa.
Difatti, oltre a doversi rilevare l’estrema genericità che connota la censura (che non dà contezza di quali fossero tutti i testi richiesti e, soprattutto, le circostanze di fatto capitolate), e’, comunque, assorbente evidenziare come proprio la rilevata diversità dei giudizi, nei quali, rispettivamente, si è compiuto il giudizio sulla ammissibilità della prova testimoniale, non consente di poter dare ingresso, in questa sede, ad una ragione di doglianza che sia rispettosa del paradigma di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), giacché il vizio di contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata è da valutare o intrinsecamente all’impianto argomentativo della sentenza stessa, o in rapporto ad atto del processo nel quale essa è stata adottata.
13.6. – Quanto ancora alla censura sub p. 13, b), non sussiste la dedotta violazione dell’art. 187 c.p.p., in riferimento alla mancata ammissione della prova testimoniale diretta ad asseverare l’esistenza di prassi consiliari di interlocuzione con il mondo della politica e l’autonomia operativa e decisoria dei componenti del C.S.M. sulle nomine dei vertici degli Uffici giudiziari.
La Sezione disciplinare, nell’effettuare il giudizio selettivo delle prove da ammettere al riguardo, si è attenuta ai criteri legali, sopra ricordati, della pertinenza e della rilevanza (e, quindi, anche della necessarietà, inerenza e utilità) della prova dedotta rispetto ai fatti oggetto di contestazione disciplinare, reputando, in modo giuridicamente corretto, di dover escludere “ogni richiesta istruttoria diretta a dimostrare l’esistenza di altri fatti non pertinenti, o privi della capacità dimostrativa della insussistenza dei fatti contestati”.
E tale valutazione, dalle corrette premesse in iure, non è rimasta ad uno stadio soltanto assertivo, ma è stata poi sorretta da un iter argomentativo volto a fornire la giustificazione del perché il Giudice disciplinare ha escluso la prova dei fatti, ulteriori, che l’incolpato intendeva provare.
13.7. – Il ricorrente, tuttavia, sostiene (sempre con l’articolata doglianza sub p. 13, b) che detto iter argomentativo sia comunque viziato ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ma la censura anche a prescindere dalla genericità della sua prospettazione, che è priva di adeguata specificazione sulle circostanze oggetto dei capitoli di prova, al fine di consentire a questa Corte il necessario vaglio di effettiva congruenza rispetto al thema decidendum – e’, comunque, infondata.
Non è dato apprezzare alcuna contraddittorietà, né tantomeno illogicità nel ragionamento del Giudice disciplinare, il quale, per un verso, ha ritenuto che il precetto giuridico elastico di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. d), – che richiede, come elemento costitutivo della fattispecie di illecito, un comportamento abitualmente o gravemente scorretto nei confronti di altri magistrati – necessitasse di una concretizzazione mediante parametri sociali di riferimento o “standards valutativi esistenti nella realtà sociale” e, per altro verso, ha negato al Dott. P. di provare – in quanto non pertinente e irrilevante perché contra legem e, dunque, priva di “efficacia scriminante rispetto al singolo episodio disciplinare” – “l’esistenza di prassi abituali di interlocuzione”, tra i membri del CSM e soggetti ad esso estranei, “in merito alle nomine dei vertici degli uffici giudiziari” (reputate quasi “vere e proprie consuetudini costituzionali”), che sarebbero state, per l’appunto, espressione della “realtà sociale” su cui parametrare la “correttezza” o meno della condotta dell’incolpato.
La Sezione disciplinare (p. 73 della sentenza impugnata), infatti, ha operato quella concretizzazione della clausola generale della scorrettezza comportamentale ritenendo in essa sussumibile la condotta “socialmente sleale, in quanto contraria a principi (anche giuridici) di carattere generale che vietano comportamenti intenzionalmente diretti al fine di nuocere o, comunque, a realizzare risultati contrastanti con l’assetto di regole giuridiche, anche procedimentali, che governano un determinato settore della vita associata”.
Ossia, come ancora precisato nella sentenza impugnata, quelle previsioni “di rango primario ma anche secondario” al cui rispetto è tenuto ogni magistrato e “che – nella lealtà della competizione selettiva… – regolano le procedure di accesso alle cariche direttive e semidirettive di tutti i legittimi (e legittimati) aspiranti” (pp. 80 e 81 della sentenza impugnata).
E questo il Giudice disciplinare ha ritenuto pure a prescindere dal parametro valutativo che poteva essere fornito dalle previsioni del codice deontologico (segnatamente, art. 10) in ordine alla correttezza della condotta del magistrato, il quale, rispetto al conferimento di incarichi, “non si adopera al fine di influire impropriamente sulla relativa decisione”.
Là dove quell’avverbio (“impropriamente”) deve ritenersi che imponga di astenersi da qualsiasi intervento o interlocuzione che non siano quelli contemplati dalle regole del procedimento di conferimento (sulle quali regole cfr. la motivazione che segue).
E’ affatto chiaro, dunque, il riferimento della sentenza impugnata al parametro comportamentale che è dettato dall’assetto ordinamentale – ossia dalle “regole giuridiche, anche procedimentali” – che attiene al conferimento degli incarichi direttivi (o semidirettivi) e, quindi, alle nomine di vertice degli uffici giudiziari, rispetto alle quali nomine (che interessavano, tra l’altro, le Procure della Repubblica di Roma e Perugia e, quindi, uffici giudiziari di rilevanza nazionale o, comunque, di significativa importanza) si sono concentrate le condotte disciplinarmente illecite contestate al Dott. P., volte al discredito di possibili aspiranti alla direzione di detti uffici o a concertare, per soddisfare interessi personalistici, chi dovesse ricoprire tali incarichi direttivi, così da porre in essere, ulteriormente (quale illecito poi contestato ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, lett. i), un’attività diretta a condizionare l’esercizio di uno dei compiti costituzionalmente affidati al C.S.M. (art. 105 Cost.), ossia quello di provvedere proprio al conferimento degli anzidetti incarichi di direzione.
La scelta a chi, tra più candidati, debba essere conferito l’incarico direttivo di un ufficio giudiziario non riguarda affatto l’ambito della “politica giudiziaria”, evocato dal ricorrente, ma si innesta nell’azione amministrativa devoluta per Costituzione al C.S.M. e che, per l’appunto, si svolge in base a “regole giuridiche, anche procedimentali”.
Un siffatto compito attiene, infatti, a materia che la Costituzione (artt. 105 e 108 Cost.) riserva alla legge ed e’, quindi, disciplinato dal D.Lgs. 5 aprile 2006, n. 160, (come modificato, segnatamente, dalla L. 30 luglio 2007, n. 111), che detta le coordinate per una valutazione finale, complessiva e unitaria, alla luce dei parametri del “merito” (art. 11) e dell'”attitudine direttiva” (art. 12) in base alla tipologia di incarico (funzioni semidirettive e direttive di merito: art. 12, comma 10; funzioni direttive di legittimità, art. 12, comma 11), i cui “indicatori oggettivi” sono individuati dallo stesso C.S.M. “d’intesa con il Ministro della giustizia” (art. 11, comma 3, lett. d, seconda parte).
In forza di tali previsioni di legge il C.S.M. ha, poi, adottato il “Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria”, il quale – come da orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa (tra le altre: C.d.S., IV, 28 novembre 2012, n. 6035; C.d.S., IV, 6 dicembre 2016, n. 5152; C.d.S., V, 17 gennaio 2018, n. 271; C.d.S., V, 2 agosto 2019, n. 5492; C.d.S., V, 7 gennaio 2020, n. 84) – dà specificazione ai principi espressi dalla legge in qualità non di atto regolamentare (e, quindi, normativo), ma di atto amministrativo di “autovincolo” nella futura esplicazione della discrezionalità dello stesso organo di governo autonomo della magistratura.
Una discrezionalità che presenta un “margine di apprezzamento particolarmente ampio”, sindacabile in sede giurisdizionale se in difetto del corretto e completo apprezzamento dei presupposti di fatto, della logicità della valutazione e dell’effettività della comparazione tra i candidati e, dunque, in definitiva, “solo se inficiato da irragionevolezza, omissione o travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione” (Cons. Stato, V, 18 giugno 2018, n. 3716), ma non in punto di opportunità o di convenienza dell’atto adottato (tra le molte: C.d.S., V, 11 dicembre 2017, n. 5828; C.d.S., V, 27 giugno 2018, n. 3944; C.d.S., V, 9 gennaio 2020, n. 192).
L’ampia discrezionalità nella scelta, pur sempre di natura amministrativa (e non già “politica”, fosse anche di “politica giudiziaria”), e’, dunque, frutto di una procedimentalizzazione istruttoria, dove non c’e’ spazio alcuno per una interlocuzione diversa da quella che è indicata, e formalizzata, dalle norme primarie, come pure specificate dal citato Testo unico sulla dirigenza, e ciò per non alterare, anche surrettiziamente, il metodo della comparazione.
L’interlocuzione deve esaurirsi tra coloro che devono procedere alla comparazione – ossia i componenti dell’organo di governo autonomo della magistratura, nell’esercizio delle loro funzioni – e gli aspiranti all’incarico direttivo, nella cornice delle regole del procedimento stesso.
La scelta che attiene al conferimento della direzione di un ufficio giudiziario non può, quindi, essere originata da canoni differenti da quelli del buon andamento e dell’imparzialità che governano l’azione amministrativa (art. 97 Cost.) e che, seppur nella specificità dei compiti e delle funzioni assegnati dalla Costituzione al C.S.M. – per garantire quella autonomia e indipendenza della magistratura che, come già detto, non è privilegio personale degli appartenenti all’ordine giudiziario, ma presidio delle libertà civili -, devono trovare attuazione piena anche (e soprattutto) nel procedimento di assegnazione degli incarichi direttivi.
Di ciò è riprova pure quella fase del procedimento stesso, improntata al principio della leale collaborazione, per cui, ai fini conferimento dell’incarico (e/o della sua conferma: D.Lgs. n. 160 del 2006, art. 45), si richiede che la deliberazione del C.S.M. avvenga in base alla proposta di una commissione consiliare “formulata di concerto” con il Ministro della giustizia (L. n. 195 del 1958, art. 11, come modificato da ultimo dal D.L. n. 193 del 2009, convertito, con modificazioni, nella L. n. 24 del 2010).
Il “metodo del concerto” – come già a suo tempo delineato dalla sentenza n. 379 del 1992 della Corte costituzionale – si attua necessariamente attraverso una “valutazione preliminare” che la commissione del C.S.M. deve comunicare al Ministro; valutazione “la quale deve essere basata su motivazioni non rituali o stereotipe, ma dirette a evidenziare i reali motivi della scelta proposta e la non incidenza sulla stessa di logiche estranee alla valutazione obiettiva e imparziale dei candidati”.
E ciò perché la leale collaborazione, che, come detto, deve connotare tale sub-procedimento, non tollera “comportamenti non conferenti rispetto al miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico connesso al conferimento dell’incarico direttivo al candidato professionalmente più idoneo” (così ancora la citata sentenza n. 379 del 1992 della Corte costituzionale).
Dunque, l’azione del C.S.M. rivolta al conferimento degli incarichi direttivi deve trovare svolgimento e definizione nell’ambito così complessivamente tratteggiato, entro il quale, ovviamente, è data la più libera e ampia interlocuzione tra gli stessi suoi componenti (di estrazione c.d. “togata” e c.d. “laica” o “politica”, secondo l’articolazione voluta dalla Costituzione) e pur sempre al fine (come messo in risalto proprio dalla sentenza n. 148 del 1983 della Corte costituzionale richiamata in ricorso) di adempiere al compito loro riservato dalla Costituzione. Non e’, quindi, contemplata dalla disciplina di riferimento – giova ribadire – la compartecipazione di soggetti estranei, che siano politici o appartenenti alrassociazionismo giudiziario”.
E’ soltanto in relazione alle predette attività istituzionali che gli stessi componenti del C.S.M. risultano non punibili “per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e concernenti l’oggetto della discussione” (L. n. 195 del 1958, art. 32 bis, come introdotto dalla L. n. 1 del 1981, art. 5).
Se questo è il perimetro entro cui deve realizzarsi la scelta del conferimento dell’incarico direttivo giudiziario, appare allora evidente come la prospettazione probatoria dell’incolpato operi, di per sé, un doppio salto logico, tale da renderla, come inteso in modo plausibile e secondo coerenza dalla Sezione disciplinare, irrilevante ai fini del thema probandum.
La prova concernente l’esistenza di una prassi di interlocuzione tra associazionismo della magistratura e politica ai fini delle nomine degli incarichi direttivi degli Uffici giudiziari (nella specie, inquirenti), radicatasi al di fuori dell’anzidetto perimetro, è certamente volta a provare una prassi, all’evidenza, contra legem.
Ne’ può ritenersi – in forza della tesi difensiva sostenuta dal ricorrente – che la disciplina legale sopra illustrata (su cui si innesta quella dettata dal C.S.M.) sia derogata e/o derogabile dalla “prassi consiliare” della più ampia interlocuzione tra “politica” e “associazionismo giudiziario” su “temi di politica giudiziaria”, che avrebbe dato luogo ad una “ver(a) e propri(a) consuetudin(e) costituzional(e)”.
A tal riguardo, senza dover indagare a fondo la problematica, assai complessa (su cui il ricorrente stesso non spende alcun argomento), della formazione di una “prassi” e, quindi, di una “consuetudine costituzionale”, è qui sufficiente rammentare l’orientamento espresso dalla giurisprudenza costituzionale.
Quest’ultima insegna che essa si configura nel caso di una “ripetizione costante di comportamenti uniformi (o comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe)” in grado di originare “principi e regole non scritti” i quali – “quando siano in armonia con il sistema costituzionale” – “contribuiscono ad integrare le norme costituzionali scritte e a definire la posizione degli organi costituzionali”, là dove (ad esempio “quanto al regime organizzativo e funzionale degli apparati serventi” di tali organi) la disciplina in Costituzione non sia “affatto compiuta e dettagliata” (cfr. sentenze n. 129 del 1981 e n. 7 del 1996; sebbene, proprio in materia parrebbe registrarsi, nella giurisprudenza più recente, un certo self restraint nel considerare consuetudine ciò è dato ricostruire nel bilanciamento tra principi costituzionali “scritti”, nella loro più lata estensione: cfr. sentenza n. 168 del 2018, che, in tema di azione contabile nei confronti di dipendenti della Presidenza della Repubblica, a differenza della citata sentenza n. 129 del 1981, sullo stesso tema, non ha speso l’argomento della “prassi” e della “consuetudine costituzionale”).
Appare, quindi, evidente come la tesi sostenuta dal ricorrente, di una prassi del tipo di quella dedotta a tema di prova e asseritamente divenuta consuetudine costituzionale nell’ambito qui scrutinato (ossia dell’azione amministrativa del C.S.M. nel conferimento degli incarichi direttivi), sia affatto inconsistente e, anzi, accrediterebbe l’idea, invero non praticabile, dell’esistenza di una possibile formazione di una “consuetudine contra costitutionem”, contestata dalla dottrina costituzionalista che ha approfondito la portata della giurisprudenza sopra richiamata.
Tale sarebbe, infatti, la “consuetudine” dedotta in ricorso, giacché del tutto distonica rispetto al “sistema costituzionale”, sia perché in contrasto con i valori-principi in precedenza ricordati (a tutela dell’autonomia e indipendenza, esterna e interna, della magistratura: cfr. supra p. 5.2.3.; ma anche nell’esercizio dei compiti di amministrazione: supra p. 6.2.6.1.2.), sia perché, comunque, impedita dalla già ricordata riserva di legge che la Costituzione stessa, all’art. 108 Cost., ha previsto in materia di ordinamento giudiziario, cui rinvia l’art. 105 Cost., quanto al governo del C.S.M. (anche) sulle “promozioni… nei riguardi dei magistrati”.
La dimostrazione in giudizio di una tale prassi contra legem (e, finanche, contra constitutionem) non apporterebbe, dunque, alcun elemento in grado di immutare il carattere di grave scorrettezza della condotta contestata come illecito disciplinare, poiché il relativo standard di valutazione, nel contesto della realtà sociale di settore (quella della magistratura ordinaria), è proprio lo standard che si viene a configurare all’interno del predetto perimetro di “regole giuridiche, anche procedimentali”.
Ma quella stessa prospettiva probatoria – e qui l’ulteriore salto logico, come tale ritenuto dal Giudice disciplinare – non si presta (ancor prima) neppure ad essere apprezzata come pertinente rispetto al tenore specifico della complessiva contestazione disciplinare, giacché questa non ha ad oggetto fatti riconducibili al tipo di interlocuzione che il ricorrente intende accreditare (ossia, quella di “politica giudiziaria”, che – è bene ribadire -, non può, secondo l’accezione sostenuta in ricorso, affatto riguardare la scelta del conferimento dell’incarico direttivo, da realizzarsi in forza della competizione secondo “regole giuridiche, anche procedimentali”), ma dà evidenza ad un piano materiale ben diverso.
E cioè al piano di una programmata intenzione di screditare o pregiudicare singoli magistrati “in connessione a possibili aspirazioni professionali di soggetti potenzialmente coinvolti in procedure di conferimento di incarichi giudiziari direttivi o semidirettivi” (p. 75 della sentenza impugnata) e, dunque, al tempo stesso, di condotte dirette a condizionare surrettiziamente le scelte del C.S.M. nel conferimento degli incarichi anzidetti.
Ne deriva, altresì, che la decisione della Sezione disciplinare di inammissibilità, per non pertinenza e irrilevanza, del tema di prova dedotto dall’incolpato si palesa, per le medesime ragioni già illustrate, esente da vizi logici e giuridici anche in riferimento alla questione della dosimetria della pena – che, nella specie (come si avrà modo di approfondire nel prosieguo di motivazione: cfr. infra p. 9.2 e ss.), è guidata dai criteri dell’art. 133 c.p., (Cass., S.U., 3 settembre 2020, n. 18302) -, giacché la dedotta prassi consiliare di “interlocuzione tra politica e associazionismo giudiziario” in materia di conferimento di incarichi direttivi, per un verso, non si rapporta affatto alla effettiva sostanza delle condotte contestate al Dott. P., mentre, per altro verso, si configura non solo come contra legem, ma pure – ove si desse seguito alla tesi difensiva – come fatto eversivo della Costituzione e, dunque, in ogni caso, tale, certamente, da non attenuare in alcun modo l’entità dell’illecito, né sotto il profilo oggettivo, né sotto quello soggettivo.
Alla luce di tutte le considerazioni che precedono e’, quindi, infondata la dedotta violazione dell’art. 111 Cost., art. 6 CEDU, artt. 187 e 495 c.p.p. – per la “plateale compressione dei diritti della difesa” e in particolare del “principio della parità delle armi” -, che il ricorrente deduce genericamente a conclusione del motivo di ricorso e da intendersi meramente riassuntiva delle doglianze sviluppate in modo articolato nel corpo del motivo stesso.
Il sesto motivo di ricorso.
14. – Con il sesto mezzo è prospettata la “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione relativamente alla tematica del difetto di tipicità delle condotte contestate al capo 1) della incolpazione” e si deduce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), della violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d).
La sentenza impugnata avrebbe fornito una motivazione apparente, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine alla questione, posta dalla difesa dell’incolpato, della “impossibilità “logica” (prima ancora che giuridica) di contestare ad un magistrato di aver realizzato, nelle stesse circostanze di tempo di luogo e con le medesime modalità di condotta, un illecito commesso nell’esercizio delle funzioni (nella specie, quello di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d, come contestato al capo 1.X di incolpazione), nonché altro illecito fuori dall’esercizio delle funzioni (nel caso che occupa, quello di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. i)”.
La Sezione disciplinare, nell’affermare l’esistenza di un concorso tra illecito funzionale ed extrafunzionale commesso dal magistrato, avrebbe illegittimamente scardinato tale ripartizione imposta dal D.Lgs. n. 109 del 2006, a livello sistematico, siccome individuante “due condizioni alternative di rilevanza disciplinare della medesima condotta del magistrato”, con la conseguenza che, prima ancora di operare il giudizio di sussunzione del fatto entro una delle fattispecie tipiche di illecito disciplinare, di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 2 e 3, occorre determinare “l’ambito nel quale quella unitaria condotta (ovvero tenuta nelle stesse circostanze di tempo, luogo e azione) può assumere rilievo”.
Soltanto una volta definita tale operazione, “si può passare a stabilire a quale delle diverse fattispecie (o, eventualmente, anche a più d’una di esse, ma sempre nell’ambito del medesimo “sistema” in cui si articola tale bipartizione) la condotta del magistrato sia riconducibile”. Un siffatto modus operandi sarebbe imposto, secondo la difesa del ricorrente, dalla tipizzazione dell’illecito disciplinare che è stata realizzata con la riforma del 2006.
14.1. – Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
In primo luogo, è inammissibile la censura che deduce l’apparenza di motivazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), giacché, oltre a non palesarsi comunque tale l’iter argomentativo, affatto intelligibile, della sentenza impugnata, che si pone ben al di là del c.d. “minimo costituzionale”, in ogni caso – come già in precedenza rilevato (cfr. supra p. 5.3.) -, non è pertinente rispetto al paradigma legale evocato la denuncia di un siffatto vizio allorquando, come nella specie, l’asserito errore attiene ad una questione di diritto e non di fatto, ben potendo, poi, questa Corte, ove sia corretto il dispositivo, provvedere a rettificare la motivazione ai sensi dell’art. 619 c.p.p..
Il precedente giurisprudenziale citato in ricorso (Cass. pen., 20 luglio 2020, n. 21525) non offre sostegno alla tesi del ricorrente, poiché (come emerge chiaramente dalla motivazione della pronuncia) il principio di diritto ivi enunciato – secondo cui la nozione di “motivazione inesistente o meramente apparente del provvedimento… ricorre quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo nel senso che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio” riguarda, per l’appunto, l’esame di una quaestio facti e non di una quaestio iuris.
Le censure difensive, infatti, nel loro impianto argomentativo (rispetto al quale si palesa del tutto estranea la citazione del precedente giurisprudenziale di cui a C.d.S., VI, 17 luglio 2001, n. 3957, che riguarda una vicenda concorsuale universitaria sotto il profilo della valutazione dei titoli), prospettano unicamente una questione in diritto, che attiene all’asserita erroneità dell’affermata sussistenza, in astratto, di un concorso formale tra illeciti disciplinari “funzionali” ed “extrafunzionali”, senza, peraltro, che venga sviluppata alcuna critica sul “difetto di tipicità delle condotte contestate” (e, dunque, su un tema che avrebbe imposto al ricorrente di criticare specificamente un eventuale errore di sussunzione dei fatti contestati nelle norme disciplinari di riferimento), soltanto così lapidariamente evocato nella rubrica del motivo stesso.
Dunque, lo scrutinio deve essere condotto, alla stregua di quanto effettivamente risulta dalle ragioni di censura, in funzione del dedotto error iuris ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), così da emendare l’evidente lapsus calami dovuto all’indicazione, nella rubrica del motivo, della lett. d) dello stesso art. 606.
14.2. – Il motivo, come detto, è infondato Alla luce di quanto già precisato da queste Sezioni Unite (Cass., S.U., 23 dicembre 2009, n. 27292; Cass., S.U., 8 febbraio 2019, n. 3888), il D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 2 e 3, non hanno, se non in modo molto limitato, la funzione di distinguere, a fini disciplinari, i magistrati a seconda dell’esercizio o meno delle funzioni giudiziarie, bensì sono volte a prevedere ipotesi di responsabilità disciplinare che possono rilevare a prescindere dal fatto che il magistrato che le ponga in atto eserciti o meno le funzioni stesse; e tanto, poiché ciò che è dirimente, ai fini della responsabilità disciplinare, è lo status dell’appartenenza del magistrato all’Ordine giudiziario.
In particolare, avuto riguardo proprio alla fattispecie tipica dell’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), va ribadito – in continuità con la giurisprudenza consolidata (Cass., S.U., 21 marzo 2013, n. 7042; Cass., S.U., 14 luglio 2017, n. 17551; Cass., S.U., 9 novembre 2018, n. 28653; Cass., S.U., 27 novembre 2019, n. 31058; Cass., S.U., 15 gennaio 2020, n. 741; Cass., S.U., 30 dicembre 2020, n. 29823) – il principio secondo cui la previsione deve essere interpretata nel senso che tali comportamenti non debbono necessariamente essere frutto dell’esercizio delle funzioni attribuite al magistrato, potendo riferirsi anche ai rapporti personali tra colleghi all’interno dell’ufficio. La formulazione normativa, infatti, prescinde del tutto dalla “funzionalità” della scorrettezza ed evoca, piuttosto, per un verso, il concetto di “funzione” in senso dinamico, in quanto connesso allo status di magistrato, e, per l’altro, la nozione di “scorrettezza funzionale” in senso “elastico”.
In altri termini, il concetto di “ufficio” non ha una mera connotazione “logistica” e non si riferisce esclusivamente ai rapporti che sono direttamente investiti dall’esercizio di funzioni strettamente giudiziarie, ma concerne anche le relazioni di tipo personale che intercorrono con soggetti che tali relazioni hanno intessuto con il magistrato per il ruolo che questi svolge, non essendo necessario che la scorrettezza contestata abbia avuto in concreto una ricaduta negativa in termini funzionali sui compiti istituzionali (Cass. n. 17551/2017, citata).
Ne consegue (come precisato da Cass., S.U., 24 giugno 2010, n. 15314) che la formula “costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”, con cui si apre il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, non individua un presupposto della fattispecie che si aggiunge agli elementi costitutivi dello specifico illecito e deve essere concretamente accertato, ma ha un significato meramente classificatorio, inteso soltanto a caratterizzare il disvalore della condotta in relazione al dovere violato.
In definitiva, con riferimento all’assetto complessivo del sistema disciplinare dettato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, ciò che deve sussistere, ai fini della punibilità, sono lo status di magistrato e la commissione di un fatto riconducibile nell’ambito di una delle fattispecie di illecito tipizzate dalla legge (artt. 2 e 3 del citato D.Lgs.), non rilevando l’esercizio o meno delle funzioni quale elemento costitutivo di ciascuna fattispecie che si va ad aggiungere agli elementi già tipizzati dal legislatore.
Tale approdo ermeneutico trova conforto nell’esigenza di mantenere l’area degli illeciti disciplinari nell’alveo della tipicità, secondo il disegno voluto dal legislatore in consonanza con i principi costituzionali di autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario (art. 101 Cost.), che – diversamente da quanto opinato dal ricorrente trova soddisfazione precipua nella specifica modulazione di quel determinato precetto il cui rispetto si impone al magistrato.
Ciò posto, la mera attitudine descrittiva delle definizioni di ipotesi di illeciti disciplinari “funzionali” (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2) e, per connessione, di quelli posti in essere “fuori dell’esercizio delle funzioni” (art. 3 del medesimo decreto) – che, si ripete, non assurgono a elementi identificativi delle fattispecie di illecito disciplinare codificate – determina, per il caso di un’unica condotta del magistrato ridondante nella sfera di applicazione di entrambe le predette norme, la sussistenza di un’ipotesi di concorso formale di illeciti, tutti astrattamente sanzionabili e questo a prescindere dall’appartenenza di una data fattispecie sanzionatoria al “tipo” prospettato – a fini descrittivi – dal legislatore in termini di funzionalità o extrafunzionalità dell’illecito (Cass., S.U., 11 marzo 2013, n. 5943; Cass., S.U., 22 aprile 2013, n. 9691; Cass., S.U., 4 febbraio 2021, n. 2610).
Il portato di tale impostazione, tutta incentrata sull’elemento costitutivo dell’illecito (cfr. già Cass., S.U., 30 luglio 1998, n. 7476, ove, ai fini della responsabilità del magistrato, si fa riferimento tanto alla “mancanza ai doveri” quanto alla “reprensibile condotta in ufficio o fuori”), può, dunque, così essere descritto: la configurabilità del concorso formale non cede il passo all’applicazione del principio di specialità, previsto dall’art. 15 c.p., qualora le fattispecie di illecito concorrenti, ancorché astrattamente poste in rapporto di genere a specie tra di loro, siano in concreto “autonome”, poiché riconducibili a elementi fattuali diversi (Cass., S.U., 19 febbraio 2019, n. 4881; Cass., S.U., 5 febbraio 2020, n. 2709), sussumibili in più d’una fattispecie, a prescindere dalle “voci” o “categorie” utilizzate dal legislatore, là dove il principio di specialità trova, invero, operatività per il caso di concorso apparente di norme coesistenti legate in un rapporto di specie a genere.
In particolare, con riguardo al caso concreto, le fattispecie di illecito disciplinare, attinte dall’unico comportamento lesivo del magistrato, descritte, l’una, dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), (volta a sanzionare, per quanto rileva in questa sede, “i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti… di altri magistrati”); l’altra, dall’art. 3, comma 1, lett. i) (concernente “l’uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è diretto a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste”), non si atteggiano, fra loro, in rapporto di specialità, bensì si traducono in un vero e proprio concorso formale di illeciti, poiché la condotta scorretta del magistrato, nei riguardi dei soggetti previsti dal richiamato art. 2, prescinde del tutto dall’uso strumentale della qualità di magistrato, ai richiamati fini del condizionamento sull’esercizio di funzioni costituzionali; la spendita (anche implicita e perciò identificabile nell’uso strumentale”), ai predetti fini, della qualità di magistrato non integra, di per sé, una condotta scorretta del medesimo nei confronti di altri magistrati.
Il settimo motivo di ricorso.
15. – Con il settimo mezzo si deduce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), “la mancata motivazione in ordine alla sussistenza della grave scorrettezza e dell’attività di condizionamento di funzioni costituzionalmente riservate al C.S.M.”.
Quanto al profilo della “grave scorrettezza”, la difesa del ricorrente ricorda, anzitutto, che la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente la “grave scorrettezza” delle condotte contestate al capo 1) dell’incolpazione, in quanto “programmaticamente dirette (in connessione con possibili aspirazioni professionali di soggetti potenzialmente coinvolti in procedure di conferimento di incarichi giudiziari direttivi o semidirettivi) a screditare o pregiudicare singoli magistrati (in particolare – anche tralasciando la posizione del Dott. P., in quanto successivamente cessato dal servizio – il Dott. I. P. e il Dott. B., nonché tutti gli aspiranti alla Procura della Repubblica di Perugia) e, quindi, ripetutamente gravemente contrarie a canoni di correttezza della condotta”.
La Sezione disciplinare, con tale “(apparente) motivazione, priva di “vaglio critico”, sarebbe incorsa in una “clamorosa contraddizione” là dove, per sostenere la scorrettezza nei confronti del Dott. I., rievoca (capo y.3) i fatti emergenti dai dialoghi telefonici tra l’incolpato e il Dott. D.G., trascurando però che “all’udienza del 28 settembre del 2020 il Dott. D.G. veniva assunto quale teste negando in radice qualsiasi attività di discredito nei confronti del Dott. I.”.
Quanto poi alla “attività di condizionamento” del CSM, la sentenza impugnata, anzitutto, sarebbe affetta da nullità in quanto opererebbe un rinvio totale alla requisitoria della Procura Generale (con la tecnica del cd. “copia-incolla”), senza che “manifesti un’autonoma rielaborazione da parte del decidente”.
Inoltre, la Sezione disciplinare, nel ritenere “sufficiente, per la consumazione dell’illecito… che “il magistrato abbia agito, strumentalizzando la sua qualità, per raggiungere il fine di turbare funzioni costituzionalmente previste”, ma senza che sia “necessario che il fine si sia realizzato”, avrebbe reso una motivazione “in stridente contrasto con lo spirito e la ratio della norma” di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. i), “dando per scontata la dimostrazione della sussistenza dell’intenzione di stravolgere il regolare svolgimento delle funzioni costituzionalmente previste senza che di tale accertamento vi sia prova agli atti”.
L’insussistenza di tale intenzione – soggiunge il ricorrente, rinviando alle ragioni di censura sviluppate nel quinto motivo di ricorso – sarebbe potuta emergere dall’ammissione dei testi richiesti dalla difesa dell’incolpato su circostanze volte rappresentare come l’incolpato stesso fosse stato “individuato, da taluni dei neo-eletti consiglieri, e da taluni Parlamentari (uno dei quali, l’On. F., anch’egli già in passato membro del C.S.M.) come un interlocutore con cui confrontarsi su temi di “politica giudiziaria”” e come tale “interlocuzione tra politica e Magistratura” costituisca “momento imprescindibile del funzionamento dell’organo di governo autonomo”, segnatamente quanto alle scelte relative al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi degli uffici giudiziari.
15.1. – Il motivo – alla luce dei principi (cfr. supra 4 5.3.) che orientano il sindacato rimesso a queste Sezioni Unite sul vizio di motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – non può trovare accoglimento.
Inammissibile, perché priva di qualsivoglia supporto argomentativo, è anzitutto la doglianza che si limita ad asserire la contraddittorietà della sentenza impugnata là dove ha reputato sussistente la “grave scorrettezza”, quale elemento costitutivo del contestato illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. d), in riferimento alla posizione del Dott. B..
Il ricorso, infatti, sviluppa critiche all’impianto argomentativo della decisione disciplinare con esclusivo riguardo alla ritenuta grave scorrettezza consistita nell’attività di discredito del Dott. I. e a tal fine richiama soltanto i fatti di cui al capo y.3) dell’incolpazione, ossia l’interlocuzione telefonica tra il Dott. P. e il Dott. D.G., che svolgeva attività di curatore fallimentare presso il Tribunale di Roma.
Anche sotto tale specifico profilo la censura si palesa inammissibile, poiché con essa si deduce non una contraddittorietà intrinseca al testo provvedimento impugnato, ma nel raffronto con altro atto processuale e, segnatamente, la deposizione testimoniale del Dott. D.G., di cui si omette, però, di dar conto di quali siano i contenuti effettivamente rilevanti e tali da far risaltare, in modo puntuale, la decisività della mancata considerazione della prova.
Invero, la doglianza è volta, piuttosto, a sollecitare queste Sezioni Unite ad una, non consentita, (ri)valutazione delle emergenze istruttorie, attraverso l’apprezzamento (che e’, invece, rimesso esclusivamente al giudice di merito) del significato probatorio da trarre dal tenore complessivo della deposizione stessa in rapporto al significato probatorio delle conversazioni intercettate (tre telefonate in data 11 aprile 2019) intercorse tra il teste e l’incolpato.
Il ricorrente non mette neppure in discussione la portata ascritta dal Giudice disciplinare alle stesse conversazioni intercettate, ossia di prova “che anche con il dottor D.G. il dottor P. abbia parlato della strategia di discredito del dottor I., inducendo così il dottor D.G. ad attivare i suoi canali informativi presso altri colleghi consulenti tecnici, ovvero presso il mondo dei colleghi commercialisti o anche presso gli stessi uffici di procura da lui frequentati in virtù degli incarichi ricevuti, onde raccogliere ulteriori elementi utili alla causa di discredito del dottor I.” (p. 63 della sentenza impugnata).
In tal senso, è la censura stessa a non mostrarsi concludente rispetto al dedotto vizio di insanabile contraddittorietà della pronuncia impugnata, poiché, rispetto al fatto contestato con il (sotto)capo di incolpazione “y.3” (cfr. pp. 4 e 5 della sentenza disciplinare) e ritenuto provato, nei termini e nella portata anzidetti, dalla Sezione disciplinare (ossia, aver il Dott. P. discusso di una strategia di discredito con il Dott. D.G., rendendo possibile l’acquisizione, tramite quest’ultimo, di ulteriori elementi allo scopo), non assume rilievo la personale convinzione del teste di non avere svolto “qualsiasi attività di discredito nei confronti del dottor I.”, con conseguente negazione di tale attività, come asserito in ricorso.
Infine, il ricorrente non argomenta affatto in punto di idoneità ed efficacia dell’errore, in cui sarebbe incorso il Giudice disciplinare in riferimento al solo (sotto)capo di incolpazione y.3), a disarticolare l’intero ragionamento probatorio che sorregge la sentenza impugnata quanto all’accertamento della “gravità della scorrettezza” nei confronti del dottor I.. L’illecito contestato al capo di incolpazione Y (articolato in più sottocapi: da y.1 ad y.5) indica, invero, una pluralità di fatti che la stessa Sezione disciplinare ha ritenuto (cfr., segnatamente, pp. 5865 della sentenza impugnata e sintesi ai p.p. 5.5. b) e 5.5.1. dei “Fatti di causa”) come tutti convergenti a dimostrare una programmazione diretta “a screditare o pregiudicare singoli magistrati” e, nella specie, a screditare il Dott. I., ciò concretando l’elemento della “gravità della scorrettezza”.
Il ricorso omette di confrontarsi, al fine di confutarla, con il complesso di tale articolata motivazione.
15.2. – Il secondo profilo di censura è infondato.
Lo e’, anzitutto, in riferimento alla dedotta apparenza di motivazione della sentenza impugnata, alla luce dello stesso precedente giurisprudenziale richiamato in ricorso (Cass. pen., 12 febbraio 2013, n. 7031).
Il rinvio contenuto nella sentenza disciplinare alle conclusioni del Procuratore generale della Corte di cassazione (con relativa trascrizione) non è privo di alcun vaglio critico, come asserito dal ricorrente, bensì sorretto da adeguata e logica motivazione (affatto rispettosa del c.d. “minimo costituzionale”), che non solo dà conto delle ragioni dell’adesione della Sezione disciplinare a quelle conclusioni, ma sviluppa ulteriori considerazioni in punto di sussistenza e portata dell’illecito disciplinare contestato al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. i), e, quindi, del comportamento tenuto dal Dott. P., “diretto a condizionare” l’esercizio dei compiti che la Costituzione affida al C.S.M. e, segnatamente, del compito relativo all’attività di conferimento degli incarichi giudiziari direttivi e semidirettivi (cfr. pp. 88-90 e 92-101 della sentenza impugnata, nonché sintesi al p. 5.5.3 – e relativi sottoparagrafi – dei “Fatti di causa”, cui si rinvia integralmente).
Quanto, poi, al rilievo per cui l’ammissione dei testi – negata dalla Sezione disciplinare – avrebbe dimostrato l’inconsistenza della contestazione disciplinare, per essere il comportamento del Dott. P. ascrivibile soltanto all’ambito della c.d. “interlocuzione tra politica e magistratura su temi di politica giudiziaria”, valgono le considerazioni, già illustrate in sede di scrutinio del quinto motivo di ricorso (alle quali si rinvia integralmente: cfr. supra, segnatamente, p. 13.7.), sulla non censurabile, sotto alcun profilo, decisione anzidetta del Giudice disciplinare, tenuto conto dei non pertinenti/irrilevanti fatti oggetto dei capitoli di prova, perché volti a provare una prassi contra legem e, comunque, non aderente ai fatti contestati (influire in modo indebito, per interessi egoistici, sulle scelte del C.S.M. in materia di conferimento degli incarichi giudiziari direttivi e semidirettivi).
E ciò a prescindere dal fatto che tale condotta contestata, e accertata all’esito del giudizio disciplinare, abbia determinato, o meno, l’evento del condizionamento stesso dell’organo di governo autonomo della magistratura, venendo in rilievo un illecito di mero pericolo, secondo la qualificazione giuridica data dalla stessa Sezione disciplinare alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. i), che il ricorrente non solo non censura affatto sotto il profilo della rispondenza a diritto, ma mostra di condividere (p. 77 del ricorso).
L’ottavo motivo di ricorso.
16. – Con l’ottavo mezzo è prospettata la “mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla violazione del profilo di proporzionalità nell’applicazione della misura della sanzione della rimozione anche tenuto conto della mancata riunione dei procedimenti e della atipicità del calendario delle udienze”, e viene denunciata, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 606, comma 1, lett. d) ed e), la violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 13 e 22, “con riferimento alla mancata motivazione delle ragioni dell’applicazione della sanzione della rimozione”.
La sentenza impugnata, senza dare contezza dell’iter logico seguito nella scelta della sanzione poi irrogata, avrebbe, anzitutto, fatto leva sull’argomento del “clamore mediatico”, tralasciando, tuttavia, che tale clamore avrebbe “interessato in eguale misura lo stesso CSM e addirittura la Sezione disciplinare” (tanto che la difesa dell’incolpato aveva sollevato eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p., “nella parte in cui non consente il differimento alla Sezione Disciplinare della Consiliatura successiva, rispetto a quella che versi in una situazione idonea a giustificare “legittimo sospetto” ai sensi di tale norma”) e che allo stesso non avrebbe dato origine il Dott. P., ma “più fonti interne allo stesso CSM”.
Non sarebbe, comunque, comprensibile l’iter logico giuridico che ha guidato il Giudice disciplinare nella scelta della sanzione della rimozione che, in quanto sanzione massima, avrebbe richiesto una motivazione particolarmente “rinforzata”, in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p., nella specie mancante.
Inoltre, la sentenza impugnata, “in maniera del tutto anomala” e in contrasto con quanto emerge dalle contestazioni disciplinari, incentrate sui fatti aventi ad oggetto la partecipazione all’incontro tenutosi presso l'***** e le discussioni sulla “futura nomina del Procuratore di Roma”, ha rigettato (con ordinanza del 15 settembre 2020) la richiesta di riunione del presente procedimento disciplinare (n. 76/2019) con quello a carico degli altri partecipanti a detto incontro (n. 77/2019).
La Sezione disciplinare, rendendo poi “ancor più immotivata la decisione di irrogare al Dott. P. la estrema sanzione della rimozione”, ha provveduto, all’udienza del 15 settembre 2020, a riprogrammare il calendario delle udienze “in spregio al più elementare rispetto della leale collaborazione”, anticipando al 16 ottobre 2020 ossia pochi giorni prima della data del 20 ottobre 2020, “coincidente con il pensionamento del Dott. D.P.” – l’ultima udienza in precedenza fissata per il 17 dicembre 2020 e ciò proprio tenuto conto del dibattito (articolo pubblicato nell’agosto 2020, allegato 12 al ricorso) sviluppatosi, sia all’interno della magistratura, sia a livello mediatico, “circa il fatto che la presenza del Dott. D. avrebbe potuto rendere nulla la decisione della sezione disciplinare nei confronti del Dott. P. se la stessa non fosse avvenuta entro il 20 ottobre 2020”. Una “accelerazione del procedimento”, questa, che costituirebbe una “ulteriore anomalia che ha caratterizzato tempi e modi di svolgimento del processo in violazione dei principi contenuti nell’art. 6 della Cedu”.
16.1. – Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
E’ inammissibile, anzitutto, là dove con esso si evoca una violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 13 e 22, affatto priva di qualsiasi argomentazione a sostegno e concernente, comunque, disposizioni che non riguardano la disciplina (di cui agli artt. 5 – 12 di detto decreto) delle sanzioni disciplinari (e, dunque, della rimozione: artt. 11 e 12), bensì i diversi istituti del trasferimento d’ufficio in via cautelare (art. 13) e della sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio (art. 22).
16.2. – Le restanti doglianze sono infondate.
E’ principio consolidato quello per cui, anche al di fuori delle ipotesi in cui il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, impone la sanzione disciplinare della rimozione, è consentito alla Sezione disciplinare del C.S.M. comminare la sanzione più grave (che comporta la cessazione del rapporto di servizio del magistrato), nel caso in cui l’illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale del magistrato, anche in relazione allo strepitus fori, secondo l’apprezzamento di merito dello stesso Giudice disciplinare, che è insindacabile in questa sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici, con riguardo all’adeguatezza della sanzione della rimozione (Cass., S.U., 8 aprile 2009, n. 8615; Cass., S.U., 6 novembre 2014, n. 23677; Cass., S.U., 21 settembre 2018, n. 22427; Cass., S.U., 20 marzo 2019, n. 7928; Cass., S.U., 3 settembre 2020, n. 18302).
A tal fine, devono formare oggetto di valutazione la gravità dei fatti in rapporto alla loro portata oggettiva, la natura e l’intensità dell’elemento psicologico nel comportamento contestato unitamente ai motivi che l’hanno ispirato e, infine, la personalità dell’incolpato, in relazione, soprattutto, alla sua pregressa attività professionale e agli eventuali precedenti disciplinari.
Tale valutazione – che, nella sostanza, è guidata dai criteri di cui all’art. 133 c.p., che detta parametri oggettivi di apprezzamento della gravità dell’illecito – deve essere particolarmente approfondita qualora la scelta si rivolga alla più grave delle sanzioni, sul presupposto che l’illecito contestato al magistrato sia di tale entità che ogni altra sanzione risulti insufficiente alla tutela di quei valori che la legge intende perseguire costituiti dalla fiducia e dalla considerazione di cui il magistrato deve godere, nonché dal prestigio dell’Ordine giudiziario (Cass., S.U., 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., S.U., 4 luglio 2012, n. 11137; Cass., S.U., n. 7928/2019 e n. 18302/2020, citate).
Tanto premesso, la Sezione disciplinare è giunta alla determinazione della sanzione della rimozione valorizzando i parametri di valutazione anzidetti e, in particolare: a) la gravità oggettiva dei fatti addebitati, di entità “massima”; b) la particolare intensità dell’elemento psicologico; c) le motivazioni egoistiche, che hanno sorretto il comportamento disciplinarmente illecito; d) la sistematicità delle condotte riconducibili alle contestazioni disciplinari; e) la rilevantissima compromissione del prestigio personale dell’incolpato e dell’Ordine giudiziario.
Nel contesto di questa valutazione, il Giudice disciplinare ha, quindi, messo in rilievo come l’incolpato fosse non solo consapevole della contrarietà delle proprie condotte “alle regole codificate”, ma le avesse programmate “con “chirurgica” determinazione strategica degli obiettivi”, secondo un programma “accuratamente architettato”.
E tanto perché spinto da ragioni soltanto “personali”, al fine di soddisfare “obiettivi egoistici di affermazione professionale” e non già da motivi coincidenti con il proposito “(sia pure perseguito attraverso accordi e metodi gravemente scorretti e giuridicamente illeciti)” di “procurare la “collocazione” negli Uffici giudiziari di quelle professionalità soggettive che, nella sua personale rappresentazione, gli apparivano come le più idonee, funzionalmente, agli incarichi da assegnare”.
Quanto, poi, alla “gravità oggettiva dei fatti” oggetto degli addebiti, la Sezione disciplinare l’ha reputata “massima”, tenuto conto del numero e della qualità dei soggetti che le condotte dell’incolpato erano dirette a pregiudicare, nonché della “speciale rilevanza” degli interessi istituzionali implicati, venendo insidiate le funzioni costituzionali dell’organo di governo autonomo della magistratura e “presi di mira alcuni tra i più rilevanti Uffici giudiziari del Paese”.
Sempre in riferimento alla “gravità oggettiva dei fatti”, la sentenza impugnata si è soffermata sul profilo professionale dell’incolpato, ponendo in risalto che quelle condotte, di gravità “massima”, provenivano da chi aveva ricoperto “ruoli istituzionali e di responsabilità”: già consigliere del C.S.M. e presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, nel cui contesto “agiva, all’epoca dei fatti, nella sostanziale qualità di leader di un gruppo associativo di massima estensione all’interno dell’Ordine giudiziario”.
Infine, il Giudice disciplinare ha posto in rilievo il grado di grave “compromissione del prestigio personale e funzionale e della considerazione di cui il Magistrato deve godere, nonché del prestigio dell’Ordine giudiziario”, in ragione della “straordinaria gravità e l’enorme risonanza mediatica delle vicende disciplinari considerate”.
Dunque, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, il “clamore mediatico” è uno degli elementi, non il solo ad aver determinato la scelta della sanzione più grave ed è elemento che, invero, neppure la doglianza mette in discussione, argomentando solamente in riferimento ad una diversa valenza da attribuire a quel “clamore”, con ciò sollecitando queste Sezioni Unite ad una rivalutazione, non consentita, degli elementi probatori utilizzati ai fini della decisione.
I rilievi difensivi sono infondati anche nella parte in cui prospettano una intrinseca contraddittorietà tra la centralità del rilievo attribuito alla partecipazione alla riunione presso l'***** e la decisione di rigetto dell’istanza di riunione dei vari procedimenti disciplinari assunta dalla Sezione disciplinare, poiché vi era “solo una parziale sovrapponibilità dei fatti oggetto di contestazione in ciascun procedimento”.
In realtà, al Dott. P. sono state addebitate condotte ulteriori di discredito di taluni magistrati e di “interventi” su uffici giudiziari diversi dalla Procura della Repubblica di Roma, che, unitamente ai fatti, diversi, dell'*****”, sono stati ritenuti convergenti ai fini della graduazione della sanzione disciplinare da irrogare.
In ogni caso, i profili della mancata riunione del presente procedimento disciplinare a quelli aperti nei confronti degli altri incolpati partecipanti all’incontro dell’8/9 maggio 2019 (provvedimento del Giudice disciplinare insuscettibile di impugnazione) e della concentrazione delle udienze in tempi più stretti di quanto programmato in precedenza dalla stessa Sezione disciplinare non incidono sulla motivazione della sentenza in punto di graduazione della sanzione, né danno conto di una aporia motivazionale, giacché sono elementi estranei a quelli che presiedono, ex art. 133 c.p., alla determinazione della sanzione stessa.
In definitiva, la scelta della sanzione massima della rimozione ha trovato giustificazione, all’esito dell’accertamento sulla sussistenza degli addebiti disciplinari contestati al Dott. P., in ragione della loro straordinaria gravità:
– per le modalità di azione in sistematico contrasto con le regole giuridiche disciplinanti i compiti amministrativi del C.S.M.;
– per i soggetti coinvolti (consiglieri del C.S.M. e membri del Parlamento);
– per le Istituzioni colpite (il C.S.M. e l’Ordine giudiziario);
– per l’articolazione del progetto perseguito, messo in opera in base ad una articolata “strategia operativa”, tutta a vantaggio di “interessi personali”, e volto:
– a screditare strumentalmente alcuni magistrati della Procura della Repubblica di Roma investiti di responsabilità direttive (il Dott. P.) e semi-direttive (il Dott. I.);
– a influire indebitamente sulla designazione del nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, precondizione, negli intendimenti del Dott. P., del conferimento allo stesso incolpato di uno dei posti vacanti di Procuratore Aggiunto presso il medesimo Ufficio;
– a mantenere l’interlocuzione, ai fini della designazione del nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, con un membro del Parlamento sottoposto ad indagini proprio dal menzionato Ufficio giudiziario;
– a interferire sulla nomina del nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Perugia, competente, ai sensi dell’art. 11 c.p.p., alla trattazione dei procedimenti penali in cui magistrati del distretto giudiziario della Corte di appello di Roma rivestono la qualità di indagati, imputati o parti offese, che, nella prospettiva del Dott. P., doveva garantire la disponibilità ad ottenere un atteggiamento di sfavore nei confronti del Dott. I., in vista dell’iscrizione di un procedimento penale a suo carico, così da pregiudicarne irrimediabilmente i futuri sviluppi professionali;
– per l’intensità dell’elemento psicologico e il personalismo delle motivazioni (mettendo in atto, per ragioni eminentemente egoistiche, una sorte di “risiko giudiziario”: p. 76 della sentenza impugnata e così già la citata Cass., S.U., n. 741/2020);
– per la “enorme” risonanza pubblica delle vicende oggetto di contestazione, con ricadute particolarmente negative sulle figure dei protagonisti e sulle Istituzioni coinvolte.
Il Dott. P. – come messo in risalto dal Giudice disciplinare (pp. 65 e 66 della sentenza impugnata) – ha agito “sulla base di motivazioni assolutamente personali”, intendendo “colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira e, al contempo e sinergicamente, ponendo in essere manovre strategiche intese a collocare – in alcuni Uffici giudiziari sensibili taluni magistrati in luogo di altri aspiranti, con la inevitabile ma necessaria conseguenza di sfavorire tutti i (numerosi altri) concorrenti rimanenti, diversi da quelli prescelti, programmaticamente selezionati non già sulla base di meriti oggettivi, ma unicamente in forza di convenienze strettamente personali, dell’incolpato e/o di suoi interlocutori”.
Una strategia, questa, “tutt’altro che occasionale ma, al contrario, soggettivamente avvertita dall’incolpato come assolutamente normale, usuale, fondata sul radicato convincimento della riconducibilità sistematica delle proprie condotte anche al piano di una possibile e lecita (se non, addirittura, scontata) interlocuzione tra magistratura e politica”.
Invero, come ancora evidenziato dalla Sezione disciplinare (pp. 96 e 97 della sentenza impugnata), le condotte contestate hanno di “gran misura” il “modello perimetrato nella previsione costituzionale, scavalcando la stessa rappresentanza politica in seno all’Organo di governo autonomo della Magistratura e scegliendo a piacimento, ed in maniera del tutto arbitraria, altri interlocutori politici, per di più imputati, o anche interlocutori togati disparati ed estranei ad ogni responsabilità di rappresentanza, dunque, privi di ogni legittimazione”.
Attività, questa, che il Giudice disciplinare ha correttamente reputato estranea ad ogni obiettivo di “politica giudiziaria in senso lato” e, invece, espressiva di “concretissime (e tutt’altro che commendevoli) forme di interesse personale e privato che si sostituiscono integralmente alle finalità costituzionali”.
In termini del tutto congruenti, pertanto, si è risolto anche il giudizio della Sezione disciplinare sul fatto che sia stato minato alla radice il “prestigio” dell’incolpato come appartenente all’Ordine giudiziario e vulnerato in modo assai significativo il “prestigio” dello stesso Ordine giudiziario.
Si tratta, infatti, di ferite idonee a lacerare dal profondo quel rapporto fiduciario che – come detto in precedenza – deve sussistere tra la comunità civile e il potere giudiziario, affinché quest’ultimo possa agire in modo efficace a tutela delle libertà e dei diritti di tutti i partecipi a quella comunità.
La fiducia dell’intera collettività necessita, infatti, di essere alimentata quotidianamente e tanto deve realizzarsi attraverso il concreto inverarsi del modo di essere in cui, oggi, quel “prestigio” va tradotto, ossia – come posto in rilievo anche dal pubblico ministero in sede di discussione orale – nel credibile e affidabile, ma anche sobrio, esercizio dei compiti che la Costituzione ha affidato alla Magistratura.
La motivazione della sentenza impugnata, particolarmente approfondita sotto tutti gli aspetti in precedenza illustrati, resiste, dunque, alle critiche mosse con il ricorso, sviluppandosi ben oltre il necessario “minimo costituzionale” e palesandosi immune da vizi logici e in armonia con i principi sopra enunciati, così da rendersi insindacabile in questa sede.
Le istanze conclusive del ricorso.
17. – Il ricorso, in conclusione (pp. da 82 a 85), chiede a queste Sezioni Unite – nell’eventualità in cui “le pregiudizievoli determinazioni assunte nei confronti del ricorrente” non siano ritenute in “contrasto le previsioni degli atti normativi primari in base ai quali il Consiglio Superiore della Magistratura le ha adottate” – di “valutare la legittimità costituzionale e la compatibilità di tali atti normativi”.
A tal riguardo, viene posta, anzitutto, “(d)omanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea delle disposizioni contenute nell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 52 c.p.c., nonché nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e), art. 12, comma 5, artt. 20 e 22, come interpretate dalle ordinanze e dalla sentenza” impugnate.
Viene, altresì, sollevata eccezione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 15,17 e 18 Cost., art. 24 Cost., comma 2, art. 27 Cost., comma 2, e art. 111 Cost., commi 1 e 2, delle medesime anzidette disposizioni (art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 52 c.p.c., nonché del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e), art. 12, comma 5, artt. 20 e 22), come interpretate dalla sentenza impugnata, nella parte in cui “consentano di irrogare sanzioni nei confronti di un incolpato divenuto tale in esito a indagini condotte in violazione di specifiche disposizioni di legge (quali sono quelle che vietano di intercettare un parlamentare senza previa autorizzazione della Camera di appartenenza) ed è stato quindi sanzionato da un collegio giudicante che dapprima non gli ha riconosciuto il diritto di discutere la maggior parte dei propri testimoni a discarico e successivamente ha consentito ad uno stesso soggetto indicato come testimone (il Dott. D.P.) di mantenere il proprio ruolo di giudice dell’incolpato, con evidenti conseguenze sulla terzietà ed imparzialità del Primo nel giudicare il Secondo”.
17.1. – La domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea è stata già esaminata e ritenuta inammissibile in sede di scrutinio del primo motivo di ricorso e alle ragioni ivi illustrate si rinvia integralmente (cfr. supra p. 7.10.).
17.2. – Quanto alla articolata eccezione di legittimità costituzionale, quella investente, anzitutto, gli artt. 51, comma 1, n. 4, e 52 c.p.c. è stata già esaminata (e superata) sempre in sede di scrutinio del primo motivo di ricorso e, pertanto, alle ragioni ivi illustrate si rinvia integralmente (cfr. supra p.p. da 7.4. a 7.7.).
17.3. – In riferimento, poi, ai dubbi di costituzionalità ulteriormente prospettati dal ricorrente, gli stessi sono, per un verso, inammissibili e, per altri versi, irrilevanti e, dunque, non possono dar luogo ad alcuna rimessione alla Corte costituzionale.
Sono inammissibili poiché l’eccezione è meramente assertiva, priva di argomenti a sostegno del supposto contrasto tra le disposizioni indicate (dovendo reputarsi frutto di un mero lapsus calami l’indicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. e), in luogo della lettera i) dello stesso articolo) e i parametri costituzionali evocati, spettando al solo ricorrente fornire le ragioni del dubbio che egli stesso assume come rilevante.
In particolare, poi, rimane del tutto oscuro il rilievo che assume nel presente giudizio disciplinare, anzitutto, la disposizione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, volta a regolare i rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio civile o penale.
Del pari, non è affatto spiegato dal ricorrente perché il Giudice disciplinare avrebbe dovuto applicare, in sede di giudizio di merito conclusosi con la sentenza impugnata, l’art. 22 dello stesso decreto, concernente la sospensione cautelare facoltativa.
Una tale questione avrebbe dovuto semmai essere sollevata proprio in sede cautelare o di impugnazione dell’ordinanza applicativa di detta misura, su cui ora verte il giudicato confermativo di cui alla citata sentenza n. 741/2020.
In ogni caso (pur restando assorbenti le considerazioni che precedono), quanto lamenta il ricorrente, in modo lapidario, attiene, in generale, a questioni di compatibilità costituzionale che sono state già esaminate in sede di scrutinio del secondo (intercettazioni del parlamentare) e quinto motivo di ricorso (mancata ammissione della prova testimoniale) e alle ragioni ivi illustrate si rinvia integralmente (cfr. supra, rispettivamente, p.p. da 9.11. a 9.13. e p. 13.7.).
In realtà, si deve ancora osservare che nell’eccezione sollevata dal ricorrente (per quanto è possibile comprendere in ragione della sua, inemendabile, genericità) non è dato, di per sé, ravvisare una prospettazione di questioni di costituzionalità in relazione – come si vorrebbe – a norme interpretate dal “diritto vivente” in senso contrario alla Costituzione.
Questo perché, in realtà, non è censurata l’interpretazione delle fattispecie legali di riferimento (la disciplina sulle intercettazioni delle comunicazioni del parlamentare; la disciplina sulla ammissibilità della prova nel giudizio penale), che peraltro trova una posizione non divergente tra quanto ritenuto in iure dalla sentenza impugnata e la difesa del ricorrente, bensì è censurata, nuovamente, l’applicazione in concreto – che il ricorrente medesimo assume erronea – di quelle stesse norme, ossia: a) la prova sulla casualità dell’intercettazione delle comunicazioni del parlamentare; b) l’apprezzamento di merito sull’ammissibilità della dedotta prova testimoniale, ritenuta non pertinente e non rilevante.
Il terzo dei “motivi nuovi” di cui alla memoria ex art. 378 c.p.c.
18. – Con il terzo dei “motivi nuovi” (sviluppato alle pp. 34-37 della memoria) è denunciata la “erronea applicazione della legge processuale per l’inosservanza delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice”, nonché la “contraddittorietà e… manifesta illogicità della motivazione della sentenza e dell’ordinanza n. 94 del 2020 depositata in udienza il 28 luglio 2020”, lamentandosi, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), la violazione dell’art. 45 c.p.p., in relazione anche agli artt. 25,101 e 111 Cost., nonché degli artt. 6 e 8 CEDU (quali norme interposte), “relativamente al rigetto all’istanza”.
Il ricorrente argomenta diffusamente sulle ragioni, di ordine costituzionale e convenzionale, di asserita erroneità della ordinanza emessa dalla Sezione disciplinare n. 20 del 15 settembre 2020 con la quale è restata rigettata la richiesta dell’incolpato di rimessione alla Corte costituzionale del combinato disposto degli art. 45 c.p.p. e ss., e D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4, “nella parte in cui non prevedono che ove la Sezione disciplinare versi in una situazione di quelle considerate dall’art. 45 c.p.p., l’incolpato o il P.G. possano richiedere la rimessione del giudizio alla Sezione disciplinare successiva a quella della consiliatura in essere”.
L’esigenza di imparzialità e serenità dell’organo giudicante (ossia non del giudice “persona fisica”, ma dell'”intero ufficio giudiziario” al quale appartiene detto giudice), messa in discussione da vicende sicuramente sintomatiche di una grave turbativa dell’organo stesso, troverebbe ulteriore evidenza nell’ordinanza del G.U.P. di Perugia del 9 aprile 2021, la quale ha individuato nel C.S.M. la persona offesa dei reati contestati al Dott. P., in quanto commessi come consigliere del C.S.M. stesso, ciò venendo a determinare “la singolare situazione nella quale il Consiglio Superiore della Magistratura funge allo stesso tempo da un lato come giudice della Sezione disciplinare e dall’altro come persona offesa dal reato in quanto astrattamente vittima dei comportamenti contestati al dottor P. ma lo stesso tempo suo giudice disciplinare”.
18.1. – Il motivo è inammissibile.
Tra le ragioni di censura mosse con il ricorso avverso la sentenza della Sezione disciplinare non figura affatto quella relativa al rigetto della richiesta di rimessione del procedimento disciplinare “per legittimo sospetto” ex art. 45 c.p.p., che è stata decisa da detta sentenza (pp. 15-22) con relativa declaratoria di irrilevanza e, comunque, di manifesta infondatezza della prospettata eccezione di legittimità costituzionale.
Ne’ è possibile ravvisare la proposizione di un motivo di censura nel mero accenno alla circostanza che una siffatta questione di costituzionalità fosse stata sollevata nel corso del giudizio dinanzi alla Sezione disciplinare (p. 79 del ricorso), poiché si tratta di un richiamo solo descrittivo, nel contesto di altre doglianze (quelle poste con l’ottavo motivo di ricorso), di un “accadimento” processuale, ma privo di qualsivoglia supporto argomentativo che lo possa configurare come volto ad impugnare in parte qua la sentenza del Giudice disciplinare.
Pertanto, sulla richiesta di rimessione ex art. 45 c.p.p., e sulla relativa eccezione di legittimità costituzionale, si è formato giudicato interno, giacché il preteso vizio della decisione gravata è stato dedotto non già con il ricorso introduttivo del presente giudizio, ossia nei limiti e secondo le regole proprie dei mezzi di impugnazione, ma soltanto con la memoria ex art. 378 c.p.c., (in cui devono intendersi tradotti i “motivi nuovi”), destinata ad illustrare e a chiarire i motivi della impugnazione, ovvero alla confutazione delle tesi avversarie, ma non a dedurre nuove censure, né a sollevare questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio e (cfr., supra, p. 3).
Peraltro, non sarebbe diversa la decisione pur se, in ipotesi, avesse trovato applicazione l’art. 611 c.p.p., giacché, per giurisprudenza consolidata (Cass. pen., 16 dicembre 2016, n. 53630; Cass. pen., 19 aprile 2018, n. 17693; Cass. pen., 11 febbraio 2021, n. 5447), i motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata già investiti dall’atto di impugnazione originario.
Del resto, come evidenziato già in altre occasioni da questa Corte (così, tra le altre, Cass., S.U., 15 settembre 2020, n. 19175), l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale, quale effetto dell’annullamento disciplinato dal combinato disposto dell’art. 136 Cost., art. 1 della Legge Cost. n. 1 del 1953, e L. n. 87 del 1953, art. 30, non è priva di limiti, arrestandosi dinanzi alle situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili (e, dunque, al giudicato, salvo che per la materia penale, ai sensi del citato art. 30, comma 4) ovvero ai rapporti esauriti, che rimangono, quindi, regolati dalla disposizione dichiarata invalida (tra le molte: Corte Cost. sentenze n. 1 del 2014, n. 10 del 2015 e n. 43 del 2017; Cass., S.U., 2 dicembre 2008, n. 28545; Cass., 13 novembre 2018, n. 29168; Cass., 7 maggio 2019, n. 11953).
Ne consegue – come precisato dalla citata Cass., S.U., n. 28545/2008 – “che, in sede di giudizio di cassazione, solo nell’ipotesi in cui risulti ancora controverso un aspetto della vicenda processuale sia pur sotto profili diversi rispetto a quelli presi in esame in sede di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma che, con il ricorso, si assume violata, la mancata formazione di un “giudicato” (e quindi la mancanza della situazione c.d. “consolidata”) sul punto consente, alla Corte di cassazione, l’applicazione anche d’ufficio della pronuncia di incostituzionalità della norma predetta”.
Tale principio ha trovato concretezza applicativa anche in riferimento ad ipotesi di nullità, assoluta e rilevabile d’ufficio, derivanti da vizio di costituzione del giudice per illegittima composizione dell’organo (in violazione del principio di indipendenza e terzietà del giudice, quale connotato e condizione essenziale di esercizio della giurisdizione), che non si sottraggono, ai sensi dell’art. 158 c.p.c. – che fa espressamente salva la disposizione del successivo art. 161 -, al principio di conversione delle cause di nullità in motivi d’impugnazione, con la conseguenza che, in caso di mancata, tempestiva denuncia del vizio de quo attraverso lo strumento dell’impugnazione, il rilievo della detta nullità resta (come nella specie) precluso.
18.2. – Ne’, in ogni caso, l’eccezione di illegittimità costituzionale (tardivamente) sollevata sarebbe stata, in ogni caso, concludente.
Il ricorrente, anche con il “motivo nuovo” in esame, non contesta, in modo specifico e congruente, i rilievi, in fatto, su cui poggia la declaratoria di irrilevanza dell’incidente di costituzionalità, per non essere sussistenti, comunque, i presupposti materiali della rimessione “per legittimo sospetto” e ciò a prescindere anche dalla circostanza che con la prospettata incostituzionalità dell’art. 45 c.p.p. si invoca, in realtà, non tanto l’applicabilità al procedimento disciplinare di detta norma processuale, quanto “una speciale disciplina della sospensione del procedimento” (p. 17 della sentenza impugnata).
In tal senso, il richiamo (p. 37 dei “motivi nuovi”) al fatto che, in sede penale, il C.S.M. sia stato individuato come persona offesa dei reati contestati al Dott. P., perché “commessi nell’esercizio delle sue funzioni di consigliere del C.S.M.”, è privo di rilevanza in questa sede, giacché il presente procedimento disciplinare non ha ad oggetto alcun reato contestato all’incolpato e concerne illeciti dal medesimo commessi allorquando era cessato dalla carica di consigliere del C.S.M..
Infine, non può non rilevarsi – come da orientamento consolidato delle Sezioni penali di questa Corte (tra le molte: Cass. pen., 1 dicembre 1999, n. 5300; Cass. pen., 10 marzo 2014, n. 11499; Cass. pen., 4 giugno 2015, n. 23962) – che l’istituto della rimessione del processo, di cui all’art. 45 c.p.p., comportando una deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost., comma 1), giustificata dall’esigenza di salvaguardare i principi, altrettanto fondamentali, della libertà di giudizio del giudice e della inviolabilità del diritto della difesa (art. 101 Cost., comma 2, e art. 24 Cost., comma 2), ha carattere assolutamente eccezionale e comporta la necessità di un’interpretazione restrittiva delle disposizioni che lo regolano, in esse comprese quelle che stabiliscono i presupposti per la transiatio iudicii.
In siffatta ottica, la Corte costituzionale (sentenza n. 168 del 2006) ha puntualizzato che tale “eccezionale presidio – a garanzia della serenità ed imparzialità del giudizio e, quindi, in ultima analisi, dello stesso valore del “giusto processo” – e’, da sempre, previsto soltanto per il processo penale, giacché a garantire le parti dai rischi della non imparzialità e terzietà del giudice soccorrono, nelle altre sedi giurisdizionali, i diversi istituti della astensione e della ricusazione. Questa indubbia peculiarità si fonda sulla constatazione che soltanto il processo penale e’, per sua natura, idoneo a suscitare gravi emozioni e perturbamenti, specie nel luogo in cui esso si celebra. (…) Le gravi situazioni locali che turbano lo svolgimento del processo, di cui è menzione nell’art. 45 c.p.p., non possono, pertanto, che fondarsi e riflettersi su quello che è il naturale oggetto del processo penale: vale a dire, una specifica accusa mossa nei confronti di un determinato imputato; quindi, un contesto ambientale che genera una turbativa a favore o contro l’accusa o, reciprocamente, a favore o contro l’imputato”.
E, come già ricordato (tra le altre, Cass., S.U., n. 741/2020, citata), nel procedimento disciplinare dei magistrati il rispetto delle regole del codice di procedura penale incontra il limite della compatibilità con le peculiarità del procedimento stesso che non ha alcuna connotazione “penalistica” (così anche la citata sentenza della Corte EDU del 9 luglio 2013, Di Giovanni c. Italia).
Compatibilità che, dunque, è da escludere in riferimento all’applicazione dell’art. 45 c.p.p., o, comunque, ad una disciplina (come quella che ipotizza il ricorrente) che su tale norma (e sulla sua ratio) si vorrebbe che fosse conformata.
L’esito del giudizio e la regolamentazione delle spese.
19. – Il ricorso va, pertanto, rigettato e il ricorrente, in quanto soccombente, deve essere condannato, in favore del Ministero della giustizia controricorrente, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Ministero della giustizia, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 8 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2021
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